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Quando la politica imita la TV: perché Putin crede che Trump e Civil War segneranno la fine dell’impero americano
Tra fiction e geopolitica, il Cremlino vede nel ritorno di Trump alla Casa Bianca e nel film distopico di Alex Garland che (in Italia chiunque può vedere su Amazon Prime) il preludio a una disgregazione degli Stati Uniti. Un’analisi che intreccia la realtà e la fantasia per sostenere l’idea di un impero al tramonto.

Può un film distopico che in Italia tutti possono vedere su Amazon Prime influenzare la politica del mondo intero? La risposta potrebbe sembrare no, ma non per Vladimir Putin. In Russia, Civil War, il film diretto da Alex Garland, è stato accolto come molto più di un’opera di intrattenimento: è stato interpretato come una rappresentazione concreta del declino dell’impero americano, una visione che, agli occhi del Cremlino, si intreccia perfettamente con la rielezione di Donald Trump.
Un futuro distopico
La trama del film, ambientata in un futuro distopico, segue un gruppo di giornalisti in un’America devastata dalla guerra civile, dove odio, intolleranza e disuguaglianza dilagano senza controllo. Garland dipinge un quadro terribilmente realistico di un Paese in frantumi, incapace di affrontare le sue crisi interne e divorato dalla violenza. L’opera, concepita come una metafora critica, in Russia è stata vista come una previsione di ciò che potrebbe realmente accadere.
Non è solo un film
Per il Cremlino, Civil War non è solo un film, ma un modo per analizzare e interpretare le fragilità americane. Non a caso, il titolo è stato tradotto in russo con un’enfasi particolare sulla “fine di un impero”, e il messaggio del film è stato adattato alla narrativa politica locale. Secondo molti osservatori russi, l’America di oggi rispecchia fin troppo bene quella immaginata da Garland: un Paese polarizzato, segnato da tensioni razziali, disuguaglianze economiche e un sistema politico sempre più paralizzato dai conflitti interni.
Il collasso di una superpotenza
In questo contesto, la rielezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti è vista da Mosca come l’elemento che potrebbe accelerare il collasso di questa superpotenza. Non si tratta di simpatia o di un’alleanza strategica con l’ex presidente americano. Al contrario, Putin e il suo entourage sembrano essere pienamente consapevoli del fatto che Trump non sarà un leader facile con cui trattare, né tanto meno un amico della Russia. Ma proprio per questo motivo, lo considerano il leader ideale per alimentare ulteriormente le divisioni interne agli Stati Uniti.
Il suo peggior nemico
Secondo questa visione, Trump non è il salvatore dell’America, ma il suo peggior nemico. La sua retorica divisiva, il suo stile di governo imprevedibile e la sua tendenza a sfidare le istituzioni democratiche sono considerati il catalizzatore perfetto per portare l’America più vicina al baratro. E in un mondo in cui il cinema spesso anticipa o rispecchia le ansie della realtà, Civil War diventa una lente attraverso cui il Cremlino osserva e spera di capire l’evoluzione del nemico numero uno.
Trump non è visto come un alleato della Russia
Mikhail Zygar, giornalista russo in esilio, ha descritto con lucidità questa strategia in una sua analisi: “Trump non è visto come un alleato della Russia, ma come un’arma contro l’America stessa. La sua rielezione è considerata un’opportunità per alimentare il caos e accelerare la disgregazione degli Stati Uniti”.
La lettura russa di Civil War non è casuale. Il film, con la sua rappresentazione spietata di un’America che implode sotto il peso delle sue contraddizioni, risuona profondamente in un Paese che da sempre guarda agli Stati Uniti come a un rivale da superare. Il Cremlino ha trasformato questa opera cinematografica in una sorta di mappa geopolitica: una guida simbolica alle fragilità americane e un modo per rafforzare la propria narrativa di un Occidente in declino.
Ma quanto di questa visione è realtà e quanto è solo un desiderio proiettato? L’America è davvero sull’orlo di un collasso simile a quello immaginato da Garland, o il Cremlino esagera deliberatamente per alimentare la sua propaganda interna? Quello che è certo è che il ritorno di Trump alla Casa Bianca promette di portare nuove sfide, non solo per gli Stati Uniti ma per l’intero equilibrio globale.
E mentre Civil War continua a essere trasmesso come un avvertimento distopico, per Putin e il suo entourage è qualcosa di più: una possibile profezia che attendono con impazienza di vedere avverarsi. Forse Hollywood non cambierà il mondo, ma l’idea che possa farlo rende il gioco geopolitico ancora più interessante, e decisamente inquietante.
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Cronaca
Amanda Knox, dall’inferno giudiziario al palco comico: «Tra carcere e serie tv, la maternità è stata la fase più dura»
Sul palco del Tacoma Comedy Club, nello Stato di Washington, Amanda Knox ha trasformato il dramma della sua vicenda giudiziaria in materiale da stand-up. Dal ricordo delle sbarre di Perugia alle notti insonni da madre, fino al gioco della figlia che imita la prigionia: «La vita sembra scritta da un commediografo pazzo».

Amanda Knox, 38 anni, è tornata sotto i riflettori, ma non più come protagonista di un processo che ha tenuto il mondo col fiato sospeso. Questa volta è stata lei a scegliere la scena: il palco di un comedy club nello Stato di Washington, a due passi da casa sua, dove ha portato in scena uno spettacolo che mescola ironia e traumi, ricordi dolorosi e battute che strappano risate liberatorie.
La ragazza di Seattle diventata il volto di uno dei casi giudiziari più seguiti di sempre ha deciso di raccontare la sua vita in tre atti. Il primo, i quattro anni trascorsi nel carcere di Perugia, tra accuse, processi e titoli di giornale. Il secondo, quelli passati a collaborare con Hulu per la serie The Twisted Tale of Amanda Knox, che ha provato a ricostruire la sua vicenda mediatica e giudiziaria. E il terzo, forse il più complicato: la maternità. «Di tutte queste fasi – ha detto sul palco – quella da madre è la più difficile».
Con tono autoironico, Knox non ha esitato a scherzare anche sul processo per l’omicidio di Meredith Kercher, la coinquilina britannica uccisa a Perugia nel 2007. All’epoca lei era una studentessa in scambio, appena arrivata in Italia, e dopo una settimana di relazione con Raffaele Sollecito si ritrovò in carcere. Quattro anni dietro le sbarre, poi la definitiva assoluzione nel 2015. Oggi quelle ombre diventano materiale per gag, pur restando un peso che non si cancella.
La parte più applaudita dello show è arrivata con il racconto della figlia. La bambina ha inventato un gioco chiamato “La mamma va in Italia”: si aggrappa alle sbarre del parco giochi e grida «Fatemi uscire!». Knox sorride amaro e commenta: «La mia vita continua a trasformarsi in una commedia scritta dalle circostanze».
Dal buio delle celle umbre alla leggerezza di un palco da cabaret, Amanda Knox cerca così una nuova identità: non più simbolo di un processo infinito, ma narratrice del proprio destino. Stavolta con il microfono in mano e il pubblico dalla sua parte.
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George Clooney salta la conferenza stampa a Venezia per una sinusite ma non rinuncia al red carpet
Alla Mostra del Cinema la poltrona con il suo nome è rimasta vuota: Clooney è rimasto al Cipriani, ufficialmente per una grave sinusite. La defezione non ha fermato la curiosità dei fan, che lo hanno visto sfilare il giorno prima con Amal. Baumbach commenta con ironia: “Succede a tutti, anche a loro”.

Il forfait che nessuno voleva si è materializzato nella sala delle conferenze stampa della Mostra del Cinema di Venezia. George Clooney, attesissimo protagonista del film in concorso Jay Kelly, non si è presentato accanto al regista Noah Baumbach e al resto del cast. La motivazione ufficiale: una grave sinusite che lo avrebbe costretto a restare nel suo alloggio veneziano, il Belmond Hotel Cipriani, sull’isola della Giudecca.

A tradire l’assenza non è stato solo il brusio dei fotografi, ma la sedia con il cartellino “George Clooney” rimasta clamorosamente vuota. Poco dopo è arrivata la conferma definitiva: l’attore ha fatto sapere di essere “molto dispiaciuto” per l’inconveniente e di non poter prendere parte all’incontro con i giornalisti.


Un’assenza che ha spiazzato pubblico e stampa, abituati a vedere Clooney padrone delle scene. A stemperare i toni ci ha pensato il regista, Noah Baumbach, che ha sorriso commentando: «Anche le star del cinema si ammalano». Un tentativo di sdrammatizzare che ha strappato qualche risata, ma non ha cancellato la delusione.
La sinusite non ha però impedito a Clooney di mostrarsi in grande stile sul red carpet della sera precedente, accanto alla moglie Amal. Smoking impeccabile per lui, abito lungo color champagne per lei: il tappeto rosso aveva visto la coppia sorridere, firmare autografi e dispensare charme ai fotografi. Ed è proprio questo dettaglio che ha fatto nascere ironie: per la stampa niente voce, per i flash invece energia sufficiente a reggere passerella e applausi.


Ora resta da capire se la malattia lo terrà lontano dalle luci della ribalta anche nelle prossime ore o se l’attore riuscirà a concedere nuove apparizioni pubbliche prima della fine del festival. Nel frattempo, la sua assenza in conferenza è diventata una delle notizie del giorno: un piccolo inciampo che conferma quanto Clooney resti comunque al centro della scena, anche quando il colpo di scena non lo scrive la sceneggiatura ma il raffreddore.
Personaggi e interviste
Elio Finocchio è il “gay più bello d’Italia”: «Il mio cognome? Me lo tengo. Cambiarlo sarebbe stato una sconfitta»
Dipendente dell’Hard Rock Café, due volte volto delle campagne contro il bullismo, Finocchio spiega perché non ha mai pensato di rinunciare al cognome. «Mio padre mi propose di cambiarlo, ma significava non essere più parte della famiglia». E sulle app di incontri: «Tutto ridotto all’osso, come un fast food».

Una fascia, un cognome e una storia che si porta dietro da sempre. Elio Finocchio, 37 anni, romano, dipendente dell’Hard Rock Café, è stato incoronato “gay più bello d’Italia”. Un titolo che accoglie con orgoglio e ironia, consapevole che il suo nome – da sempre facile bersaglio di battute – è diventato parte integrante della sua identità. «È una cosa che nasce con me, me la porto da quando ero piccolo e mi ha fatto crescere immediatamente. Se non avessi reagito allora, oggi non sarei qui», racconta.






La vittoria ha riportato la corona nel Lazio dopo tredici anni. Per lui è soprattutto il simbolo di un percorso di resilienza iniziato quando il padre gli propose, a diciott’anni, di cambiare cognome per evitargli prese in giro. «Gli dissi: “Papà, io non toccherò mai il mio cognome, perché cambiarlo significherebbe non essere più parte della famiglia. Sarebbe stata una sconfitta”». Una scelta che, col tempo, si è trasformata in forza. «Quando qualcuno mi prende in giro oggi è come se mi dicesse: buongiorno, come stai».
La sua prima settimana da “reggente” l’ha definita «una tranvata». Catapultato in interviste, social e riflettori, Finocchio avverte già il peso della responsabilità. «Sento di essere portavoce di una comunità che è sempre nell’occhio del ciclone per i diritti. Ci sta, e si va avanti a testa alta».
Il suo impegno non è nuovo: nel 2007 prestò il volto alle campagne della Gay Help Line e di Diritti Ora, diventando simbolo contro bullismo e discriminazioni. Ma dietro la fascia c’è anche un uomo che sogna una famiglia. «In Italia non mi sento discriminato, ma neanche tutelato appieno. Non mi sento al sicuro: c’è ancora troppa disinformazione, ignoranza e bigottismo».
Sulle app di incontri è netto: «Rispetto chi le usa, ma si è perso l’approccio umano. È tutto ridotto all’osso, come un fast food: voglio questo, me lo prendo. Io preferisco la vita reale, ridere, scherzare, parlare. Lo schermo riduce l’umanità».
Il suo nome oggi corre sui social, tra sfottò e sostegno. Lui sorride, abituato da sempre a convivere con quell’ironia. «Me lo tengo – dice – perché la vera vittoria è non darla mai vinta a chi ti prende in giro».
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