Cinema
Vi raccontiamo come nacquero i Blues Brothers

Una coppia inconfondibile, a partire dagli occhiali neri, il completo, la cravattina sottile… e poi le movenze: i Blues Brothers appartengono di diritto all’immaginario collettivo degli anni ’80 e oltre.
Nel 1978 il loro escordio in tv
Le origini risalgono alla passione di Dan Aykroyd per il blues e di John Belushi per il punk rock. Due tendenze musicali apparentemente lontane che troveranno in seguito una sintesi. Il 22 aprile 1978, durante una delle tre puntate condotte dal comico Steve Martin dello show più visto della televisione americana, il Saturday Night Live, Dan Aykroyd e John Belushi esordiscono nei panni dei Blues Brothers eseguendo live Hey Bartender, un brano del 1955 di Floyd Dixon.
Un film leggendario
Nascono così due personaggi destinati a diventare un fenomeno della cultura pop e della musica. Due anni dopo il regista John Landis trasforma lo sketch in un film, The Blues Brothers che esce il 20 giugno del 1980, guadagna 115 milioni di dollari (era costato 27,5 milioni, dieci in più del budget iniziale previsto). La pellicola entra a pieno titolo nella storia del cinema e contribuisce a rilanciare un intero genere musicale.
Uno spot per la scena blues e soul
Grazie alle strambe avventure di Jack e Elwood, «in missione per conto di Dio», il pubblico entrerà in contatto con alcune leggende del blues e del soul. Come Aretha Franklin, Cab Calloway, Ray Charles e John Lee Hooker, oltre ai membri della house band della Stax Records che accompagneranno Belushi e Aykroyd in tour negli USA immediatamente dopo l’uscita del film.
Che ci fanno insieme un bluesman bianco e un punk?
Le origini dei Blues Brothers, dicevamo, risalgono alla passione di Aykroyd per il blues. Che frequentava assiduamente il club Le Hibou a Ottawa, meta fissa dei tour di tutti i grandi bluesman americani. Quando lascia la scuola per inseguire il sogno di diventare attore, Aykroyd inizia anche a suonare l’armonica. John Belushi invece viene dal punk rock, cresciuto nei locali underground di Chicago. A New York ha anche suonato la batteria con i Dead Boys nel 1978 (sostituendo il batterista della band, Johnny Blitz, che era stato accoltellato). Sarà proprio Dan Aykroyd a far scoprire a John Belushi il blues («Sei di Chicago, non puoi non conoscere il blues» sembra che gli abbia detto). Sempre Aykroyd prende ispirazione da alcuni dei suoi artisti preferiti: i passi di danza di Jack e Elwood sono quelli di Sam & Dave, cappello e occhiali neri vengono presi in prestito da John Lee Hooker.
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Cinema
Il parere di Robert De Niro: il mito della Lollo vive attraverso Monica Bellucci
C’è un’erede per l’intramontabile Sophia Loren? Secondo uno dei più grandi attori di sempre, la risposta è sì. Robert De Niro, icona del cinema internazionale, ha indicato senza esitazioni Monica Bellucci come la degna erede della diva di Pozzuoli. Un’affermazione che accende i riflettori su due volti straordinari del cinema italiano: il mito senza tempo e la bellezza contemporanea.

Sofia Costanza Brigida Villani Scicolone, in arte Sophia Loren, è molto più di un’attrice: è un’icona mondiale. Nata a Pozzuoli nel 1934, ha saputo conquistare il pubblico con il suo fascino mediterraneo e un talento recitativo fuori dal comune. Premi Oscar, collaborazioni leggendarie con registi del calibro di Vittorio De Sica e una carriera che ha spaziato tra Europa e Stati Uniti hanno consolidato il suo status di leggenda. Nel 1960 ha vinto l’Oscar come miglior attrice per La Ciociara, prima interprete a ottenere il premio per una performance non in lingua inglese. Nel 1991 l’Academy le ha conferito un Oscar alla carriera, consacrandola tra le stelle eterne del grande schermo.
Chi può raccogliere l’eredità di Sophia?
Con il passare degli anni, Loren si è ritirata a vita privata in Svizzera, ma il suo mito resta vivo. La domanda, dunque, è inevitabile: esiste oggi una sua erede nel panorama cinematografico? Secondo Robert De Niro, assolutamente sì.
De Niro non ha dubbi: “Monica Bellucci è la nuova Sophia Loren”
In un’intervista rilasciata a Sky Cine News, Robert De Niro ha indicato Monica Bellucci come la naturale erede di Sophia Loren. “Era necessario avere accanto la donna per eccellenza – ha dichiarato – e questa doveva essere Monica, oppure qualcuno come Claudia Cardinale”. I due attori hanno condiviso il set nel film Manuale d’Amore 3 di Giovanni Veronesi, dove De Niro interpreta un professore e la Bellucci incarna il fascino e l’eleganza di una donna magnetica. “Sono stato felice di lavorare con lei – ha aggiunto l’attore – Monica ha qualcosa di speciale”.
Bellucci e Loren: due epoche, un solo mito
Non è un caso se Monica Bellucci è oggi considerata una delle grandi dive del cinema. Conosciuta per la sua grazia, la voce profonda e la bellezza tipicamente italiana, ha conquistato anche il pubblico internazionale. Dal Festival di Cannes alla Mostra del Cinema di Venezia, la sua presenza incanta le platee di tutto il mondo. Nel corso della rassegna veneziana dedicata alle icone del cinema italiano, Bellucci e Loren sono state protagoniste di una mostra fotografica insieme ad altre grandi interpreti come Virna Lisi, Gina Lollobrigida e Monica Vitti. Un omaggio che unisce passato e presente, suggellando il passaggio ideale di testimone.
Due simboli, una sola anima italiana
Monica Bellucci non è solo un’attrice, ma un simbolo della continuità e della forza del cinema italiano nel mondo. L’elogio di De Niro non è casuale: rappresenta il riconoscimento internazionale di un’eredità che si rinnova, senza dimenticare le radici. Come Sophia Loren ha aperto la strada alle attrici italiane nel mondo, Monica Bellucci continua a portarne alta la bandiera. Due donne, due carriere straordinarie, unite da un carisma senza tempo e da un’eleganza che solo il grande cinema sa esprimere.
Cinema
Nino D’Angelo, una vita in 18 giorni: il documentario del figlio Toni emoziona Venezia
Dal dolore dell’addio a Napoli alla rinascita artistica, il cantautore si racconta senza filtri. Il film diretto dal figlio Toni ripercorre i momenti più intensi di un percorso umano e professionale unico.

È questo il ritratto che emerge da Nino. 18 giorni, il documentario presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e diretto da Toni D’Angelo, figlio del celebre cantautore e attore napoletano. Un viaggio intimo che unisce la storia personale e quella artistica, tra conquiste e sacrifici.
L’addio a Napoli e il peso delle scelte
Ai microfoni di Oggi, Nino D’Angelo ha ripercorso una delle decisioni più difficili della sua vita: lasciare la sua città. «Negli anni Ottanta Napoli viveva una guerra di camorra, temevo per i miei figli e mia moglie. È stato un dolore immenso andare via dai miei affetti, dalle mie radici», ha raccontato. Una ferita che, a distanza di anni, resta viva: «Se dovessi rinascere, vorrei farlo esattamente come la prima volta. È più bello conquistare ogni cosa giorno dopo giorno».
Dal caschetto biondo alla depressione
Simbolo di un’epoca, il celebre caschetto biondo è stato per D’Angelo una maschera di cui a un certo punto ha sentito il bisogno di liberarsi. «Tagliarlo è stato come rinunciare a una parte di me, ma anche un atto di verità. Mi sono reso conto che quel personaggio non ero io. Per un periodo ho vissuto una forte depressione, non sapevo più chi fossi», ha confessato.
Ricchezza e felicità: il paradosso della vita
Il documentario esplora anche la dimensione più intima dell’artista: il rapporto con la ricchezza e la felicità. «Quando hai tutto è difficile essere felice. Io lo sono stato molto più da povero che da ricco», ha detto con disarmante sincerità. Una riflessione che illumina il percorso di un uomo rimasto fedele alle proprie origini popolari, anche quando la fama lo aveva portato lontano.
Un viaggio nei luoghi della memoria
Nino. 18 giorni si apre con immagini di San Pietro a Patierno, quartiere natale del cantante, e attraversa i luoghi simbolo della sua vita: Casoria, dove ha iniziato a costruire la sua carriera e la sua famiglia, fino a Palermo, dove la sceneggiata che lo consacrò al grande pubblico andava in scena proprio mentre nasceva suo figlio Toni. Un destino intrecciato: Nino vide il bambino solo 18 giorni dopo, e da quell’attesa prende titolo il film.
Il racconto di un uomo, oltre l’artista
Il documentario non si limita a celebrare la carriera di D’Angelo, ma indaga l’uomo dietro al mito popolare: le fragilità, la lotta per l’identità, il rapporto con il successo e con le proprie radici. Toni D’Angelo, già regista affermato, ha scelto di restituire un ritratto lontano dall’agiografia, mettendo al centro il padre nella sua dimensione più vera.
Con Nino. 18 giorni, Venezia ha applaudito non solo un artista simbolo della cultura napoletana, ma un uomo che ha saputo attraversare luci e ombre restando fedele alla propria essenza.
Cinema
Kathy Bates e i fantasmi di Misery: “Mi sentivo impreparata, come una contadinotta”
L’attrice premio Oscar ripercorre l’esperienza che le cambiò la vita: dal disorientamento sul set al successo travolgente. Una carriera costruita tra fragilità iniziali e ruoli indimenticabili.

Kathy Bates non dimenticherà mai l’esperienza di Misery non deve morire, film che nel 1990 la consacrò come una delle attrici più potenti del cinema americano. Intervistata da Variety, l’interprete di Annie Wilkes ha raccontato senza filtri il disorientamento provato all’epoca: un successo improvviso che la travolse e la mise a confronto con le proprie insicurezze.
“C’è una foto di me mentre scendo da un’auto con un bavaglino di pizzo nero e un reggiseno bianco sotto. Sembravo ridicola. Vivevo tutto come un incubo. Mi sentivo una contadinotta capitata per caso in un mondo troppo grande per me”, ha ricordato Bates, oggi 76enne.
Una vittoria che pesa
Con Misery, tratto dal romanzo di Stephen King e diretto da Rob Reiner, Bates vinse l’Oscar come miglior attrice protagonista per il ruolo della fan psicopatica che sequestra lo scrittore interpretato da James Caan. Un traguardo enorme, arrivato però in un momento in cui lei stessa non si sentiva pronta.
“Guardando indietro, mi sono sentita non protetta. Non avevo idea di cosa stessi facendo. Ero una ragazza di Memphis, figlia di genitori anziani, e vent’anni indietro rispetto ai tempi. Non conoscevo niente di quel mondo, e quella sensazione mi ha perseguitata per anni”, ha raccontato.
Le difficoltà sul set e il rimprovero a Reiner
Il regista Rob Reiner, in passato, aveva confermato le incertezze dell’attrice, sottolineando come quell’ingenuità fosse paradossalmente vicina alla goffaggine e alla follia del personaggio di Annie Wilkes. Bates, invece, ritiene che il problema fosse più profondo. “Non ero solo inesperta. Mi mancavano gli strumenti per affrontare l’impatto emotivo e mediatico del cinema. Venivo dal teatro, ma il cinema era un’altra cosa”.
Con ironia, l’attrice ha persino scherzato sul finale del film, rimproverando bonariamente Reiner: “Perché non mi hai fatto tagliare il piede a James Caan, come nel libro?”. Una battuta che racconta il suo rapporto complesso ma affettuoso con quel set.
Dopo Misery, una carriera di conferme
Nonostante le incertezze, Misery aprì a Bates le porte di Hollywood. Solo un anno dopo fu protagonista di Pomodori verdi fritti alla fermata del treno, anche quello un ruolo che la mise a dura prova. “Non mi sentivo all’altezza, ma andai avanti”, ha confessato.
Il resto è storia del cinema: da Titanic di James Cameron a Primary Colors, da A proposito di Schmidt fino al cult Waterboy con Adam Sandler. Bates ha attraversato generi diversi, dimostrando una versatilità unica, fino a diventare una presenza fissa anche in televisione con American Horror Story.
Il peso della fragilità
Quella fragilità iniziale, ammette oggi, è stata però anche una risorsa: “Il senso di inadeguatezza mi ha permesso di avvicinarmi ai personaggi con umiltà. Ho imparato a trasformare le mie insicurezze in emozioni autentiche da portare sullo schermo”.
Kathy Bates è ormai un’icona di Hollywood, ma non dimentica le difficoltà che hanno segnato i suoi primi passi. Il ruolo di Annie Wilkes le ha cambiato la vita, tra paure e riconoscimenti, lasciando un segno indelebile nella storia del cinema.
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