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Cucina

Scopri la cucina russa con l’Aringa in Pelliccia

L’insalata “aringa in pelliccia” è un piatto che, oltre a essere gustoso, rappresenta una parte significativa della tradizione culinaria russa. Ogni strato contribuisce al sapore complessivo, creando un’armonia di sapori dolci, salati e leggermente aciduli che deliziano il palato.

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    La cucina russa è ricca e variegata, riflettendo l’ampiezza e la diversità del paese. Con ingredienti semplici e tecniche di cottura tradizionali, la cucina russa offre piatti sostanziosi che spesso si basano su cereali, patate, carne e pesce. Le zuppe, come il borscht e la shchi, sono elementi fondamentali della dieta russa, così come i piatti a base di pasta come i pelmeni e i vareniki. Inoltre, la Russia è famosa per i suoi prodotti lattiero-caseari, tra cui panna acida, kefir e formaggi. Tra i dolci, le torte al miele e i blini con diverse farciture sono molto popolari.

    Uno dei piatti più iconici e amati della cucina russa è l’insalata “aringa in pelliccia” (селёдка под шубой), una combinazione unica di ingredienti che crea un sapore ricco e complesso. Questo piatto è spesso servito durante le festività, come il Capodanno, ed è apprezzato per la sua bellezza visiva e il suo gusto delizioso.

    Ricetta dell’Insalata “Aringa in Pelliccia”

    Ingredienti

    • 300 g di filetti di aringa sotto sale
    • 3 patate medie
    • 2 carote
    • 3 barbabietole medie
    • 1 cipolla
    • 3 uova
    • 200 g di maionese
    • Sale q.b.

    Procedimento

    1. Preparazione degli Ingredienti
      • Cuocere le patate, le carote e le barbabietole separatamente fino a quando non sono tenere. Lasciarle raffreddare, poi sbucciarle.
      • Cuocere le uova fino a renderle sode, quindi raffreddarle sotto acqua corrente, sbucciarle e tritarle finemente.
      • Tritare finemente la cipolla.
      • Sciacquare i filetti di aringa sotto acqua corrente per rimuovere l’eccesso di sale e tagliarli a pezzi piccoli.
    2. Stratificazione dell’Insalata
      • Prendere un piatto da portata ampio e iniziare a disporre gli ingredienti a strati.
      • Primo strato: Patate grattugiate. Distribuire uniformemente e condire leggermente con sale.
      • Secondo strato: Aggiungere uno strato di aringa tagliata a pezzi piccoli.
      • Terzo strato: Cipolla tritata finemente.
      • Quarto strato: Carote grattugiate.
      • Quinto strato: Uova tritate.
      • Sesto strato: Barbabietole grattugiate. Questo strato darà al piatto il suo caratteristico colore rosso.
      • Strato finale: Coprire tutto con uno strato generoso di maionese.
    3. Assemblaggio Finale
      • Una volta completati tutti gli strati, coprire l’insalata con della pellicola trasparente e lasciarla riposare in frigorifero per almeno 4 ore (preferibilmente tutta la notte) per permettere ai sapori di amalgamarsi.
    4. Servizio
      • Prima di servire, si può decorare la superficie dell’insalata con qualche ciuffo di prezzemolo o aneto fresco per un tocco di colore e freschezza.
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      Cucina

      Tiramisù, la vera ricetta del dolce italiano più amato nel mondo

      Nato tra Veneto e Friuli negli anni ’60, il tiramisù è oggi un’icona della pasticceria italiana. Pochi ingredienti, nessuna panna e una regola d’oro: rispetto assoluto per le uova fresche e il caffè espresso.

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      Tiramisù

        Ci sono dolci che si raccontano da soli, e il tiramisù è uno di questi. Nato da una manciata di ingredienti semplici — uova, mascarpone, savoiardi, zucchero e caffè — è diventato in pochi decenni un simbolo mondiale dell’Italia golosa. Il suo nome, “tirami su”, è già una promessa: energia, dolcezza, conforto.

        Sulla paternità del dolce si discute da anni. C’è chi lo attribuisce a Treviso, dove nel 1969 il ristorante Le Beccherie ne avrebbe servito la prima versione, e chi giura che sia nato a Tolmezzo, in Friuli. In ogni caso, il segreto è uno: semplicità assoluta.

        Per la ricetta originale bastano sei tuorli d’uovo, 120 grammi di zucchero, 500 grammi di mascarpone freschissimo, savoiardi e caffè espresso non zuccherato. Si montano i tuorli con lo zucchero fino a ottenere una crema chiara e spumosa, poi si incorpora delicatamente il mascarpone. Niente panna, niente albumi montati: il tiramisù vero si regge sulla setosità del mascarpone e sulla forza del caffè.

        I savoiardi si inzuppano rapidamente, mai troppo, nel caffè freddo, per evitare che si sfaldino. Si alternano strati di biscotti e crema, chiudendo con uno strato abbondante di crema e una spolverata generosa di cacao amaro. Il riposo in frigorifero per almeno quattro ore è fondamentale: solo così i sapori si fondono e il dolce raggiunge la sua perfetta armonia.

        C’è chi aggiunge un goccio di Marsala o di rum per profumare la crema, ma il tiramisù tradizionale ne fa a meno. È il contrasto tra l’amaro del caffè e la dolcezza del mascarpone a creare la magia.

        Nel tempo sono nate infinite varianti — al pistacchio, alle fragole, al limone — ma nessuna ha mai superato l’originale. Perché il tiramisù non è solo un dolce: è una carezza fredda, un rituale domestico, un pezzo d’Italia servito in coppetta.

        E ogni cucchiaino, anche dopo decenni, mantiene la stessa promessa: tirarti su, davvero.

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          Cucina

          Vin brulè, il profumo dell’inverno: la bevanda calda che riscalda mani, cuore e memoria

          Una tradizione antica, nata per scaldare i viaggiatori nelle locande di montagna e oggi diventata un rituale conviviale. Prepararlo in casa è facile: basta scegliere il vino giusto e dosare con cura le spezie.

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          Vin brulè

            C’è un momento, tra novembre e gennaio, in cui il profumo del vin brulè sembra inseguirci ovunque: nei mercatini di Natale, nelle baite, perfino nelle piazze delle città. È un aroma che sa di legno e agrumi, di cannella e fuoco acceso, capace di risvegliare ricordi e riscaldare anche le giornate più fredde.

            La sua storia è antichissima. Già i Romani bevevano il conditum paradoxum, un vino dolce scaldato con miele e spezie, antesignano dell’attuale vin brulè (dal francese vin brûlé, “vino bruciato”). In origine era un rimedio contro i malanni invernali, ma col tempo è diventato un piacere da condividere.

            Oggi ogni regione ha la sua versione: in Trentino si usa il Merlot o il Lagrein, in Valle d’Aosta il Petit Rouge, in Piemonte il Barbera. Ma la regola resta la stessa: serve un rosso corposo, non troppo giovane, capace di resistere al calore senza perdere carattere.

            La preparazione è un gesto antico, quasi rituale. In una casseruola si versa il vino con zucchero, scorza d’arancia e di limone, cannella, chiodi di garofano, anice stellato e — per i più audaci — una punta di noce moscata o di pepe. Si scalda lentamente, senza mai far bollire, finché lo zucchero si scioglie e la casa si riempie di un profumo avvolgente. Poi si filtra e si serve bollente, in tazze spesse o bicchieri resistenti, magari accompagnato da biscotti di panpepato o castagne arrosto.

            Il segreto sta nell’equilibrio: troppo zucchero lo rende stucchevole, troppe spezie lo coprono. Il vin brulè perfetto è armonia — caldo ma non bruciante, dolce ma non sciropposo, aromatico ma mai invadente.

            E come tutte le tradizioni che resistono al tempo, la sua magia è nella condivisione. Un sorso di vin brulè non si beve da soli: si offre, si racconta, si alza in un brindisi lento che sa di inverno, amicizia e ritorno alle origini.

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              Cucina

              Pizzoccheri della Valtellina, il piatto che scalda l’autunno: storia e ricetta del comfort food più amato delle Alpi

              Tra burro fuso, verza e formaggio Casera, i pizzoccheri sono il simbolo dell’autunno valtellinese e della cucina di montagna fatta di pochi ingredienti e tanto calore.

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              Pizzoccheri della Valtellina

                È difficile pensare a un piatto che racconti meglio l’autunno lombardo dei pizzoccheri della Valtellina. Rustici, generosi e avvolgenti, sono il manifesto della cucina di montagna. Una tradizione che nasce tra Teglio e Sondrio e che, ancora oggi, profuma le cucine di mezza Italia quando le giornate si accorciano e arriva il primo freddo.

                La ricetta è antica e affonda le radici nella vita semplice dei contadini di montagna. Impastavano la farina di grano saraceno — alimento povero ma ricco di energia — con poca farina bianca e acqua tiepida, fino a ottenere una sfoglia scura e ruvida. Tagliata a strisce corte, veniva cotta insieme a patate e verza, gli ingredienti più facilmente reperibili nelle valli alpine.

                Il segreto, però, è nella mantecatura. Una volta scolata, la pasta non si condisce: si costruisce, strato dopo strato, alternando pizzoccheri, formaggio Casera DOP e burro fuso profumato di aglio e salvia. Il calore fa sciogliere tutto e nasce così quella crema vellutata che rende ogni boccone irresistibile. È un piatto che non ha bisogno di sofisticazioni: basta una spolverata di pepe nero e il gioco è fatto.

                Oggi i pizzoccheri sono un simbolo identitario, tutelato dal marchio IGP, e vengono celebrati ogni anno a Teglio, patria della ricetta originale custodita dall’Accademia del Pizzocchero. Le versioni “moderne” prevedono piccole varianti. Come l’uso delle coste o del bitto al posto del Casera — ma la sostanza non cambia. Il gusto pieno, l’odore del burro che si mescola al fumo caldo e la sensazione di casa che accompagna ogni forchettata.

                Prepararli richiede tempo, ma è proprio in quella lentezza che si trova il piacere. Mentre il burro sfrigola in padella e la salvia sprigiona il suo profumo. Sembra quasi di sentire la neve alle finestre e il legno che scricchiola nel camino. I pizzoccheri, più che un piatto, sono un abbraccio.

                E se vuoi restare fedele alla tradizione, servili fumanti in una teglia di ghisa, con un bicchiere di rosso valtellinese accanto. Non è solo cucina: è un pezzo d’Italia che profuma di montagna e di memoria.

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