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Musica

Il “Natale in trincea” di Elio e Le Storie Tese (video)

La band milanese torna con una nuova canzone il cui titolo, Natale in trincea, è già una perfetta fotografia dei tempi che stiamo vivendo. Ancora una volta dicendo cose serie ridendo, un’arte che in pochi sanno praticare…

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    Con la chitarra e il basso di una delle band più amate degli ultimi 35 anni, rispettivamente Cesareo e Faso, parliamo della nuova canzone di Natale del cosiddetto “allegro complessino“, uscita da pochissimi giorni. Un brano coi consueti accenti tipici della band – Natale in trincea -ma che fa anche riflettere, a partire dal titolo più che mai drammaticamente attuale.

    La metafora della trincea

    Un brano dalla doppia lettura, come spiega Cesareo: «Stare in trincea era un inferno assoluto, starci era incredibilmente sofferente, con il freddo e la fame, senza nemmeno un posto per fare in maniera dignitosa i bisogni, lì dentro si ammalavano e ci morivano. Quindi a Natale stiamo in trincea perché così, da un punto di vista ci proteggiamo, ma dall’altro stiamo vivendo un periodo terrificante. Non c’è quasi un posto sul pianeta che non abbia un conflitto vicino. Vi sareste mai immaginati di essere nel 2024 sull’orlo di una terza guerra mondiale?».


    Poi sempre il chitarrista ammette: «Le poche volte in cui ci esponiamo per fare i seri è perché l’argomento ci tocca, vedi Parco Sempione o La terra dei cachi. Non usiamo la nostra musica per fare i comunicatori o i fenomeni che evidenziano i problemi del mondo più di altri, ogni tanto però abbiamo voglia di sottolineare. E lo facciamo usando sempre un linguaggio nostro, scherzoso, perché da anni il nostro mestiere è fare musica divertendoci e divertendo…». Faso, con la consueta vis comica, aggiunge: «Come diceva Rocco Siffredi, sempre con la massima ironia e umiltà».

    Fanno ridere ma anche pensare

    Riprende Cesareo «Esatto, questa è la sintesi. Non siamo quelli che infilano il preservativo sul microfono al concerto del Primo maggio, noi andiamo a cantare le nostre cose, che hanno già un significato senza fare atti clamorosi. Al limite, i nostri atti clamorosi sono i travestimenti a Sanremo, dove non volevamo dare nessun messaggio ma sorridere e divertirci».

    La dinamica della risata

    Il bassista Faso insiste sul concetto di umorismo: «Cos’è che fa ridere? Una forzatura, non una cosa politicamente corretta. Fondamentale è chi fa l’affermazione, perché una stessa frase può essere volgarissima o non esserlo per niente. A noi è capitato spesso. Se uno sente adesso la nostra canzone Omosessualità, pensa che siamo da picchiare. In realtà non è così perché avevamo fatto nostre tutte le stronzate che venivano dette sul tema. Non a caso, ci diedero un premio. E chi? Un circolo culturale gay».

    Un concetto, quello della diversità, che ritorna in altre loro canzoni: «Anche in Supergiovane c’è un punto che dice “mi piace quel ragazzo perché? Sto diventando forse ricchione?”, è un linguaggio che oggi non sarebbe accettato. I nostri fan che sui social citano Il vitello dai piedi di balsa, “l’orsetto ricchione” non lo possono scrivere».

    Sempre Faso – tra l’altro uno degli strumentisti più bravi in Italia – allarga il discorso al potere della musica sui problemi sociali: «Ci sono canzoni che hanno fatto cose bellissime, ad esempio We are the World. Ho visto di recente il documentario La notte che ha cambiato il mondo, non mi ero mai soffermato sulla potenza di ciò che erano riusciti a fare mettendo insieme quello stuolo di cantanti strepitosi. E ho scoperto che ancora oggi quella canzone genera proventi per fare cose belle. Ogni tanto gli artisti si inventano delle figate pazzesche, allora uno si domanda: perché se le devono inventare gli artisti? Mi fa riflettere anche che sia stato George Harrison l’inventore dei concerti di beneficenza quando organizzò quello per il Bangladesh. Non voglio parlare di Elio e le Storie Tese, ma dico che noi con ironia magari qualche messaggino lo facciamo passare. Come nel caso di questa canzone di Natale. Perché in trincea? Perché si sparano tutti dappertutto, se vogliamo fare un’altra sintesi. Siamo nel terzo millennio e ci si uccide à gogo».

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      Musica

      Iva Zanicchi ricorda Ornella Vanoni: «L’ho amata tantissimo», ma riaffiora una vecchia frase che oggi suona davvero imbarazzante

      L’Aquila di Ligonchio parla di un legame artistico profondo, ma nella memoria riaffiora un giudizio lontano che oggi stride con il dolore per la scomparsa della cantante milanese

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        Sono giorni di ricordi, nostalgia e parole pesanti di emozione attorno alla figura di Ornella Vanoni. Tra le voci che l’hanno salutata con calore c’è quella di Iva Zanicchi, che in queste ore ha raccontato di averla «sempre amata tantissimo», ripercorrendo decenni di palcoscenico condiviso. «Insieme abbiamo fatto tante cose. Ho tanti ricordi con lei, abbiamo fatto Sanremo insieme, la Mostra internazionale di musica leggera, Canzonissima. L’ho sempre amata e stimata tantissimo, lei era sincera, spietatamente sincera», ha dichiarato la Zanicchi con evidente commozione.

        Due regine della musica italiana

        Vanoni e Zanicchi hanno attraversato, da protagoniste, stagioni irripetibili della musica italiana. Diversissime nella voce, nella presenza scenica e nell’immaginario, sono però rimaste legate da un percorso artistico parallelo fatto di incontri, tensioni e rispetto reciproco. Iva oggi ne restituisce un ritratto affettuoso, quasi intimo, ricordando una collega capace di «spietata sincerità», in scena come nella vita.

        Quel vecchio giudizio che torna a galla

        Eppure, scavando nella memoria collettiva, riaffiora un episodio curioso: quando, molti anni fa, proprio Iva Zanicchi si lasciò sfuggire, con ironia o con leggerezza, la frase secondo cui Ornella Vanoni «non sapesse cantare». Un giudizio che all’epoca fece rumore e che oggi, riletto alla luce delle sue parole, assume tutt’altro sapore. Non c’è polemica, non c’è rievocazione amara: solo il gioco spesso crudele del tempo.

        Un addio segnato dall’affetto

        Oggi resta la riconoscenza e resta il senso di perdita per una figura che ha segnato un’epoca, oltre la musica, oltre le polemiche e le battute. E nelle parole di Iva c’è l’eco di una stagione in cui due donne, così diverse, hanno visto e costruito pezzi importanti della stessa storia.

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          Musica

          Beyoncé al Gran Premio di Las Vegas in tuta Ferrari super attillata: look da corsa, curve esplosive e tifoseria d’eccezione

          Prima l’ingresso nel paddock in pelle bianca stile motociclista, poi la trasformazione in tifosa Ferrari con una tutina rossa e nera aderentissima: Beyoncé ha catalizzato l’attenzione sugli spalti del GP di Las Vegas, mentre in pista la scuderia non è riuscita a mantenere le aspettative.

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            Il weekend di Las Vegas ha offerto glamour e motori, ma sulle tribune gli occhi erano soprattutto su Beyoncé. La cantante è apparsa al fianco di Jay-Z con un look da motociclista in pelle bianca decorato da inserti neri e rossi, completato da stivali a spillo e guanti senza dita. Un ingresso «da urlo», come l’hanno definito i commentatori presenti al circuito.

            La trasformazione da tifosa Ferrari
            Per la gara notturna Beyoncé ha scelto un secondo look, ancora più appariscente: una tutina racing rossa e nera con dettagli metallici e una cerniera gioiello dorata, aderentissima e impossibile da ignorare. L’artista si è mostrata sorridente in tribuna, scattando foto e incitando la Rossa, circondata da amici e staff.

            In pista non è andata come sperato
            L’effetto Beyoncé però non ha portato fortuna alla scuderia. Nonostante l’entusiasmo sugli spalti, la Ferrari ha faticato a trovare ritmo per tutta la gara, con Charles Leclerc che ha chiuso al quarto posto e Lewis Hamilton ottavo. Un esito sotto le attese, soprattutto in un appuntamento così scenografico per la Formula 1.

            Il pubblico, intanto, ha continuato a osservare divertito le reazioni della star americana, diventata in poche ore uno dei volti simbolo del fine settimana del GP. E, come sempre, i social hanno amplificato ogni sguardo, ogni posa e ogni curva della popstar texana.

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              Robbie Williams: “Sto perdendo la vista per colpa del Mounjaro, ma continuerò a usarlo”

              Robbie Williams racconta di star perdendo la vista dopo mesi di Mounjaro, il farmaco anti-obesità diventato un fenomeno globale. Il cantante ammette di fare fatica a distinguere i fan ai concerti e collega il problema alle iniezioni dimagranti. Intanto le agenzie regolatorie monitorano da vicino possibili effetti collaterali oculari, mentre cresce l’allarme su una rara neuropatia del nervo ottico.

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                Robbie Williams non è nuovo a confessioni intime, ma questa volta il tono è più cupo del solito. Nell’intervista rilasciata al The Sun, l’ex Take That racconta di temere addirittura la perdita della vista a causa delle iniezioni di Mounjaro, il farmaco GLP-1 diventato popolare tra chi vuole dimagrire velocemente. E a far scattare il campanello d’allarme è stato un episodio all’apparenza banale: una partita di football americano vista in TV. “Non riuscivo a distinguere i giocatori, erano solo macchie verdi su uno sfondo verde”, ha ricordato.

                Convinto che non fosse un normale segnale dell’età, Williams si è rivolto subito a un ottico. La diagnosi? Una variazione improvvisa e importante della prescrizione, tanto da richiedere un cambio di occhiali. “Non credo sia l’età. Credo siano le iniezioni di Mounjaro”, ha dichiarato. Parole che hanno fatto il giro del mondo, non solo perché pronunciate da una star planetaria, ma perché toccano uno dei nodi più delicati legati ai nuovi farmaci anti-obesità.

                Il cantante, 50 anni, ha ammesso che il problema sta iniziando a influenzare anche la sua vita sul palco: vedere chiaramente il pubblico, specialmente nelle platee più ampie, è sempre più difficile. Eppure, nonostante tutto, Williams dice di non essere pronto a interrompere la terapia. “Sono così malato che probabilmente continuerò finché non mi sarà completamente scomparsa la vista da un occhio”, la frase choc.

                Intanto il suo caso riaccende i riflettori sugli effetti oculari segnalati da alcuni pazienti che assumono Mounjaro, semaglutide e altri GLP-1. In diversi paesi, le autorità sanitarie stanno monitorando un possibile legame con una rara neuropatia del nervo ottico, una condizione che, se non individuata in tempo, può portare a gravi conseguenze visive. Ad oggi, gli esperti non hanno trovato un nesso causale certo, ma le segnalazioni sono abbastanza numerose da invitare alla prudenza.

                Williams stesso sottolinea di non voler demonizzare il farmaco. Il suo obiettivo, dice, è solo raccontare ciò che gli sta accadendo. E lo fa senza perdere il suo consueto tono tagliente: “Io non sono un esempio da seguire, mai stato. Ma se succede a me, può succedere a chiunque”.

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