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Cronaca

Fascicolo Sanitario Elettronico 2.0 entro il 30 giugno bisogna confermare i propri dati

Il Fascicolo Sanitario Elettronico 2.0 è uno strumento avanzato per monitorare la salute, ma presenta dei rischi legati alla privacy. Il diritto all’opposizione del pregresso consente di mantenere maggior controllo sui propri dati sanitari antecedenti al 2020. La procedura per opporsi può essere complessa e variare tra le regioni. La scelta di opporsi è personale e deve bilanciare la comodità dell’accesso ai dati con le preoccupazioni legate alla privacy.

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    Entro fine mese è necessario confermare i dati raccolti nel nostro fascicolo sanitario elettronico 2.0. Oppure ci si può opporre nel fare inserire i propri dati antecedenti al 19 maggio 2020. La scadenza è prevista per il 30 giugno, ma in pochi sanno perfino dell’esistenza di questo strumento utile per monitorare il nostro stato di salute.

    Che cos’è il Fascicolo Sanitario Elettronico

    Il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) è uno strumento digitale che raccoglie e conserva la storia clinica e sanitaria di ogni cittadino, condividendola con gli operatori sanitari per migliorare l’assistenza. Esiste dal 2012 e ora sta evolvendo nella versione 2.0 grazie ai fondi del PNRR.

    Cos’è il diritto all’opposizione del pregresso?

    Il diritto all’opposizione del pregresso riguarda la possibilità di opporsi all’inserimento nel FSE dei dati sanitari generati prima del 19 maggio 2020. Questo diritto nasce perché i dati raccolti prima del 2020 erano soggetti a una normativa differente che richiedeva il consenso per l’acquisizione.

    Come si esercita l’opposizione?

    Per esercitare l’opposizione, si può utilizzare i dato dello SPID, la Carta d’identità elettronica (CIE) o la Carta nazionale dei servizi. In alternativa, si può accedere all’area libera del Sistema Tessera Sanitaria con la tessera sanitaria o il codice STP (straniero temporaneamente presente). È anche possibile rivolgersi gratuitamente alla propria ASL di riferimento.
    C’è da sottolinear che la procedura digitale non è del tutto intuitiva, soprattutto per persone anziane o con difficoltà tecnologiche. Ci sono diversi passaggi che possono risultare complessi, e la presenza di “dark pattern“(modelli ingannevoli) può confondere ulteriormente gli utenti.

    Opporsi può essere utile o pericoloso?

    Opporsi può essere utile per chi desidera mantenere una maggiore riservatezza sui propri dati sanitari pregressi. Avere un database unico con dati vecchi può esporre gli utenti a rischi di hackeraggi e fughe di dati. Tuttavia, opporsi non impedisce l’accesso ai dati sanitari in caso di emergenza, come al pronto soccorso. La decisione di opporsi è strettamente personale e non preclude l’accesso ai propri dati sanitari digitalizzati, compresi quelli antecedenti al 2020, ma li rende meno facilmente accessibili agli operatori sanitari.

    Attenti alle differenze regionali

    L’integrazione dei dati nel FSE varia da regione a regione. In alcune regioni, il Fascicolo è ben curato e accessibile, mentre in altre è ancora poco utile a causa di un gap tecnologico. Infatti il livello di integrazione dei dati non è omogeneo in tutte le Regioni. In alcune, come la Lombardia, è molto curato e accessibile mentre in altre è quasi inutile a causa di un forte gap tecnologico. Il federalismo non ha conseguenze nella visibilità dei dati sanitari da parte dell’utente/paziente, che ha accesso sempre a tutto. Al contrario – e questo rappresenta un pericolo e un vero handicap – gli operatori sanitari invece non possono vedere i documenti sanitari generati in una Regione diversa da quella in cui esercitano la loro professione. Un limite che secondo alcuni esperti può essere superato a prescindere dall’opposizione o meno al FSE se l’utente fornisce il proprio consenso e gli estremi della tessera sanitaria. I rischi per la privacy, infine, sono legati alla possibilità che i dati sanitari possano finire nelle mani sbagliate, esponendo gli utenti a potenziali abusi.


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      Italia

      Plasmon torna italiana dopo 50 anni: il biscotto dell’infanzia rientra a casa

      Il gruppo emiliano NewPrinces rileva lo storico marchio dai colossi americani di Kraft Heinz. Un ritorno al made in Italy che sa di rivincita industriale (e sentimentale)

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        Dopo cinquant’anni trascorsi all’estero, Plasmon torna italiana. Lo storico marchio di biscotti per l’infanzia – icona dolce di generazioni di bambini e segreto inconfessabile per molti adulti – è stato acquistato dal gruppo emiliano NewPrinces (ex Newlat Food), che ha rilevato le attività italiane di Heinz per una cifra vicina ai 120 milioni di euro.

        A vendere è stato il colosso statunitense Kraft Heinz, che dal 1967 controllava Plasmon e che ora cede non solo il marchio madre, ma anche altri brand come Nipiol, BiAglut, Aproten e Dieterba, tutti specializzati nell’alimentazione infantile e dietetica. Il cuore produttivo dell’operazione è lo stabilimento di Latina, dove ogni anno vengono sfornati 1,8 miliardi di biscotti, omogeneizzati e pappe.

        Fondata nel 1902 a Milano dal medico Cesare Scotti, Plasmon è stata per decenni un punto fermo della tavola italiana, soprattutto durante il boom demografico del dopoguerra. Complice la pubblicità in Carosello e le scatole di latta diventate oggi oggetto vintage, il marchio ha conquistato una fiducia senza tempo.

        La vendita alla Heinz americana, avvenuta negli anni Sessanta, aveva segnato l’inizio di una lunga fase di internazionalizzazione, ma anche di distacco emotivo dal territorio. Ora, grazie a NewPrinces, il brand fa ritorno in mani italiane. Una mossa non solo industriale ma anche simbolica, che parla di filiere locali, know-how nazionale e voglia di riportare valore a casa.

        Lo stabilimento di Latina, considerato tra i più avanzati d’Europa nel settore, continuerà a produrre anche per il mercato britannico, almeno per un periodo transitorio. Ma il controllo, questa volta, torna sotto bandiera tricolore.

        NewPrinces – già attiva con brand storici come Polenghi e Delverde – punta così a rafforzare la propria posizione nel comparto baby food. In un mercato da 200 milioni di euro di fatturato e un margine operativo lordo di circa 17 milioni.

        Una buona notizia, per una volta. Che sa di latte caldo, biscotti e orgoglio nazionale.

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          Mistero

          Quel morso nell’anca: la scoperta choc che riscrive la storia dei gladiatori in Britannia

          Fino a oggi le prove dei sanguinosi spettacoli tra fiere e gladiatori fuori da Roma erano solo artistiche o letterarie. Ora, per la prima volta, uno scheletro umano con segni compatibili con un morso di leone fornisce la prova materiale che anche nelle province più periferiche dell’Impero si celebrava il macabro culto della violenza. Il teatro? L’antica Eboracum, la moderna York.

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            C’è un foro nell’osso dell’anca. Profondo, netto, senza margini di guarigione. Un taglio che non lascia spazio ai dubbi: chi ha subito quella ferita non è sopravvissuto. La cosa davvero sorprendente è che quel foro non lo ha provocato una spada, né una lancia, né uno dei tanti strumenti di morte dei gladiatori. È un morso. Di leone.

            La scoperta arriva da York, nel Regno Unito, un tempo colonia romana nota come Eboracum, e cambia radicalmente la narrazione storica sugli spettacoli gladiatori fuori dalle mura di Roma. Lo scheletro appartiene a un uomo tra i 26 e i 35 anni, morto circa 1.800 anni fa, il cui corpo è stato sepolto con una cerimonia che suggerisce un certo rispetto. Eppure, di lui oggi resta solo quel foro nell’osso, la firma inconsapevole di un grande felino. E l’ipotesi di una morte sotto le zanne di una belva, in uno spettacolo pubblico.

            Il ritrovamento è parte di un’indagine archeologica durata oltre vent’anni, coordinata dalla Maynooth University e da un consorzio di università e istituti britannici. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Plos One e rappresenta la prima prova osteologica diretta di un combattimento tra uomo e leone in territorio britannico.

            La ferita, ricostruita in 3D, è stata confrontata con diversi modelli di dentature animali: quella del leone, per forma e dimensioni, è l’unica compatibile. “Una scoperta che apre una finestra terribile ma concreta sulla brutalità del potere romano”, spiega John Pearce del King’s College.

            La tomba è stata rinvenuta nel sito di Driffield Terrace, noto per essere una delle necropoli gladiatorie meglio conservate del mondo romano. Già nel 2010 erano stati ritrovati 82 scheletri, molti dei quali con segni evidenti di vita da combattente: corpi robusti, fratture cicatrizzate, articolazioni rovinate dall’eccesso di sforzi. Uno di questi, oggi, parla con un morso.

            Secondo l’archeologa Malin Holst, si trattava di un bestiario, il tipo di gladiatore addestrato a combattere con animali feroci. Le ossa di cavallo trovate accanto a lui, i traumi multipli e persino le tracce di malnutrizione infantile raccontano una vita di fatica, addestramento e probabilmente schiavitù. Un’esistenza passata a sfidare la morte — fino a che, un giorno, la morte ha vinto.

            Eppure York non ha mai restituito tracce dirette di un anfiteatro romano. E allora dov’è avvenuto lo scontro? Forse in una struttura lignea temporanea. Forse in un’arena più piccola e già scomparsa. Di certo la ricchezza di Eboracum — la città che vide l’ascesa dell’imperatore Costantino nel 306 d.C. — giustifica la presenza di simili spettacoli. La provincia non era poi così lontana dal cuore pulsante dell’Impero.

            Non erano solo giochi, erano messaggi politici. Simboli della forza romana, della sua capacità di domare le bestie, reali e metaforiche. La presenza di un leone a York ci ricorda un dettaglio spesso ignorato: l’impero catturava e deportava migliaia di animali esotici. Leoni, pantere, orsi dai monti dell’Atlante, tigri dall’India, giraffe, coccodrilli e ippopotami dall’Egitto. Viaggi impossibili, durissimi, solo per garantire al popolo quel miscuglio di orrore e meraviglia che teneva in piedi il consenso imperiale.

            Quello che oggi possiamo chiamare intrattenimento era, in realtà, propaganda fatta carne. Carne umana, carne animale. E sangue.

            Il foro nel bacino dell’uomo di York racconta tutto questo. Non servono mosaici, né affreschi, né epigrafi. Basta un morso. E un osso che ha atteso quasi due millenni per farsi sentire.

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              Cronaca Nera

              Risponde alla chiamata dei carabinieri e perde 39.000 euro: ecco come funziona la truffa dei numeri clonati

              Un sessantenne di Genova è stato truffato con la tecnica dello spoofing, un attacco sofisticato che replica numeri telefonici ufficiali, rendendo difficile distinguere la truffa dalla realtà. Con un finto maresciallo dei carabinieri e un “operatore” della banca, i truffatori hanno svuotato il suo conto. Ecco i dettagli di questo inganno e come difendersi.

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                Tutto inizia con una chiamata apparentemente da parte di un maresciallo dei carabinieri: avverte la vittima di una frode sul suo conto bancario. Poco dopo, segue una telefonata da un operatore della banca che conferma l’allarme e consiglia di trasferire i risparmi su un nuovo conto “sicuro”. La vittima, un sessantenne di Genova, esegue l’operazione tramite home banking e solo dopo scopre l’amara realtà: quei soldi, circa 39.000 euro, sono spariti per sempre.

                Spoofing: una truffa sempre più sofisticata
                Questo tipo di truffa, noto come spoofing, sfrutta la falsificazione dell’identità per ingannare le vittime. I truffatori possono clonare numeri telefonici di carabinieri, banche o altri enti, così da sembrare affidabili e mettere a segno il colpo. Nel caso del sessantenne, persino una verifica online non ha aiutato, poiché i numeri corrispondevano effettivamente a quelli reali delle forze dell’ordine e della banca.

                Come difendersi dallo spoofing
                Per evitare di cadere in trappola, è fondamentale non condividere mai dati personali o bancari via telefono e non avviare operazioni durante una chiamata, anche se la fonte sembra affidabile. In caso di dubbio, è sempre meglio chiamare direttamente la propria banca o l’ente coinvolto, usando numeri verificati. Chi sospetta di essere stato vittima di uno spoofing dovrebbe denunciare il fatto alla polizia postale o ai carabinieri per aiutare a fermare questi truffatori.

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