Speciale Festival di Sanremo 2025
Sanremo 2025, abbiamo preascoltato le trenta canzoni del Festival: tra urban e ballatone, ma chi osa davvero?
La lista dei brani in gara conferma una tendenza consolidata: la musica di Sanremo oscilla tra il classico e la cassa dritta, senza grandi scossoni. Le prime impressioni parlano di strutture prevedibili, arrangiamenti standardizzati e una tematica dominante: l’amore. Poche le deviazioni dal percorso già battuto, con alcuni nomi che, almeno sulla carta, avrebbero potuto osare di più.

Sanremo 2025 si prepara ad andare in onda con la solita promessa di equilibrio tra tradizione e innovazione, tra passato e futuro, tra orchestrazioni imponenti e sonorità più moderne. Ma, ascoltando i trenta brani in gara – troppi, soprattutto per chi deve cercare di emergere in un mare di proposte simili – viene il dubbio che più che un Festival della canzone italiana, questo sia un Festival della ripetizione con lievi variazioni sul tema.
Due le anime predominanti: da un lato, la ballata sanremese per eccellenza, quella costruita su una struttura collaudata da trent’anni, fatta di crescendo orchestrali, ritornelli che puntano a essere cantati in coro e testi che girano quasi sempre attorno all’amore. Dall’altro, l’urban-pop che prova a scrollarsi di dosso la polvere del teatro Ariston con beat elettronici, qualche incursione nel rap e un’ibridazione con la dance che dovrebbe dare un tocco di modernità.
Eppure, più che di innovazione, sembra di assistere a un compitino ben eseguito, con pochi rischi e ancora meno veri colpi di scena. La generazione Z? Poco rappresentata, almeno nei suoni. La vera rivoluzione? Non pervenuta. E chi sperava in una restaurazione da parte di Carlo Conti, che in passato aveva portato Sanremo su un binario più tradizionale, dovrà ricredersi: la linea è quella di un compromesso senza particolari guizzi, dove tutti cercano di trovare una formula sicura per funzionare.
Chi si aspettava canzoni fuori dagli schemi resterà deluso. Tra i brani ascoltati, la maggior parte segue strade già battute: le ballate sanremesi rispettano fedelmente il copione, con archi ben piazzati e testi che raccontano d’amore, sofferenza, riscatto e rimpianto. Anche i pezzi più ritmati restano in un territorio di comfort, con una cassa dritta che si alterna a qualche incursione rap e produzioni che sembrano uscite dalla stessa catena di montaggio.
Il problema non è la qualità, ma la prevedibilità. Gli autori dietro le canzoni sono sempre gli stessi, e questo si riflette in un’omogeneità che non lascia spazio a grandi sorprese. Se non altro, però, qualche nome spicca per coerenza con il proprio stile, nel bene e nel male.
Ma ecco nel dettaglio le trenta canzoni del festival 2025.
Francesco Gabbani – Viva la vita
Una ballata sanremese costruita su misura, con una melodia impeccabile e un ritornello che sembra uscito da un manuale. Peccato, perché Gabbani sa fare molto di più. La sua ironia e il suo spirito giocoso sono sacrificati in favore di un messaggio positivo molto generico.
Clara – Febbre
Un pezzo che punta tutto sulla cassa dritta e che ricalca la formula dello scorso anno. Il problema? Sa di già sentito, e il confronto con Elodie è inevitabile. Funziona, ma non sorprende.
Willie Peyote – Grazie ma no grazie
Uno dei pochi a provare a dire qualcosa di diverso. Il pezzo mescola pop e funk, con influenze che vanno da Daniele Silvestri a Pino D’Angiò. Testo pungente, ritornello efficace.
Noemi – Se t’innamori muori
Titolo forte, pezzo meno. Tra gli autori ci sono Blanco e Mahmood, che ripropongono la formula di Brividi in versione meno ispirata. Noemi ci mette la voce, ma la canzone non esplode.
Lucio Corsi – Volevo essere un duro
Finalmente qualcuno che usa l’orchestra per davvero. Ballata intensa, testo che evita le banalità, crescita progressiva che conquista. Uno dei pezzi migliori del Festival.
Rkomi – Il ritmo delle cose
Un pezzo elettronico con un testo amaro, che sembra riflettere sul mondo musicale. Il problema? Funziona più fuori da Sanremo che dentro.
The Kolors – Tu con chi fai l’amore
Hanno provato a non rifare Italodisco, ma ci sono ricascati. Il tocco di Calcutta si sente, ma il pezzo è costruito per piacere senza rischiare nulla.
Rocco Hunt – Mille vote ancora
Un testo autobiografico che cerca di aggiungere profondità, ma il sound latino-pop resta troppo uguale a quello che Hunt propone da anni.
Rose Villain – Fuorilegge
Cassa dritta e malinconia, una Clic boom! versione 2025. Meno sorpresa rispetto all’anno scorso, ma Rose Villain ha ormai trovato il suo stile.
Brunori Sas – L’albero delle noci
Un pezzo che conferma il talento cantautorale di Brunori. Testo raffinato, atmosfera evocativa, una delle canzoni che resteranno.
Serena Brancale – Anema e core
Tra jazz, latin e pop, Serena Brancale porta un brano complesso che non si capisce se sia una mossa azzardata o semplicemente fuori contesto per Sanremo.
Irama – Lentamente
Ballata drammatica e intensa, firmata anche da Blanco. Non ha nulla a che vedere con il repertorio di Irama, ma come sempre arriverà in alto.
Marcella Bella – Pelle diamante
Strizza l’occhio alla Loredana Bertè degli ultimi anni, ma senza la stessa energia.
Achille Lauro – Incoscienti giovani
Ballata teatrale con riferimenti alla scuola di Mia Martini. Lauro gioca con il classicismo e funziona.
Elodie – Dimenticarsi alle sette
Un’altra ballata killer, perfetta per la radio e per il pubblico generalista. Ma aggiunge davvero qualcosa al percorso di Elodie?
Tony Effe – Damme ‘na mano
Un rapper a Sanremo deve sempre cambiare pelle. Tony Effe lo fa con uno stornello romanesco su base gipsy. Funziona? Più di quanto ci si aspetti.
Massimo Ranieri – Tra le mani un cuore
Ballata scritta da Nek e Tiziano Ferro che sa di già sentito. Ranieri ci mette il mestiere e la porta a casa.
Sarah Toscano – Amarcord
Un pezzo pop con cassa dritta che cerca di seguire la strada di Annalisa, senza la stessa personalità.
Fedez – Battito
Un brano sulla depressione che finisce per diventare l’ennesima zarrata elettronica con autotune.
Coma Cose – Cuoricini
Una canzone d’amore con cassa dritta che richiama Felicità di Al Bano e Romina. Più debole dei loro brani precedenti, ma comunque interessante.
Giorgia – La cura per me
Parte con intenzioni soul e r&b, poi si perde. Giorgia è una garanzia, ma la canzone non è all’altezza della sua voce.
Olly – Balorda nostalgia
Una ballata pop che strizza l’occhio a Vasco Rossi. Semplice, diretta, potrebbe funzionare.
Simone Cristicchi – Quando sarai piccola
Racconta il ribaltamento dei ruoli tra madre e figlio. Delicato, emozionante, forse un po’ troppo didascalico.
Emis Killa – Demoni
Un pezzo che mescola rap ed elettronica. Manca però quel guizzo che lo renda memorabile.
Joan Thiele – Eco
Una delle sorprese migliori. Sound sofisticato, voce ipnotica, urban-pop con classe.
Modà – Non ti dimentico
Un’altra ballata identica alle altre dei Modà.
Gaia – Chiamo io chiami tu
Urban-pop con sfumature brasiliane. Funziona, ma è troppo simile a quello che fanno altre artiste.
Bresh – La tana del granchio
Ballata pop con venature urban. Manca qualcosa per renderla davvero incisiva.
Francesca Michielin – Fango in paradiso
Un pezzo raffinato che rischia però di restare freddo.
Shablo feat. Guè, Joshua e Tormento – La mia parola
Hip hop old school, elegante e curato. Una delle proposte più autentiche del Festival.
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Speciale Festival di Sanremo 2025
Chi sono i genitori di Carlo Conti: la storia di Lolette e Giuseppe
Giuseppe Conti è morto di tumore quando Carlo aveva appena un anno e mezzo. La madre, Lolette, lo ha cresciuto da sola, con forza e disciplina, diventando per lui un vero “generale tedesco”.

Carlo Conti, uno dei conduttori più amati della televisione italiana, ha parlato in più occasioni dei suoi genitori, Lolette e Giuseppe Conti. Dietro il suo sorriso inconfondibile e la sua carriera costellata di successi c’è una storia familiare segnata da una grande perdita.
Carlo è nato il 13 marzo 1961 a Firenze, sotto il segno dei Pesci. Quando aveva solo 18 mesi, il padre Giuseppe è morto a causa di un tumore. Una tragedia che ha lasciato un vuoto immenso nella sua vita.
Nonostante la giovane età, la madre Lolette ha affrontato il dolore con grande forza, prendendo in mano le redini della famiglia e crescendo Carlo da sola. «Non ho conosciuto mio padre — ha raccontato Conti durante un’intervista — infatti, quando è nato mio figlio, per me è stato tutto nuovo. Ho una mamma molto forte, che più che una mamma era un “generale tedesco”, severissima. Non mi ha fatto mai sentire la mancanza del babbo».
La madre di Carlo, Lolette, lo ha educato con grande rigore, fissando regole precise anche nella quotidianità. «Anche se eravamo soltanto io e lei, a pranzo e a cena la tavola doveva essere sempre apparecchiata. Era il momento in cui ci incontravamo per parlare e stare insieme».
Nel corso degli anni, Conti ha spesso ricordato la sua mamma, mostrandola con affetto sui social. In un post su Instagram l’ha definita «la mamma più forte del mondo», insieme alla moglie Francesca Vaccaro, in occasione della festa della mamma.
Carlo Conti ha raccontato di aver preso pienamente coscienza della mancanza del padre solo a 20 anni, durante una partita a tennis con l’amico Leonardo Pieraccioni. «Il babbo di Leonardo si è messo dalla sua parte a guardare la partita e lo incitava. Mi sono reso conto che quella figura, dietro la mia parte della rete, non c’era. È stata la prima volta che ho capito davvero che non c’era mai stata».
Un ricordo che, ancora oggi, resta vivo nel cuore del conduttore, insieme alla gratitudine infinita per quella mamma severa e amorevole che lo ha accompagnato fino al successo.
Speciale Festival di Sanremo 2025
Sanremo 2025, “Si’ ‘na preta”: l’urlo a Rose Villain che diventa il primo tormentone del Festival
Un urlo dalla platea, un’espressione dialettale e un Festival che ha già il suo primo tormentone. «Si’ ‘na preta», gridato a Rose Villain durante la sua esibizione, diventa virale: sui social impazzano i meme, mentre la cantante risponde con ironia e trasforma tutto in un fenomeno social.

Sanremo 2025 ha già trovato il suo primo tormentone, e a sorpresa la protagonista è Rose Villain. Durante la sua esibizione sulle note di Fuorilegge, un urlo ha attraversato l’Ariston: «Si’ ‘na preta», catturato chiaramente dai microfoni Rai e subito diventato virale sui social.
Elegantissima in abito rosso e capelli blu raccolti, la cantante era pronta a calcare il palco con la consueta grinta, quando dalla platea qualcuno ha gridato l’espressione in dialetto napoletano. Subito, il pubblico ha cercato di decifrare il significato della frase, tra chi la prendeva come un esempio di catcalling e chi provava a coglierne il vero senso.
Ma cosa vuol dire davvero «Si’ ‘na preta»?
Un complimento… di pietra
Nel dialetto napoletano, «preta» significa letteralmente pietra. Tuttavia, in senso figurato, è un complimento che esalta la forza e la bellezza di una persona, come a dire: sei solida, statuaria, quasi una roccia. Insomma, niente insulti o volgarità, ma un’uscita teatrale, verace, come spesso accade nel linguaggio partenopeo. Certo, sentirlo urlare in mondovisione ha spiazzato molti, ma chi conosce il dialetto l’ha colto per quello che era: un sincero tributo.
Chi è l’autore dell’urlo?
A rivelare l’identità dell’autore è stato il Corriere del Mezzogiorno: si tratta di un trentenne di Salerno, imprenditore con la passione per la musica. «È stato un gesto spontaneo, un modo per dire che Rose Villain è incredibile. Non pensavo diventasse virale», ha spiegato. Per una notte, è stato protagonista suo malgrado del Festival, anche se ha assicurato che stasera tornerà all’Ariston mantenendo un profilo più basso.
La reazione di Rose Villain
Nessuna polemica da parte della cantante, anzi. Rose Villain ha preso la cosa con ironia, postando il video sul suo profilo Instagram e aggiungendo l’emoji di una pietra. Un colpo di social media perfettamente riuscito, che ha trasformato l’episodio in un fenomeno virale.
Nel giro di poche ore, «Si’ ‘na preta» è diventato un tormentone: meme ovunque, la frase tra le più cercate su Google e qualcuno ha già pensato di farne un jingle remixato. Insomma, da Sanremo 2025 ci aspettavamo una hit… ma forse non proprio questa.
Speciale Festival di Sanremo 2025
Willie Peyote: «Il mio Grazie ma no grazie? Un modo gentile per dire di no. Adoro Brunori, Corsi e Bresh»
Il rapper torinese torna a Sanremo con un brano ironico e tagliente, nato per caso durante un viaggio in Ecuador. Willie Peyote riflette su contraddizioni, cambiamenti e libertà di pensiero, tra riferimenti a Cyrano de Bergerac, ironia sull’Italia e una voglia di leggerezza che, dice, «in questo periodo storico ci serve più che mai».

Il rapper torinese torna a Sanremo con un brano diretto e tagliente, ma questa volta, racconta, lo spirito è più leggero e ironico rispetto al passato. Dopo il successo di Mai dire mai (la locura), Willie Peyote porta sul palco Grazie ma no grazie, un pezzo nato quasi per caso, dall’altra parte del mondo, in Ecuador. Un brano che riflette sull’Italia con un tono più spensierato, senza perdere però la vena critica che lo ha sempre contraddistinto.
Sei già stato a Sanremo nel 2021 con Mai dire mai (la locura). Com’è tornare sul palco dell’Ariston?
«La prima volta è stata un’esperienza un po’ naïf, non avevo compreso davvero quanto fosse grande Sanremo fino a quando non ci sono finito dentro. Questa volta mi sento più preparato e, soprattutto, più ben predisposto. Ho portato un brano più leggero, ma sempre con il mio solito stile ironico e tagliente.»
Hai legato con qualcuno dei cantanti in gara?
Tre nomi su tutti: Brunori, Bresh e Corsi. Mi sono piaciuti da matti. Con loro spero di collaborare in futuro. Ho amato le loro canzoni, i loro testi… Con Bresh abbiamo anche parlato di calcio dopo Toro-Genoa…
Hai scritto Grazie ma no grazie mentre eri in Ecuador. Come nasce una canzone del genere così lontano dall’Italia?
«Essere lontani aiuta a guardare il proprio paese con maggiore lucidità. In Ecuador ero andato a trovare mia sorella e il titolo mi girava in testa già da un po’. A un certo punto mi sono reso conto che aveva radici importanti: il monologo di Cyrano de Bergerac. Quando gli viene proposto di affiliarsi a qualcuno di potente per fare carriera, lui rifiuta ogni proposta con un netto “no grazie!”. Mi piaceva questa idea di libertà di pensiero.»
Il pezzo ha un titolo gentile, ma dentro c’è parecchia critica sociale. Qual è il tema centrale?
«In realtà il tema siamo noi, è l’Italia, presa però con uno spirito ironico. Penso che di ironia abbiamo parecchio bisogno in questo periodo. Certi discorsi vanno presi con le pinze, o rischiano di provocare risate grasse. Alla fine, il pezzo è un invito a riflettere e a farsi qualche domanda in più, anche quando non capiamo.»
Citi persino i Jalisse nel testo. È una provocazione?
«Diciamo che la barra sui Jalisse mi è uscita quasi per gioco. Quando l’ho scritta, ho pensato che sarebbe stato divertente portarla proprio a Sanremo. Poi le canzoni si scelgono da sole il percorso che fanno, e questa ha trovato il suo palcoscenico ideale.»
Ironia, tradizione, inclusività: cosa racconta davvero Grazie ma no grazie?
«Racconta un’Italia in cui ci sono tante contraddizioni, ma anche tanta voglia di cambiamento. Ci sono quelli che non sanno più come scrivere o parlare, quelli che si aggrappano alla tradizione per non confondersi. È una fotografia di un momento storico in cui ci stiamo ancora mettendo alla pari con tante tematiche globali. Bisognerebbe prendersi meno sul serio e fare una domanda in più quando qualcosa non ci torna.»
Hai detto che non potresti mai scrivere una canzone pensando a Sanremo. Come scegli i tuoi pezzi?
«Non potrei scrivere una canzone apposta per il Festival, perché verrebbe fuori qualcosa di finto. Però, a un certo punto, il pezzo sceglie da solo il suo destino. Grazie ma no grazie non era pensato per Sanremo, ma quando l’ho finito, ho capito che era perfetto per questo palco.»
Nel testo parli anche di questioni linguistiche, come l’uso dell’asterisco nei plurali. È una critica?
«Più che una critica, è una riflessione su come la lingua stia cambiando. Ci sono momenti in cui ci si sente un po’ disorientati, è vero, ma questo non significa che il cambiamento sia sbagliato. Bisogna solo imparare a convivere con il nuovo senza demonizzarlo, magari con un po’ più di leggerezza.»
Come definiresti il tono di questa canzone rispetto a Mai dire mai (la locura)?
«Mai dire mai era più cupa, più cinica. Grazie ma no grazie è allegra e spensierata, anche se il testo resta tagliente. È una canzone che mette in circolo cose buone, perché, in fondo, penso che l’universo prima o poi ti premi se lo fai.»
La critica sociale resta però una tua cifra stilistica. Non temi che possa essere fraintesa?
«Certo, il rischio c’è sempre. Ma se fai le cose con onestà, alla fine il pubblico lo capisce. A volte il cinismo può essere letto come pura lamentela, ma io cerco sempre di bilanciarlo con l’ironia. È un modo per osservare la realtà senza prendersi troppo sul serio.»
Un desiderio per questa nuova esperienza a Sanremo?
«Divertirmi e godermela. Ho imparato che certe cose bisogna prenderle come vengono. Se ti fai sequestrare dall’ansia di prestazione, finisci per perderti tutto. Invece, voglio uscire da questa esperienza con il sorriso, come una bella risata fatta bene.»
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