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Personaggi e interviste

Ricky Gianco ne ha per tutti: Celentano dispotico, Jannacci medico mediocre, Paoli amicone

Canta e compone dal 1954, Gianco è un artista trasversale che ha cavalcato il pop e il rock’n’roll col medesimo entusiasmo. Vivendo in prima persona la grande stagione dei cantautori , con amici fidati in ambito artistico e tanti ricordi.

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    Sono settant’anni dalla sua prima volta su un palco, a Varazze nel 1954. 60 anni tondi tondi di musica, dal rock’n’roll al pop, frequentando anche il cantautorato impegnato, ha composto, interpretato e scritto per altri svariate hit: Pregherò, Sei rimasta sola, Pugni chiusi, Pietre, Il vento dell’Est… tanto per citare qualche titolo. Un 80enne con qualche acciacco (e chi non ne ha?) ma con una proverbiale verve che gli consente, ancora oggi, di non fermarsi.

    Ma Gianco non è di quelli che si fermano o, peggio, si fanno prendere dallo sconforto. E’ sempre stato così, fin dai suoi inizi in una Milano che, all’epoca, rappresentava una fertilissima fucina di artisti. A partire dal Clan di Celentano, sul quale però ha da ridire qualcosa.

    Ricky, quando avvenne il tuo debutto ufficiale nel mondo della musica?

    «In quel di Varazze, a 11 anni: un’amica di mia mamma, che mi apprezzava molto, mi aveva iscritto a un concorso per voci nuove…».

    I tuoi inizi con il rock’n’roll da cosa sono stati determinati?

    «Dal fatto che, fin da bambino, sono sempre stato un ribelle. Quella musica rappresentava un calcio alla cultura ottocentesca che pervadeva il nostro Paese. All’inizio era una sorta di culto per pochi, non la conosceva quasi nessuno: per ascoltarla l’unico modo era sintonizzarsi su Radio Luxembourg e per acquistare i dischi dove andare fino a Lugano. La versione originale di Pregherò (Stand by me di Ben E. King, ndr) l’avevo scoperta così».

    Del Clan di Celentano che ricordi hai?

    Che, a dispetto del nome, non era un clan ma una corte con un sovrano. E a me non piaceva per niente essere il cortigiano, anche se di un genio assoluto come Adriano. Dopo un anno e mezzo abbandonai: voleva che passassimo l’estate con lui mentre girava un film. Avevo la mia vita, una fidanzata e un’auto nuova… E poi per fare cosa? Stare a guardarlo come quando giocava a biliardo e ci voleva tutti lì? Io volevo fare cose, viaggiare, andare in Inghilterra o in America dove la musica “avveniva”, mica passare il mio tempo al bar sotto casa. Malgrado tutto gli voglio bene ma non lo vedo né sento da anni. Altri ex non l’hanno mai perdonato. Gli devo molto per altro: il successo al Cantagiro del 1962, per esempio.

    Invece con la “scuola genovese”, che sembrerebbero molto diversi da te… la sintonia fu immediata, no?

    Il fautore di tutto fu Nanni Ricordi che aveva i migliori in scuderia. Con Gino (Paoli, ndr) legammo subito, è come se fosse stato mio fratello maggiore. Allora le canzoni o si scrivevano o si cantavano, lui fu il primo a fare entrambe le cose, anche se non fu capito subito. Umberto Bindi, grande musicista, era sottovalutato e ostacolato perché considerato gay. Tenco lo conoscevo bene: era un ragazzo allegro e intelligente, con un carattere molto diverso dalla narrazione ufficiale, non certo l’artista torturato ed introverso “alla James Dean”. Per questo ancora oggi personalmente sono convinto che non si sia suicidato.

    E allora cos’è successo secondo te?

    Ho sempre detto e ridico che il suicidio non corrisponde al Luigi che conoscevo io. Anche quello di Paoli: la pallottola vicino al cuore c’è, ma addirittura spararsi? E se si fosse trattato di un semplice incidente?».

    Il nostro Luca Varani con Paoli e Gianco: tre amici al bar?

    Com’era la grande Milano dei tuoi ricordi?

    I miei durante la guerra erano sfollati in campagna per sfuggire ai bombardamenti. Io sono nato all’opsedale di Lodi. Finita la guerra siamo tornati a Milano, in un quartiere borghese abbastanza centrale che però confinava con un altro proletario e malfamato, il Giambellino. Quello cantato da Giorgio Gaber. A quel tempo i miei amici più stretti erano Pietruccio Montalbetti dei futuri Dik Dik, Cochi Ponzoni e Moni Ovadia».

    Poi è arrivato il celebratissimo Derby, che cosa rammenti?

    Un Enzo Jannacci Imprevedibile, sia come artista ma anche come medico. Facemmo una tournée insieme e, praticamente, cercò di uccidermi. Mi venne un febbrone e lui mi praticò una cura del sudore da cui mi salvarono i miei…

    I Beatles suonarono al Vigorelli di Milano ti proposero di aprire i loro concerti e tu risposi di no: perchè?

    Fu il loro promoter italiano Leo Wachter a propormi la cosa. Andai a Londra per conoscerli. Li incontrai di persona, creando un buon feeling con John e Paul, che personalmente considero il vero genio del gruppo. Mandai invece a quel paese Harrison perchè mi salutò dicendo “ciao pizza, mozzarella e spaghetti”. All’epoca mi suonò come un insulto… ma col senno di poi forse si trattava solo di una infelice battuta. Dissi di no per Milano perchè, dopo aver assistito ad un loro show, tutta quella folla impazzita mi trasmise del gran panico, non facendomi sentire all’altezza della situazione.

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      Personaggi e interviste

      Umberto Smaila: «Colpo Grosso era da educande, oggi mi manderebbero all’inferno. Non ho limiti nel bere, nel mangiare, nel fumare»

      Tra Jerry Calà e le “ragazze Cin Cin”, Smaila racconta cinquant’anni di spettacolo, eccessi e libertà: «Mi dissero che ero l’unico in grado di rendere quel programma non volgare. Ho avuto tutto, ho perso tanto, ma rifarei tutto uguale».

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        Prima ha trasformato la musica in cabaret, poi il cabaret in televisione, e infine la televisione in uno show che fece epoca: Colpo Grosso. Umberto Smaila è stato tutto questo, un intrattenitore capace di attraversare stagioni diverse con lo stesso sorriso sfrontato e malinconico.

        Tutto comincia a Verona, dove con Franco Oppini, Nini Salerno e Jerry Calà forma i Gatti di Vicolo Miracoli. «Non c’era un laureato tra noi, davamo un esame l’anno solo per evitare il militare», ricorda ridendo. «Dormivamo poco, la notte lavoravamo al Derby di Milano. Diego Abatantuono faceva il tecnico delle luci, e noi gli facevamo da professori: studiava con noi, era senza patente ma guidava lo stesso».

        Gli anni Settanta sono un turbine: viaggi infiniti, teatri, serate improvvisate. Poi la separazione. «Io e Jerry non ci siamo parlati per cinque anni. Se n’è andato a fare cinema e noi siamo rimasti in braghe di tela. Mi sentii tradito, ma poi capii: quando passa un treno, o ci salti sopra o lo guardi andare via».

        Il successo televisivo arriva con Help! e poi, nel 1987, con Colpo Grosso. Una trasmissione che cambierà la carriera – e la reputazione – di Smaila. «Mi scelsero perché dissero che solo io avrei potuto renderlo non volgare. Pensavo sarebbe durato tre mesi, e invece furono trecento puntate all’anno per cinque anni. Rispetto a quello che si vede oggi, era un programma da educande. Lo guardavano persino le ragazzine, che ci mandavano i disegnini delle ragazze Cin Cin».

        Quelle ragazze, però, non erano dive. «Venivano quasi tutte dall’estero: inglesi, olandesi, dell’Est. Le italiane non volevano spogliarsi. Erano molto riservate, fuori dal set le vedevi con i sacchetti della spesa. Nessun lusso, nessun glamour. Io? Solo un piccolo flirt, niente storie clamorose».

        Quando Colpo Grosso finì, arrivò la doccia fredda. «Da trecento puntate a zero. Viaggiavo in Mercedes, mi sentivo immortale. Poi capii che non lo ero. Forse, senza quel programma, avrei avuto un’altra carriera, ma non rinnego nulla».

        Nel frattempo, Smaila continua con la musica, la sua vera casa. Fino al colpo di scena hollywoodiano: «Mi chiamò l’agenzia di Quentin Tarantino. Stavano girando Jackie Brown e volevano un mio brano. Pensavo fosse uno scherzo, invece era vero. Aveva visto La belva col mitra, dove c’era la mia musica. Quei sei minuti sonori mi hanno regalato l’eternità».

        Oggi, a 74 anni, Smaila non rinnega i suoi eccessi. «Non ho limiti nel bere, nel mangiare, nel fumare. Secondo i benpensanti, sono un irregolare. Quelli come me vanno all’inferno, e io ci andrò volentieri, se trovo la compagnia giusta».

        E mentre la tv di oggi «ha tolto lo spettacolo e il coraggio», lui resta fedele al suo stile. «Allora facevamo otto giorni di prove per tre minuti di varietà. Oggi bastano due ore e un microfono. Ma io continuo a cantare nei miei locali, tra gente che balla e ride. È questo che mi tiene vivo».

        La leggenda di Umberto Smaila, tra pianobar, cabaret e cult televisivi, è il ritratto di un’Italia che si prendeva meno sul serio. E che forse, proprio per questo, sapeva divertirsi di più.

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          Personaggi e interviste

          Alessandro Cattelan, chiude dopo due anni il suo ristorante: il fallimento (silenzioso) del Quintalino

          L’avventura nella ristorazione del conduttore di “Stasera c’è Cattelan” si è conclusa senza annunci: il locale milanese ha spento le luci e cancellato i social

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            Due anni. Tanto è durata la scommessa gastronomica di Alessandro Cattelan, che con amici e soci aveva deciso di cimentarsi nella ristorazione. Il progetto si chiamava Quintalino, e oggi – come segnala il sito Dissapore – è ufficialmente chiuso.
            Una chiusura avvenuta nel più totale silenzio: nessun annuncio, nessuna dichiarazione pubblica, solo la pagina Instagram ferma da mesi e la serranda abbassata.

            Un’idea ambiziosa ma senza fortuna

            Il Quintalino era nato a Milano come spin-off di Quintale, il ristorante legato al celebre macellaio toscano Dario Cecchini, con la collaborazione di Francesco Panella e Vittorio De Rosa. L’idea era proporre un locale dallo stile moderno, curato ma accessibile, con un menu centrato su hamburger di qualità e una formula senza camerieri, sul modello dei fast food americani di nuova generazione.
            Un esperimento interessante, almeno sulla carta, ma che non ha mai trovato un pubblico fedele.

            Recensioni in picchiata

            Negli ultimi mesi, le recensioni su Tripadvisor e Google avevano preso una piega negativa: critiche sul servizio, sul prezzo e su un’esperienza giudicata da molti “confusa”. Alcuni clienti lamentavano porzioni ridotte e una gestione poco attenta.

            Silenzio social e fine dell’avventura

            Mentre il locale chiudeva i battenti, i profili social del Quintalino restavano immobili, nonostante la forte spinta mediatica che ne aveva accompagnato il lancio, anche grazie ai post di Cattelan.
            La mancanza di comunicazione ufficiale ha contribuito a far calare il sipario con discrezione su una delle scommesse meno fortunate del conduttore, oggi concentrato sul suo show televisivo Stasera c’è Cattelan.

            Un fallimento silenzioso, ma istruttivo: perché anche dietro i nomi noti, nel mondo della ristorazione, il successo non è mai garantito.

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              Personaggi e interviste

              Martina Colombari dopo le confessioni del figlio Achille Costacurta: «È stato intenso, ma prima di parlarne con voi devo farlo con lui»

              Un rapporto ricucito con fatica, un percorso di rinascita condiviso: “Ora il cammino è iniziato e, anche se non è facile, va finalmente nella direzione giusta”

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                Dopo le forti rivelazioni di Achille Costacurta, il figlio di Martina Colombari e Billy Costacurta, arriva la risposta della madre. L’ex Miss Italia, visibilmente emozionata, ha commentato le parole del figlio, che nel podcast One More Time aveva raccontato senza filtri la sua adolescenza difficile, segnata da abusi, droga, TSO e tentativi di suicidio.
                «È stato un weekend intenso – ha detto Martina – perché è uscito il podcast di mio figlio Achille. Poi con calma magari ne parliamo, ma prima voglio farlo con lui. Non so mai come pormi di fronte a questa sua fragilità…».

                «Prima voglio parlarne con lui»

                Colombari ha parlato con tono pacato ma emozionato, tra orgoglio e sollievo. «Non devo aggiungere altro, ma sì, mi piacerebbe confrontarmi con voi, dopo averlo fatto con lui. È difficile trovare le parole giuste, ma sono felice di vederlo finalmente più sereno». Un sorriso, stavolta sincero, ha accompagnato la riflessione di una madre che ha attraversato la tempesta e intravede ora la quiete.

                Le rivelazioni di Achille: «Ho iniziato a spacciare, poi ho tentato il suicidio»

                Nel podcast condotto da Luca Casadei, Achille, oggi ventunenne, ha raccontato il momento in cui tutto è crollato: «Ho iniziato a spacciare e mi hanno arrestato a 15 anni e mezzo. In comunità ho provato a suicidarmi bevendo sette boccettine di metadone. Nessun medico sa spiegarmi perché io sia ancora vivo».
                Il giovane ha parlato anche della diagnosi di Adhd, arrivata solo un anno fa: «L’ho scoperto a maggio dell’anno scorso in una clinica svizzera. Mi dissero: “Ti sei auto-curato con la droga”. È stato come ricevere una chiave per capire chi sono».

                Il nuovo equilibrio con i genitori

                Achille ha spiegato come anche i genitori abbiano intrapreso un percorso parallelo: «Da quando hanno fatto un corso genitoriale sull’Adhd, il nostro rapporto è cambiato. Prima, se litigavamo, spaccavo le porte. Ora non succede più, perché sanno come dirmi un no».
                Una crescita condivisa, che oggi unisce una famiglia passata attraverso il dolore ma capace di ritrovare una forma di armonia.

                Un abbraccio che vale più di mille parole

                Solo pochi giorni fa, all’Auditorium del Foro Italico, Achille era in prima fila per applaudire la madre impegnata in una performance di danza. Martina, scesa dal palco, lo ha abbracciato con una commozione che raccontava più di qualsiasi intervista: la forza di una madre e la rinascita di un figlio.

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