Cronaca Nera
‘Ndrangheta a Vicenza: preso il killer dopo 33 anni
Dopo 33 anni, il caso del duplice omicidio di Pierangelo Fioretto e Mafalda Begnozzi a Vicenza trova una svolta: Umberto Pietrolungo è stato arrestato, ritenuto responsabile del delitto grazie a nuove analisi del DNA. La notizia ha scosso la comunità locale, ponendo fine a uno dei più grandi misteri irrisolti.

Dopo 33 anni, il caso del duplice omicidio dei coniugi Pierangelo Fioretto e Mafalda Begnozzi a Vicenza ha finalmente trovato una svolta significativa. Umberto Pietrolungo, un uomo legato alla ‘ndrangheta, è stato arrestato e ritenuto responsabile del crimine. Grazie a nuove analisi del DNA, le autorità sono riuscite a collegare Pietrolungo al delitto, ponendo fine a uno dei cold case più noti della cronaca nera italiana.
I dettagli del delitto
Il 21 febbraio 1991, Pierangelo Fioretto, avvocato, e sua moglie Mafalda Begnozzi furono assassinati nella loro abitazione a Vicenza. I coniugi furono trovati uccisi a colpi di pistola, con Fioretto colpito in testa e la moglie al torace e all’addome. La dinamica dell’omicidio fu brutale e metodica, indicando la mano di un professionista. Le prime indagini suggerirono che il movente potesse essere legato alla professione di Fioretto, ma senza prove concrete, il caso rimase irrisolto per anni.
L’arresto di Umberto Pietrolungo
Umberto Pietrolungo, oggi 58enne, è stato arrestato dopo che le moderne tecniche di analisi del DNA hanno permesso di isolare tracce genetiche su un guanto trovato sulla scena del crimine. Pietrolungo, già noto alle forze dell’ordine per i suoi legami con il clan Muto di Cetraro, era stato fermato a Milano nel 1991 in compagnia di due esponenti della stessa ‘ndrina e denunciato per possesso ingiustificato di spray narcotizzante e proiettili compatibili con quelli usati nell’omicidio.

La dinamica dell’omicidio
La sera del delitto, un’Alfa Romeo 75, poi risultata rubata a Milano pochi giorni prima, fu vista più volte nei pressi della casa dei coniugi Fioretto. Testimoni oculari riferirono di aver visto due uomini allontanarsi dalla scena subito dopo gli spari. Le indagini successive rilevarono che la macchina era stata utilizzata come mezzo di fuga. Inoltre, Pietrolungo fu trovato in possesso di proiettili dello stesso calibro di quelli usati nel delitto, rafforzando i sospetti nei suoi confronti.
Le indagini e la svolta
Nel 2012, il caso fu riesumato dalla procura di Vicenza, e un guanto recuperato dalla scena del crimine fu sottoposto a nuove analisi. Il DNA isolato dal guanto è stato confrontato con quello di Pietrolungo, confermando la sua presenza sul luogo del delitto. Questa prova ha permesso alle autorità di procedere con l’arresto e di ricostruire i dettagli del caso, che erano rimasti oscuri per oltre tre decenni.

La reazione della comunità
La notizia dell’arresto ha scosso profondamente la comunità di Vicenza, che ha vissuto per anni con il peso di un duplice omicidio irrisolto. La risoluzione del caso rappresenta una vittoria per le forze dell’ordine e un sollievo per i familiari delle vittime, che finalmente vedono un barlume di giustizia. Questo arresto segna anche un passo importante nella lotta contro il crimine organizzato in Italia.
Cold case risolto
L’arresto di Umberto Pietrolungo rappresenta una svolta cruciale in uno dei casi più complessi della cronaca nera italiana. Questo risultato mette in luce l’importanza delle tecnologie moderne nelle indagini e la determinazione delle autorità nel cercare giustizia, anche dopo molti anni. La comunità di Vicenza può ora sperare in una chiusura tanto attesa per un capitolo doloroso della sua storia.
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Cronaca Nera
“Lo scopo dell’avvelenamento era l’aborto, non l’omicidio di Giulia Tramontano”: le motivazioni della sentenza su Impagnatiello
Per i magistrati l’avvelenamento con topicida serviva a provocare la perdita del feto, che l’uomo considerava un ostacolo alla sua vita e alla sua carriera. Nessuna prova di un piano omicida coltivato nel tempo: il proposito di uccidere Giulia sarebbe maturato poche ore prima del delitto, dopo l’incontro tra la giovane e l’altra donna con cui il barman aveva una relazione.

Lo scopo dell’avvelenamento non era l’omicidio di Giulia Tramontano ma “l’aborto del feto”. Così scrive la Corte d’Assise d’Appello di Milano nelle motivazioni della sentenza che ha confermato l’ergastolo per Alessandro Impagnatiello, escludendo però la premeditazione. Secondo i giudici, l’ex barman aveva individuato nel bambino che Giulia portava in grembo “il problema” da eliminare per proteggere la sua carriera e la sua vita privata.
Il verdetto chiarisce che “non vi sono prove” per retrodatare l’intento omicida rispetto al 27 maggio 2023, giorno in cui la giovane fu uccisa. Le 59 pagine depositate spiegano che, pur riconoscendo la crudeltà e il vincolo della convivenza, non si può parlare di un piano coltivato nel tempo. Il proposito omicida sarebbe maturato solo nel pomeriggio del delitto. Quando Impagnatiello si rese conto che Giulia e l’altra donna con cui aveva una relazione si erano incontrate, scambiandosi confidenze.
Alle 17 l’uomo lasciò il lavoro all’Armani Hotel e rientrò in motorino a Senago. Due ore dopo, quando Giulia mise piede nell’appartamento, fu aggredita e colpita con 37 fendenti, 11 dei quali mentre era ancora viva. Un arco temporale giudicato “troppo breve” per configurare la premeditazione. Assente anche in quelle che la Corte definisce “azioni neutre”, come il rincasare e attendere la convivente.
Per i magistrati Impagnatiello non ha ucciso la compagna perché lei voleva lasciarlo o per timore di controversie giudiziarie future. La molla, si legge, fu l’umiliazione subita quando la donna lo smascherò davanti a chi rappresentava, per lui, la sua “proiezione pubblica”: il palcoscenico del bar milanese dove lavorava. Un colpo insopportabile per il suo narcisismo.
La sentenza conferma l’ergastolo, ma esclude la premeditazione che la sorella di Giulia, Chiara, aveva invocato pubblicamente. Resta così un verdetto che sottolinea la brutalità del gesto, ma delimita il contesto in cui maturò, senza riconoscere un piano elaborato in anticipo.
Cronaca Nera
Torturato per dieci giorni e ucciso in diretta sui social: non era una messinscena, aperta un’inchiesta sugli “amici” dello streamer
Non più intrattenimento ma violenza reale. Raphael Graven, streamer con oltre mezzo milione di follower, è morto dopo giorni di dirette estreme. I legali dei due complici parlano di “finzione”, ma le immagini mostrano strangolamenti, ingestione di sostanze tossiche e colpi violentissimi. La procura apre un’inchiesta: i primi ad essere interrogati saranno proprio i due “amici”.

Raphael Graven, conosciuto in rete come Jeanpormanove, non era un esibizionista qualsiasi. A 46 anni, con oltre 582mila follower su TikTok e migliaia di spettatori fissi sulle dirette, aveva costruito la sua notorietà sulle “sfide impossibili”, al limite della sopportazione fisica. Ma il gioco è finito in tragedia. Dopo più di dieci giorni di live ininterrotti sulla piattaforma Kick, lo streamer è morto in diretta, mentre veniva sottoposto a sevizie sempre più estreme da parte dei suoi due complici, noti come Naruto e Safine.
Strangolamenti, pugni al volto, vernici gettate in testa, ingestione di sostanze tossiche: un crescendo di violenze spacciate per “contenuto estremo” che in realtà celavano sofferenza autentica. Lo dimostrano i video, che raccontano ben più di una “messinscena” come sostengono i legali dei due uomini. Per oltre dieci minuti, il corpo senza vita di Graven è rimasto esposto in diretta, sotto lo sguardo incredulo di migliaia di spettatori, prima che qualcuno interrompesse la trasmissione.
La procura ha aperto un’inchiesta. I primi a essere interrogati saranno proprio Naruto e Safine, i due che lo hanno accompagnato nelle ultime ore e che hanno continuato a spingerlo in performance sempre più estreme. La linea difensiva punta a presentare tutto come spettacolo, ma per gli investigatori la realtà appare diversa: la sofferenza era autentica e i segni lasciati sul corpo lo confermano.
Jeanpormanove aveva scelto Kick dopo aver abbandonato Twitch, piattaforma dai regolamenti più rigidi che già lo aveva messo nel mirino. Qui aveva trovato un terreno fertile per moltiplicare le sfide e alimentare la propria fama. Un pubblico pronto a cliccare, commentare e condividere, mentre la spirale di violenza diventava intrattenimento.
Ora la morte dello streamer obbliga a guardare oltre lo schermo: non più “content”, ma vita reale spinta fino al limite, dove l’applauso dei follower si trasforma in complicità silenziosa.
Cronaca Nera
La trappola del falso Matteo Bocelli: anziana pronta a versare migliaia di euro, salvata dalla direttrice delle Poste
Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.
Testo
«Devo fare un bonifico a Matteo, il figlio di Andrea Bocelli». Con questa frase una donna anziana si è presentata allo sportello dell’ufficio postale di Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, convinta di star facendo un favore al giovane tenore e pronta a versare migliaia di euro. In realtà si trattava dell’ennesima truffa orchestrata da criminali che usano nomi celebri per raggirare persone fragili.
La pensionata, come racconta il Corriere della Sera, aveva ricevuto sul cellulare un messaggio con la promessa di un regalo da parte della famiglia Bocelli. Poco dopo, un presunto autista le aveva chiesto di versare denaro su un conto per il recapito del pacco. La donna non aveva dubbi sulla veridicità della richiesta e, senza esitazione, si era recata alle Poste.
A salvarla è stata l’intuizione della direttrice, Cristina Remondini. «La cliente chiedeva di effettuare un versamento in denaro e quando ho letto la causale mi sono subito insospettita», ha raccontato. Per guadagnare tempo e far ragionare la donna, la funzionaria ha finto un problema tecnico al terminale. Nel frattempo, ha contattato i carabinieri e avvisato il marito della signora.
Quando l’uomo è arrivato in ufficio, la truffa è emersa in tutta la sua chiarezza. I due coniugi si sono poi recati in caserma per sporgere denuncia, mentre l’audio e i messaggi ricevuti sono stati acquisiti dagli inquirenti.
Il meccanismo era semplice e subdolo: fingere di essere un personaggio noto, in questo caso Matteo Bocelli, e convincere la vittima a versare denaro in cambio di un regalo inesistente. Una variante del cosiddetto “pacchetto truffa” che continua a mietere vittime soprattutto tra gli anziani.
Grazie alla prontezza della direttrice, questa volta i risparmi della donna sono stati salvati. Un intervento che conferma quanto la vigilanza quotidiana di chi lavora a contatto con il pubblico possa fare la differenza contro chi sfrutta ingenuità e buona fede.
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