Cronaca Nera
La famiglia più ricca d’Inghilterra accusata di sfruttamento
Gli Hinduja, con un patrimonio di quasi 45 miliardi di euro, sono sotto processo in Svizzera per presunto sfruttamento e traffico di essere umani, ossia i propri lavoratori. I legali smentiscono. Ma ora i loro assistiti rischiano fino a 5 anni di carcere
La famiglia Hinduja, la più ricca del Regno Unito con un patrimonio di quasi 45 miliardi di euro, è attualmente coinvolta in un processo in Svizzera per accuse gravi di sfruttamento e traffico di esseri umani. Le accuse riguardano quattro membri della famiglia: Prakash Hinduja, sua moglie Kamal, il loro figlio Ajay e la moglie di quest’ultimo, Namrata.
Le accuse
Gli Hinduja sono accusati di aver trattato i loro lavoratori in modo inumano, pagandoli meno di quanto spendevano per i loro animali domestici. Secondo le testimonianze dei dipendenti, reclutati principalmente dall’India, i lavoratori avrebbero ricevuto solo 8 euro al giorno per turni di lavoro che potevano durare fino a 18 ore. Inoltre, i dipendenti affermano che i loro passaporti sono stati confiscati, limitando la loro libertà di movimento.
La difesa
Gli avvocati della famiglia Hinduja negano con forza tutte le accuse, sostenendo che i dipendenti sono stati trattati legalmente e che è stato loro fornito vitto e alloggio. Hanno inoltre contestato la veridicità delle ore di lavoro dichiarate dai lavoratori, suggerendo che molte delle attività svolte non possono essere considerate “lavoro” nel senso tradizionale del termine.
Implicazioni legali
Se condannati, i membri della famiglia Hinduja potrebbero affrontare fino a cinque anni di carcere. Il processo penale in corso in Svizzera è particolarmente significativo, in quanto segue un precedente processo civile per sfruttamento che si è concluso con probabili risarcimenti milionari per i lavoratori coinvolti.
Il contesto
La famiglia Hinduja possiede una vasta gamma di attività e proprietà, tra cui l’hotel di ultra-lusso Raffles at the Owo a Londra. Il caso in corso a Cologny, nel Canton Ginevra, mette in evidenza le disparità tra lo stile di vita lussuoso degli Hinduja e le condizioni di lavoro deplorevoli che i dipendenti affermano di aver subito.
Non è la prima volta
Il processo contro la famiglia Hinduja è solo l’ultimo di una serie di casi simili che hanno visto coinvolte famiglie influenti accusate di sfruttamento dei lavoratori. Le implicazioni legali e morali di questi casi continuano a sollevare dibattiti sulla responsabilità dei datori di lavoro e sulle condizioni di lavoro dei dipendenti domestici a livello globale.
Questo caso non solo mette a rischio la reputazione della famiglia Hinduja, ma potrebbe anche avere ripercussioni significative sulle loro attività commerciali e sul loro status legale. Il mondo osserva attentamente gli sviluppi di questo processo, che potrebbe stabilire un importante precedente giuridico.
La situazione è in evoluzione e ulteriori dettagli emergeranno man mano che il processo procede. Restate sintonizzati per aggiornamenti su questa vicenda che continua a catturare l’attenzione internazionale.
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Cronaca Nera
Un’impronta misteriosa e una vecchia scala: il segno numero 44 riaccende i dubbi sul delitto di Garlasco
È catalogata come “numero 44”, si trova sul muro delle scale che portano alla cantinetta dove fu ritrovato il corpo di Chiara Poggi. Per la Procura è compatibile con la ricostruzione dei movimenti di Andrea Sempio, l’amico della vittima mai indagato all’epoca. Ma il confronto del Dna resta un’incognita.

Un numero, un’impronta e una scala. Potrebbero bastare questi tre elementi a riaprire – simbolicamente e forse anche giudiziariamente – il caso Garlasco. Parliamo dell’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto 2007 nella villetta di via Pascoli, e di una traccia rimasta finora ai margini dell’inchiesta: l’impronta numero 44.
È stata rilevata sul muro delle scale che conducono alla cantina, là dove il corpo della giovane venne trascinato. Ha la forma di una suola a righe verticali, collocata in basso, verso i gradini. E ora torna sotto la lente degli inquirenti. Non è sola: secondo la nuova ricostruzione della Procura di Pavia, guidata da Fabio Napoleone, la 44 va letta insieme alla traccia “33” (un’impronta palmare) e alla macchia ematica “97f”, presente sulla parete opposta.
Tre segni, un’unica traiettoria. È questa la nuova ipotesi: una sola persona avrebbe lasciato tutte e tre le tracce. La mano insanguinata si poggia al muro (traccia 33), i piedi scivolano sui gradini (traccia 44), e la spinta sul corpo della vittima lascia la scia di sangue (97f). Un mosaico inquietante, che gli esperti del Ris stanno ricostruendo fotogramma per fotogramma.
Il problema? Nessuna delle impronte esaminate finora ha restituito profili di Dna utili al confronto. I fogli di acetato usati per conservare le tracce digitali contengono campioni troppo degradati. Nemmeno la numero 10, quella sulla porta d’ingresso – potenzialmente la più compromettente – ha superato i test.
Eppure, c’è un nome che aleggia su questa nuova fase dell’inchiesta: Andrea Sempio. Già menzionato in un’informativa dei carabinieri di Milano nel 2016, oggi è di nuovo al centro del lavoro dei consulenti della Procura. È lui, secondo alcune perizie, il soggetto compatibile con la palmare numero 33. Ma non è mai stato interrogato formalmente.
Intanto, l’ex fidanzato di Chiara, Alberto Stasi, condannato in via definitiva a 16 anni, è da poco in semilibertà. Mentre periti e consulenti si preparano a nuovi accertamenti, tra cui l’analisi del tappetino del bagno e dei tamponi sul corpo della vittima. La domanda resta sospesa: quella scarpa a righe, impressa in un angolo dimenticato, può ancora raccontare la verità?
Cronaca Nera
Garlasco, nuove ombre sull’omicidio Poggi: Dna di Chiara e Stasi nei rifiuti, testimone minacciato sul Santuario
Le ultime analisi sui reperti del caso Garlasco trovano solo il Dna della vittima e di Alberto Stasi. Ma un testimone parla della presenza abituale di Andrea Sempio al Santuario della Bozzola. E finisce sotto minaccia.

Nel sacchetto dell’immondizia ritrovato in via Pascoli a Garlasco ci sono tracce genetiche di Chiara Poggi e di Alberto Stasi. Nessuna presenza, almeno finora, di Andrea Sempio. È quanto emerge dai nuovi accertamenti disposti dal gip di Pavia, Daniela Garlaschelli, che ha incaricato la genetista Denise Albani di analizzare i materiali rimasti dalla scena del crimine.
I tamponi effettuati giovedì 19 giugno negli uffici della Scientifica di Milano su un piattino di plastica, un sacchetto azzurro e le linguette di due confezioni di Fruttolo, hanno restituito sequenze biologiche appartenenti alla vittima. In un caso, si è addirittura ottenuta una sequenza quasi completa del Dna di Chiara. L’unico Dna maschile identificato – finora – è quello di Stasi, rinvenuto su una cannuccia di plastica del brick di Estathé.
Parallelamente si sta lavorando anche su 34 fogli di acetato che in origine avevano conservato le impronte digitali, ma che ai primi test sul sangue sono risultati negativi. Due nuove impronte però sono ora sotto analisi: una scoperta sullo stipite della porta che porta alla cantina – comparabile ma non appartenente né a Stasi né a Sempio – e l’altra sulla cornetta del telefono. Secondo i tecnici, potrebbe essere della stessa Chiara, colta mentre tentava di difendersi.
Ma il fronte più inquietante, oggi, è quello legato ai testimoni. A parlare è un uomo di nome Maurizio, frequentatore del Santuario della Bozzola fin dagli anni ’90, che ha raccontato in tv – a Mattino 5 – di aver visto spesso Andrea Sempio insieme a un gruppo di amici, tra cui anche Marco Poggi, fratello di Chiara. «Io vedevo le gemelle Cappa, insieme a volte con Chiara. Ma Stasi mai», ha dichiarato.
Il suo racconto però ha avuto un prezzo. Durante la processione del 31 maggio scorso, al termine della preghiera, Maurizio è stato aggredito verbalmente da altri fedeli, scontenti del fatto che avesse parlato con i giornalisti. Un episodio grave, che getta nuove ombre su un caso mai del tutto chiuso, nonostante le condanne definitive.
Intanto le indagini alternative proseguono. Ma i reperti sembrano restituire una sola verità: il Dna di Chiara e di Stasi. Nessuna traccia, per ora, di altri possibili indagati. E a Garlasco, chi parla, continua a farlo sottovoce.
Cronaca Nera
Giappone, giustiziato il “killer di Twitter”: uccise e smembrò nove persone che aveva adescato online
Condannato a morte nel 2020, il 34enne aveva ammesso l’uccisione di nove giovani, attirate con la promessa di “aiutarle a morire”. Le vittime, tutte minorenni o poco più che ventenni, avevano lasciato segnali di disperazione sui social.

Il Giappone è tornato a eseguire una condanna a morte. A quattro anni dalla sentenza definitiva, e a due dall’ultima esecuzione, venerdì è stato impiccato nel carcere di Tokyo Takahiro Shiraishi, 34 anni, soprannominato dalla stampa giapponese “il killer di Twitter”. Aveva confessato di aver ucciso, violentato e smembrato nove persone, tra cui otto giovani donne e un uomo, adescati sui social mentre esprimevano pensieri suicidi. L’impiccagione – confermata dai principali media nazionali tra cui la NHK, pur senza conferma ufficiale del ministero della Giustizia – è stata eseguita nella massima riservatezza, come da prassi nel sistema penale giapponese.
Era il 2017 quando la polizia giapponese, indagando sulla scomparsa di una ragazza di 23 anni, si presentò alla porta dell’appartamento di Shiraishi, a Zama, nella prefettura di Kanagawa. Fu lì che gli agenti scoprirono un orrore oltre ogni immaginazione: tre frigoriferi portatili e cinque contenitori pieni di resti umani. Teste, ossa, corpi mutilati con la carne raschiata via. Nove vite spezzate, nove identità ricostruite a fatica nel silenzio e nell’orrore.
Le vittime avevano tra i 15 e i 26 anni. In comune avevano fragilità, disagio e il fatto di aver scritto sui social – in particolare Twitter, oggi X – il proprio desiderio di farla finita. Shiraishi li contattava con un nickname che può essere tradotto come “il boia” e prometteva loro una morte indolore, una compagnia nell’ultimo passo. Invece, li attirava nel suo appartamento e li uccideva. Durante il processo, ha ammesso di averlo fatto “per soddisfare i propri impulsi sessuali”.
Secondo quanto riportato da Jiji Press, nell’atto d’accusa si legge che Shiraishi usava Twitter per cercare persone che esprimessero tendenze suicide. Offriva loro ospitalità, comprensione, conforto. Poi la trappola scattava. Gli omicidi si sono consumati nell’arco di tre mesi, tra agosto e ottobre 2017. L’ultima vittima, quella che ha portato all’arresto, fu una giovane donna che aveva manifestato l’intenzione di togliersi la vita. Fu suo fratello, insospettito, a segnalare alla polizia gli ultimi messaggi che aveva scambiato online. Quei messaggi hanno condotto all’appartamento degli orrori.
Nel 2020, al termine di un processo molto seguito dall’opinione pubblica, Shiraishi fu condannato a morte. I giudici non accolsero la tesi difensiva secondo cui le vittime avrebbero acconsentito alla morte. Al contrario, si stabilì che le aveva manipolate e poi soppresse con freddezza. Il suo avvocato aveva presentato appello presso l’Alta Corte di Tokyo, ma il ricorso fu poi ritirato, rendendo definitiva la condanna.
La giustizia giapponese ha tempi lunghi ma non dimentica. L’impiccagione di Shiraishi è la prima esecuzione dal luglio 2022. In Giappone, la pena capitale è prevista per i crimini più gravi e avviene con un rituale rigido, senza preavviso, nel silenzio più assoluto. Né i familiari né gli avvocati vengono avvisati prima dell’esecuzione: la notizia arriva solo dopo che la corda è calata.
“Avrei preferito che vivesse il resto della sua vita riflettendo su ciò che ha fatto”, ha dichiarato alla NHK il padre di una delle vittime, alla notizia dell’avvenuta esecuzione. “Morire in pochi secondi è troppo facile per lui”.
Il caso ha avuto un impatto enorme in Giappone. Ha scatenato un dibattito nazionale sulla vulnerabilità psicologica dei giovani, sulla solitudine, sul disagio mentale e sull’uso dei social come canale di adescamento. Le autorità hanno avviato campagne di sensibilizzazione e numerosi centri anti-suicidio hanno rafforzato la presenza online, proprio per intercettare chi, come le vittime di Shiraishi, cerca conforto in rete. Ma il dolore resta.
Il Giappone resta uno dei pochi Paesi industrializzati dove la pena capitale è ancora applicata. Le modalità delle esecuzioni, però, sono da sempre oggetto di critica da parte di organizzazioni internazionali come Amnesty International, che parla di “sistema disumano” per l’assenza di trasparenza e l’impossibilità, di fatto, di seguire l’iter da parte delle famiglie. Ma in casi come questo, il consenso popolare tende a schierarsi dalla parte del rigore assoluto. La fine del killer di Twitter è arrivata senza preavviso, come i suoi omicidi.
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