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Cinema

Scarlett Johansson: “A Hollywood mi hanno sessualizzata troppo presto. A 18 anni ero appena una ragazza”

L’attrice si confessa al podcast Table for Two: «Con Lost in Translation e La ragazza con l’orecchino di perla avevo solo 18 anni, stavo scoprendo me stessa. Mi sono sentita costretta a diventare un’attrice bon ton per via degli uomini».

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    Hollywood l’ha consacrata giovanissima, ma a caro prezzo. Scarlett Johansson, oggi 40enne e madre di due figli, è tornata a parlare dei suoi primi anni da attrice e della sensazione di essere stata etichettata troppo in fretta come un’icona sexy. Nel podcast Table for Two, la star ha ricordato l’impatto devastante dei suoi primi ruoli da protagonista: Lost in Translation di Sofia Coppola e La ragazza con l’orecchino di perla di Peter Webber.

    «Ho fatto quei film quando avevo 18 o 19 anni – racconta –. Stavo appena scoprendo la mia femminilità, i miei desideri, la mia sessualità. E invece mi sentivo già costretta in un ruolo ipersessualizzato. In un certo senso, come se dovessi diventare un’attrice bon ton per via degli uomini».

    Due pellicole d’autore che avrebbero dovuto aprire ogni strada, ma che finirono per incasellarla nello stereotipo della “giovane seduttrice”, un’immagine che l’ha accompagnata per anni, complicando la possibilità di essere scelta per parti più sfaccettate.

    «È stato difficile liberarsi di quella etichetta – spiega ancora Johansson –. Per molto tempo mi sono portata addosso il peso di un’immagine che non coincideva con la mia realtà personale. Solo più avanti, con ruoli diversi e con la maturità, ho iniziato a trovare davvero la mia voce».

    Un’ammissione che getta luce su un meccanismo antico quanto lo star system: il bisogno di confezionare “icone sexy” anche a costo di bruciare la complessità delle persone dietro ai personaggi. Scarlett, che negli anni ha conquistato credibilità sia come attrice drammatica che come eroina action della Marvel, oggi può dirlo senza esitazioni.

    «Da ragazza mi sono sentita ridotta a un corpo – conclude –. Oggi so che il mio lavoro è molto di più. Ma per arrivarci, ho dovuto combattere».

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      Cinema

      Jude Law, Il mago del Cremlino: la politica di Putin raccontata attraverso lo sguardo di un burattinaio

      Il nuovo film in concorso a Venezia di Olivier Assayas, tratto dal romanzo di Giuliano da Empoli, indaga l’ascesa autoritaria attraverso la mente di un insospettabile manipolatore.

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      Jude Law

        In concorso al 82° Festival di Venezia, Il mago del Cremlino (The Wizard of the Kremlin) di Olivier Assayas ritorna sui tanti luoghi oscuri della politica contemporanea. Tratto dal romanzo omonimo di Giuliano da Empoli. Firmato in co-sceneggiatura con Emmanuel Carrère – l’opera propone un affresco della Russia post-sovietica. Delineando l’ascesa di Vladimir Putin attraverso gli occhi del suo consigliere occulto, un “Rasputin moderno” interpretato da un sottilmente minaccioso Paul Dano. Artefice del successo politico di un giovane agente del KGB, Putin è invece impersonato da un luciferino Jude Law. La cui freddezza scenica domina lo schermo.

        Il film si dipana lungo oltre trent’anni di storia russa (1990–2014), saldando eventi reali – il disastro del sottomarino Kursk. Le guerre in Cecenia, l’annessione della Crimea, le operazioni digitali nei confronti dell’Occidente – con la finzione disincantata del romanzo.

        Jude Law ha affrontato il ruolo con una preparazione quasi ossessiva. Al Lido ha raccontato di essere scivolato in un “rabbit hole” di video e interviste di Putin, cercando di catturarne l’imperscrutabilità. “Il volto pubblico non rivela nulla”, ha spiegato, e proprio in quel contrasto ha costruito la verità della sua performance. Law ha voluto evitare una maschera o una parrucca esasperata. Il look si è risolto con un trucco sobrio e un accento misurato, per lasciare parlare l’unica cosa che conta: la fredda ambizione di un dittatore.

        Paul Dano, nel ruolo di Vadim Baranov (ispirato a Vladislav Surkov), domina con una presenza rarefatta, una voce sommessa e una determinazione disturbante. Critici come Jonathan Romney hanno evidenziato come il suo interpretazione sembri ipnotica e ambigua. Ma la sua figura resta il centro morale e tematico del film: l’architetto silenzioso del regime.

        La regia di Assayas mantiene un registro elegante e articolato, valorizzando i luoghi simbolo della transizione russa. Dalla Russia devastata dei primi anni Novanta fino a una modernità distopica, passando per i palazzi del potere, le foreste, gli ambienti tecnologici e le città devastate. È una geografia del controllo, così come il film narra “politica come arte”: astuta, sfuggente, inquietante.

        La ricezione al Festival è stata intensa. Law è stato accolto da una standing ovation di dieci minuti, suggellando il suo ritratto magnetico e inquietante. Alicia Vikander, nel ruolo di Ksenia, figura femminile che incarna emancipazione e cambiamento. Ha definito la sua parte uno specchio della Russia post-comunista: una donna in trasformazione, fragile e speranzosa.

        Ma per alcuni, il film paga il suo ambizioso impianto narrativo con una densità di dialoghi e una voce off troppo invadente, che rende la visione più documentaristica che romanzesca. La freddezza stilistica, per alcuni critici, limita lo sviluppo emotivo dei personaggi, con Baranov e il suo potere che restano più archetipi che esseri umani complessi.

        In conferenza stampa, Assayas ha sottolineato che il suo film non vuole essere una biografia di Putin, ma un avviso: «È una riflessione su cosa è diventata la politica oggi. Abbiamo preso Putin, ma si applica a tanti leader autoritari».

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          Cinema

          Sophie Codegoni all’assalto di Jacob Elordi a Venezia: “Dal vivo è ancora più bono”. Lui fugge

          Scene da cinepanettone alla Mostra del Cinema: l’influencer tenta di abbordare la star di “Euphoria” tra flash e urla, ma Elordi preferisce scappare. A rincarare la dose ci pensa l’amica: “Sposami!”.

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            Non bastavano i red carpet, le première e i party blindatissimi. A Venezia 82 si è consumata anche una parentesi comico-grottesca con protagonista Sophie Codegoni. L’influencer, ex gieffina ed ex fiamma di Alessandro Basciano, ha tentato la mossa disperata: avvicinare Jacob Elordi, il bel tenebroso di Euphoria e Priscilla.

            Missione impossibile. Tra flash, bodyguard e un’orda di fan urlanti, Sophie si è letteralmente accalcata per strappare un contatto con l’attore. «Dal vivo è ancora più bono», ha gridato davanti a telecamere e smartphone. Elordi, impeccabile nel completo scuro, ha fatto quello che in tanti avrebbero sognato di fare: girarsi dall’altra parte e allontanarsi senza pensarci due volte.

            Come se non bastasse, a peggiorare la scena ci ha pensato l’amica di Sophie: a pieni polmoni ha chiesto a Elordi di sposarla. Risultato? Una fuga degna di un film d’azione: la star si dilegua, l’influencer resta lì a raccogliere applausi sarcastici e qualche meme già pronto per i social.

            Insomma, momenti di pura demenzialità sulla Laguna. Sophie Codegoni voleva la favola romantica, ma a Venezia ha messo in scena una commedia involontaria che neanche i Vanzina.

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              Cinema

              Emma Stone a Venezia 2025: «Credo negli alieni. Anzi, forse io stessa lo sono».

              In concorso a Venezia arriva Bugonia, commedia sci-fi folle con Jesse Plemons e Aidan Delbis. Emma Stone racconta il taglio di capelli, gli allenamenti per le scene di lotta e la difficoltà di essere divi: «Abbiamo un avatar pubblico e poi la persona vera».

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                «Credo negli alieni. Anzi, forse io stessa sono aliena». Emma Stone, tubino nero smanicato, ha scelto la Mostra del Cinema di Venezia per la sua battuta più virale. L’occasione è la presentazione di Bugonia di Yorgos Lanthimos, in concorso al festival. Una commedia sci-fi brillante e surreale, remake del cult sudcoreano Save the Green Planet! (2003) di Jang Joon-hwan.

                Il film mette in scena Teddy e Don, due nerd ossessionati dalle teorie del complotto, interpretati da Jesse Plemons e Aidan Delbis. Convinti che la potente Ceo di una multinazionale farmaceutica (Stone) sia un’aliena pronta a distruggere la Terra, decidono di rapirla e rasarla a zero. Tra colpi di scena e ironia dark, la pellicola riflette su ossessioni contemporanee, fake news e catastrofi ambientali.

                Per Stone si tratta della quarta collaborazione con Lanthimos, dopo The Favourite, Poor Things e Kinds of Kindness. «Lavorare con lui mi dà l’opportunità di esprimermi sempre in maniera diversa. Il fatto che si accompagni sempre alle stesse persone ha creato tra noi una famiglia», ha spiegato.

                Non è mancato il riferimento al tema della celebrità, che attraversa anche il concorso veneziano con Jay Kelly di Noah Baumbach e George Clooney: «È difficile parlare di questo. Abbiamo un avatar pubblico per certe cose, e poi c’è la persona vera quando sono con i miei amici». Una confessione che riecheggia il sottotesto del film, sospeso tra maschere e identità.

                L’attrice è tornata anche sul discusso taglio di capelli durante le riprese: «È stato difficile accettarlo, ma poi mi sono adattata». E sulle scene d’azione: «Per i combattimenti con Jesse Plemons mi sono allenata molto, anche se abbiamo usato diversi stuntmen».

                Dal canto suo, Lanthimos ha spiegato che Bugonia non è un film distopico: «Riflette il mondo reale, quello che succede adesso. Racconta cose che non vediamo o non vogliamo vedere, come il cambiamento climatico che sta rovinando tutto». Il regista ha anche rifiutato la distinzione tra cinema indie e grandi studios: «Non ho mai amato categorizzare. Bisogna uscire dai pregiudizi».

                Plemons, da sempre parco nelle parole, ha descritto il suo Teddy come «un’anima in pena che cerca con tutte le forze di aiutare gli altri, la sente come la sua unica mission». Un personaggio fragile e disturbante, capace di spiazzare lo spettatore. «Certo, per alcuni il film può essere disturbante – ha detto l’attore – ma esiste in tutti noi un istinto a evitare ciò che ci minaccia, anche se sappiamo che esiste».

                Curiosità finale: il titolo Bugonia viene dal greco antico e significa “nascita del bue”. Si riferisce a un mito secondo cui dalle carcasse dei buoi morti nascevano le api, un equivoco simile alla teoria della generazione spontanea. Perfetto per un film che vive di ossessioni, equivoci e paure contemporanee.

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