Televisione
Perché Stefano De Martino veste sempre uguale ad Affari Tuoi? Dietro c’è una scelta precisa
Stefano De Martino è il volto rivelazione dell’access prime time. Alla guida di Affari Tuoi ha conquistato il pubblico anche grazie a uno stile inconfondibile. Ma c’è un motivo dietro quella camicia bianca sempre uguale, che non è solo moda: è identità. E omaggio, forse, a un maestro.

Lui la giacca non la mette. Mai. Anche quando il resto dell’outfit grida “serata importante”, Stefano De Martino resta fedele al suo look: pantalone elegante, camicia bianca slim fit, maniche arrotolate, cravatta sottile. Il fisico da ex ballerino fa il resto. Ma dietro a questa coerenza stilistica – che qualcuno chiama monotonia, ma che in realtà è strategia – si nasconde una scelta ben precisa
Da quando ha preso il timone di Affari Tuoi, ereditando niente meno che la poltrona di Amadeus, De Martino ha deciso di presentarsi ogni sera con lo stesso abito di scena. E non per pigrizia. Ma per costruire un’identità visiva forte, riconoscibile, quasi teatrale. In un’epoca in cui ogni conduttore cambia outfit come cambia canale, lui ha scelto la strada opposta: una divisa, come fanno i grandi.
E in effetti De Martino non nasconde di ispirarsi a uno dei più grandi di sempre, Renzo Arbore, maestro del garbo e dell’improvvisazione. «Lui è unico, non si può imitare», ha detto più volte. Ma il senso del palcoscenico, quello sì, lo ha interiorizzato. E lo sta dimostrando con ascolti solidi e un gradimento in crescita.
Dalla danza alla conduzione, il passo non è stato breve, ma deciso. Nato a Torre del Greco, cresciuto tra bar, fruttivendoli e sogni di Broadway, Stefano conquista la scena con Amici, vola a New York con una borsa di studio, gira il mondo coi Complexions Contemporary. Poi, come spesso accade ai veri performer, capisce che il suo posto non è più tra le quinte, ma al centro della scena.
E oggi quel centro lo occupa con naturalezza: battuta pronta, sorriso sempre acceso, un’ironia che buca lo schermo. Il look essenziale aiuta. Non distrare lo spettatore, non sovraccaricare la scena. L’eleganza, per lui, non è ostentazione: è funzionale alla narrazione.
La camicia bianca, perfettamente aderente, le maniche arrotolate, quasi da artista a fine giornata, e quella cravatta sottile, che smorza la formalità e aggiunge personalità. Ogni dettaglio è calcolato. E quando qualcosa funziona, non si cambia.
Il pubblico ha colto il messaggio. E lo premia. Perché in un panorama televisivo dove tutto sembra provvisorio, Stefano De Martino è riuscito a imporsi con una cifra riconoscibile, non solo nel modo di parlare, ma anche in quello di vestirsi. E alla fine, anche questo è spettacolo.
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Televisione
La serie Doc – Nelle tue mani diventa americana, ma perde il cuore
La versione americana del celebre medical drama italiano, con Molly Parker nei panni della dottoressa Amy Larsen, convince per il ritmo ma delude sul piano emotivo. Troppo fredda, poco corale e più interessata a correre che a commuovere, questa Doc rischia di diventare un prodotto ben confezionato ma senz’anima. Eppure, qualcosa funziona: dal gender swap agli intrecci familiari più maturi, che promettono sviluppi interessanti.

Quando un successo italiano conquista il pubblico internazionale, la tentazione di farne un remake è forte. E così è stato per Doc – Nelle tue mani, la serie Rai con Luca Argentero che ha sbancato gli ascolti e conquistato spettatori anche all’estero. Oggi è diventata Doc, versione americana in onda su FOX, con Molly Parker nel ruolo della protagonista. Non più il Dottor Andrea Fanti, ma la Dottoressa Amy Larsen. Un gender swap che, almeno sulla carta, prometteva una rilettura interessante. Ma sulla lunga distanza, la serie sembra aver smarrito qualcosa di fondamentale: il cuore.
Partiamo da ciò che resta: la protagonista è un medico brillante che, in seguito a un grave trauma, perde la memoria e deve ricostruire se stessa. Non più dodici anni spariti nel nulla come nella versione originale, ma otto. Niente proiettile nel cranio, solo un incidente d’auto. E soprattutto: non c’è un fatto realmente accaduto dietro, come invece nella serie italiana ispirata alla vera storia del medico Pierdante Piccioni. Questo dettaglio, che nella versione nostrana era un carburante di verità e lacrime, si sente. E non poco.
La Amy Larsen interpretata da Molly Parker è fredda, spigolosa, determinata. Ma a tratti risulta anche respingente. Più interessata a tornare a lavorare che a ricostruire le sue relazioni. Un medico che pare aver lasciato indietro l’empatia, l’ascolto, l’umanità: tutte qualità che invece il Dottor Fanti – pur burbero e spigoloso – non ha mai davvero smesso di cercare. Mancano quell’ambiguità emotiva, quella lotta interiore, che rendeva la versione italiana così avvincente. In parole povere: si segue, ma non ci si affeziona.





E poi c’è il ritmo. Doc versione FOX corre, spesso troppo. Nei primi due episodi, già si spalanca un’intera valigia di ricordi, misteri e relazioni perdute, mentre i personaggi secondari rimangono sfocati, quasi accessori. La coralità che era uno dei punti di forza della serie originale – dove ognuno aveva il proprio arco narrativo, i propri conflitti, le proprie ferite – qui è sacrificata sull’altare della velocità. I casi medici ci sono, ma sono spesso trattati come pretesti per arrivare a un altro cliffhanger, a un’altra svolta nel passato della protagonista.
Certo, qualche merito c’è. Il cambio di genere introduce dinamiche inedite. La figura della madre (anche se mai troppo esplorata), il rapporto con una figlia ormai adulta, l’essere una donna che ha avuto successo ma ha pagato il prezzo dell’isolamento: elementi interessanti, che portano la narrazione su terreni nuovi. Anche il ritorno di Scott Wolf, ex volto noto di Party of Five, nel ruolo di un medico collega e possibile ex amante, aggiunge un pizzico di nostalgia e carisma.
C’è poi tutta una componente tecnologica che, nel passaggio da 2017 a 2025, perde di mordente. Non c’è più quello scarto clamoroso tra il “prima” e il “dopo”, tra le vecchie cartelle cliniche e il cloud, tra le strette di mano e le videochiamate. Negli Stati Uniti il salto è meno marcato, e gli sceneggiatori si trovano con meno strumenti per raccontare il disorientamento della protagonista. Anche per questo, la sensazione è che la serie punti tutto su un presente iperveloce, ma abbia poco da dire sul passato.
Eppure, Doc intrattiene. Funziona come serie da prime time, è ben girata, ha una regia dinamica e una fotografia pulita. Il cast è solido, la scrittura professionale. Ma è come se mancasse la linfa. Come se, nel tentativo di adattare un racconto tutto italiano – fatto di errori, redenzione e commozione – a una logica americana più diretta, si fosse perso quel filo emotivo che legava i personaggi al pubblico.
Per ora, la serie è stata rinnovata per una seconda stagione. Segno che gli ascolti ci sono, e che il pubblico americano ha risposto. È in arrivo anche un remake messicano, con Juan Pablo Medina, che potrebbe riportare in scena quella carica emotiva latente in questa versione.
Ma se vi aspettate la stessa intensità che vi ha fatto piangere e riflettere davanti alla versione italiana, sappiate che qui troverete altro. Un prodotto ben fatto, sì. Ma anche più chirurgico che viscerale. E se nella medicina è un pregio, nella serialità è un limite.
Televisione
Mike Bongiorno e la sua famiglia da quiz: tra salami, crisi di coppia e salme rubate
A 101 anni dalla nascita di Mike Bongiorno, il figlio Nicolò ci porta dietro le quinte del mito: non solo “allegria!” ma anche lacrime, momenti familiari surreali e… abbondanza di culatelli. Dal papà affettuoso al marito in crisi, fino all’incredibile furto della salma: ecco il lato inedito dell’uomo che ha insegnato l’italiano agli italiani. Un racconto tenero, bizzarro e profondamente umano.

Dimenticate per un attimo il conduttore occhialuto sempre perfetto, in giacca e cravatta. Nicolò Bongiorno ricorda un padre affettuoso, un po’ bambino, capace di sollevarlo in braccio per un abbraccio tenero o di trasformare la cena in una sagra gastronomica: «Per anni abbiamo mangiato torte e culatelli regalati dai concorrenti dei quiz!». Il prosciutto cotto Rovagnati? Un must a tavola. Altro che dieta mediterranea!
Università no, quiz sì: il maestro (involontario) d’italiano
Nicolò parla anche del cruccio mai confessato di Mike: non aver completato gli studi. Eppure, l’uomo che non possedeva una laurea è diventato l’insegnante più famoso d’Italia. Un paradosso da manuale: “Ha insegnato l’italiano a milioni di italiani e senza neanche una tesi!”. Se non è ironia questa…
Crisi con Daniela? Risolta con un bambino
Come ogni coppia che si rispetti, anche Mike e Daniela hanno avuto il loro momento “Dallas”. «Quando avevo sei anni c’è stata una brutta crisi», rivela Nicolò. E come si risolve una crisi coniugale negli anni ’80? Con la nascita di un altro figlio, ovviamente! Leonardo, il secondogenito, è diventato il simbolo della pace familiare. Altro che terapia di coppia!
L’uomo più fermato d’Italia: camminare con Mike era come accompagnare il Papa
«Ogni passeggiata era un pellegrinaggio», racconta Nicolò. Mike non diceva mai no a un fan. Selfie, strette di mano, battute, dediche: sembrava che conducesse La Ruota della Fortuna anche dal panettiere. Viaggiare con lui? Un tour guidato permanente con tappa obbligata ad ogni sguardo riconoscente.
Un addio surreale: furto della salma e prete-investigatore
Ma il colpo di scena arriva dopo la morte: la salma di Mike viene trafugata. Una storia assurda, degna di una fiction trash: minacce, ricatti, sciacalli. A risolverla? Don Mauro Pozzi, il parroco trasformatosi in detective per amore del conduttore. Alla fine, missione compiuta senza pagare un euro. Ora Mike riposa in pace. Letteralmente.
Un’eredità tra tv e aiuole: “Intitolategli almeno una via, dai!”
Nicolò conclude con un desiderio: vedere il nome di suo padre su una via, o almeno su un’aiuola. Sarebbe il minimo sindacale per chi ha cambiato la televisione italiana con una parola sola: Allegria!
Televisione
Lo sbarco in USA degli inconsapevoli Beatles secondo Martin Scorsese (trailer)
Il documentario prodotto da Martin Scorsese – in onda sulla piattaforma Disney+ – racconta l’arrivo americano dei Fab Four tra isteria collettiva e consapevolezze amare. Un amarcord in bianco e nero che ha ancora molto da dirci, anche oggi.

7 febbraio 1964: i quattro Beatles atterrano all’aeroporto JFK. Il presidente Kennedy è stato assassinato da pochi mesi. L’America risulta scossa, vulnerabile, affamata di speranza. In quel clima di lutto e incertezza, quattro ragazzi di Liverpool si accingono a cambiare tutto. E lo fanno con la leggerezza di chi non sa ancora di rappresentare una leggenda.
È da quel momento che parte Beatles ’64, il documentario diretto da David Tedeschi e prodotto da Martin Scorsese (con Paul McCartney e Ringo Starr come coproduttori), disponibile su Disney+. Un viaggio tra immagini d’archivio rare, interviste inedite e dietro le quinte pieni di verità.
L’isteria beatlemania
73 milioni di spettatori per l’Ed Sullivan Show. Una cifra da capogiro, mai vista prima. Le fan impazziscono, i negozi vendono tutto con la scritta “Beatles” sopra. È la nascita del mito. Eppure, nel documentario, quello che colpisce non è solo il successo, ma il contrasto tra la potenza dell’evento e la leggerezza dei protagonisti. Paul, John, George e Ringo appaiono rilassati, ironici, giovanissimi. Rispondono a tono alle provocazioni dei giornalisti, ridono, leggono il giornale in hotel. Non c’è distanza tra la superstar e il ragazzo normale. Il loro segreto? Non prendersi troppo sul serio.
Il sogno americano… visto da dietro le tende
Eppure c’è un sottotesto. Paul lo dice chiaramente: “Pensavamo che l’America fosse la terra della libertà. Poi siamo arrivati…”. Le fan sono quasi tutte bianche, borghesi, con lo stesso taglio a carré. L’integrazione è una parola lontana. I Beatles, con le loro cover di Little Richard e Smokey Robinson, portano la musica afroamericana al grande pubblico, ma lo fanno sbiancandola involontariamente. È il compromesso dell’epoca. E Lennon, proverbialmente inquieto e fine osservatore, avverte: “C’è troppa violenza in questo paese”. A saper come andrà a finire, suonano come parole in codice. O come una premonizione in grado di mettere i brividi…
Una storia che parla (ancora) a noi
Il documentario emoziona, diverte, fa riflettere. Fa tenerezza vedere fan che regalano libri di scienza, fa sorridere la fuga a Harlem per sentirsi “invisibili”, fa pensare il contrasto tra le urla delle ragazzine e le giacche e cravatte sul palco. Un mondo che non c’è più… e che pure ha lasciato tracce ovunque. Il tocco di un maestro come Scorsese si avverte nella scelta dei materiali e nel ritmo. Non è solo una celebrazione, è una lente sulla società di ieri per capire quella di oggi. Ed è bellissimo che a raccontarla siano gli stessi protagonisti, oggi ottantenni, con la stessa voglia di suonare e dire la loro.
Più di un documentario: un ponte tra generazioni
Un invito a sedersi insieme sul divano, tra genitori e figli, tra fan di sempre e scettici curiosi. A parlare. A ricordare. O a scoprire per la prima volta chi erano quei quattro ragazzi che, senza saperlo, hanno insegnato al mondo a sognare (e a scuotere la testa a ritmo).
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