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Italia

Stop ai voli brevi se c’è il treno veloce come alternativa. Una bella suggestione

L’idea di sostituire i voli brevi con i treni ad alta velocità in Italia, sebbene interessante per ridurre le emissioni, appare applicabile solo a una piccola porzione di rotte, soprattutto a causa delle peculiarità geografiche del Paese e delle limitazioni della rete ferroviaria esistente.

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    L’idea di ridurre i voli brevi a favore dei treni ad alta velocità per diminuire le emissioni nocive è stata già adottata in Francia. Ed è in discussione anche in Italia. Uno studio dell’Itsm (Iccsai transport and sustainable mobility center) dell’Università di Bergamo ha evidenziato che l’applicazione di questa misura in Italia sarebbe limitata a poche rotte a causa di specifiche caratteristiche geografiche e infrastrutturali del Paese. Ma comunque male non fa. E’ una bella suggestione…

    Le 12 rotte sostituibili

    Lo studio ha individuato solo 12 rotte, il 2,8% di tutti i collegamenti nazionali, in cui il treno potrebbe essere una valida alternativa all’aereo, con un tempo di viaggio non superiore del 20% rispetto al volo. Le 12 rotte individuate finora.

    Roma Fiumicino – Milano Linate
    Roma Fiumicino – Milano Malpensa
    Milano Malpensa – Napoli
    Roma Fiumicino – Genova
    Bergamo – Napoli
    Roma Fiumicino – Napoli
    Milano Linate – Napoli
    Bologna – Roma Fiumicino
    Roma Fiumicino – Firenze
    Roma Fiumicino – Pisa
    Bergamo – Pescara
    Bergamo – Roma Fiumicino.

    L’impatto ambientale

    Nel 2019, su queste rotte sono stati operati circa 45.000 voli, responsabili dell’1,45% delle emissioni di CO2 del trasporto aereo nazionale. Tuttavia, la soppressione di tali voli potrebbe non portare a una riduzione significativa delle emissioni, poiché parte dei passeggeri potrebbe optare per l’uso di automobili, annullando il beneficio ecologico previsto.

    Le sfide geografiche

    L’Italia presenta delle sfide particolari, come la presenza di isole maggiori. Per le quali l’aereo rimane è l’unica alternativa efficace. Inoltre, l’orografia complessa e la presenza di zone sismiche o idrogeologiche rendono la costruzione di nuove linee ferroviarie difficoltosa e costosa. Più del 50% delle rotte aeree interne riguarda le isole, e quindi non può essere sostituito da treni ad alta velocità.

    Estensione della rete ferroviaria

    Sebbene l’estensione della rete ferroviaria possa sembrare una soluzione, questa risulta economicamente e ambientalmente sostenibile solo con un elevato volume di traffico. La realizzazione di nuove infrastrutture sarebbe vantaggiosa solo se la domanda riuscisse a coprire i costi, altrimenti l’intero progetto potrebbe diventare insostenibile.

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      Italia

      Targa polacca per risparmiare sull’RC. Conviene? Un escamotage a rischio

      Boom di targhe polacche su motorini e auto: servono ad aggirare le assicurazioni. Una scelta molto rischiosa.

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      targhe polacche

        Sono sempre di più i veicoli che circolano con targa polacca: un trucco per abbattere i costi dell’assicurazione, ma che può avere conseguenze inaspettate.

        Il fenomeno dell’utilizzo delle targhe polacche per motorini e auto in Italia è diventato sempre più diffuso. In particolare in città come Napoli e in genere al Sud Italia. Delle 53 mila targhe straniere in Italia ben 35 mila, infatti, sono solo a Napoli. Una tendenza che è alimentata dai costi elevati delle assicurazioni. Del resto Napoli, dopo Prato è la città dove l’assicurazione Rc auto è la più costosa. Un esempio? L’Rc di un motorino nel capoluogo campano annualmente può superare i 1.500 euro annui di spesa. Con l’utilizzo di una targa straniera il costo si può ridurre fino a un quinto.

        Come si fa in pratica

        Il trucco consiste nel registrare il proprio veicolo come esportato in Polonia attraverso una procedura che coinvolge la radiazione del veicolo in Italia e la successiva immatricolazione in Polonia. Una volta ottenuta la nuova immatricolazione, il proprietario stipula un contratto di noleggio con una società intestataria polacca, consentendo di pagare tariffe assicurative significativamente inferiori rispetto a quelle italiane. Un giochino semplice semplice. Si pagano circa 600-800 euro il primo anno che diventano 300-350 euro per gli anni successivi. La pratica è consentita dalle normative italiane, come Giuseppe Guarino, Segretario Nazionale Studi di Unasca (Unione Nazionale Autoscuole e Studi di Consulenza Automobilistica). “Le agenzie di pratiche auto applicano le norme che consentono queste procedure“.

        Risparmio ma con quali rischi?

        Questa pratica comporta serie conseguenze. In caso di incidente, la nuova compagnia assicurativa polacca potrebbe non pagare o farlo con ritardi significativi. Inoltre, il proprietario perde il controllo diretto del veicolo, non potendo più venderlo o disporne liberamente. Se la società intestataria del veicolo fallisse, tutti i veicoli registrati con essa verrebbero confiscati, causando ulteriori complicazioni per gli ex proprietari. Insomma è necessario valutare molto bene se conviene risparmiare ma rischiare complicazioni anche penali oltre che amministrative.

        Italia tra i paesi più cari

        Questa pratica evidenzia un problema più ampio: i costi elevati delle assicurazioni in Italia. L’IVASS ha rilevato che gli italiani pagano il 27% in più rispetto alla media europea per assicurare i propri veicoli, con un aumento dei prezzi superiore all’inflazione negli ultimi anni. Questo fenomeno potrebbe essere un catalizzatore per l’aumento degli evasori assicurativi, con milioni di veicoli che circolano senza l’assicurazione obbligatoria. Nel nostro Paese, infatti, per assicurare un veicolo si paga il 27% in più rispetto alla media degli altri Paesi europei e nell’ultimo anno i prezzi sono saliti del 7,5%, un valore maggiore dell’inflazione.

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          Italia

          Villa Certosa, la reggia da mezzo miliardo che fa gola agli sceicchi: tra leggende, trattative e voci mai sopite

          Stimata tra i 300 e i 500 milioni, Villa Certosa non è solo una villa: è un simbolo del potere berlusconiano. Secondo La Nuova Sardegna c’è un interessamento concreto da parte di un facoltoso arabo, ma il closing resta lontano.

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            Ogni estate, insieme alle cronache mondane della Costa Smeralda, riaffiora anche il tormentone di Villa Certosa. È il destino delle residenze diventate leggenda: non sono solo case, ma scenografie di un’epoca. La maxi-dimora sarda di Silvio Berlusconi, affacciata sul golfo di Porto Rotondo, torna oggi al centro dei riflettori con un nuovo, presunto corteggiatore: un magnate arabo pronto a farsi avanti con un’offerta da capogiro.

            Le cifre ballano tra i 300 e i 500 milioni di euro, a seconda delle stime. Una valutazione che fa tremare i polsi anche agli sceicchi abituati a palazzi dorati. Secondo La Nuova Sardegna, l’interessamento c’è, ma da qui a parlare di vendita conclusa il passo è lungo: il famigerato “closing” resta ancora appeso, mentre per ora a circolare sono solo rumors e mezze conferme.

            Ma cosa rende Villa Certosa così contesa? I numeri aiutano a capirlo: 4.500 metri quadrati di superficie abitabile, 126 stanze, un parco di 120 ettari, porticcioli privati, piscine, grotte artificiali e persino un anfiteatro. Una “città nella città”, costruita per incarnare non solo il lusso, ma anche il gusto teatrale e scenografico del Cavaliere.

            In quelle sale hanno passeggiato e stretto mani George W. Bush, Tony Blair e Vladimir Putin. È qui che il Cavaliere riceveva capi di Stato e attori, amici e avversari politici, in un mix di mondanità e diplomazia che nessun’altra villa italiana ha mai saputo replicare. Non a caso qualcuno l’ha definita “la reggia del berlusconismo”, l’ottava meraviglia di un’epoca in cui politica e spettacolo erano due facce della stessa medaglia.

            Non è la prima volta che si rincorrono voci di vendita. Dopo la scomparsa del fondatore di Forza Italia, sono circolati nomi illustri: dal sultano del Brunei al colosso alberghiero Four Seasons, che però si è affrettato a smentire. Stavolta l’attenzione sarebbe di un facoltoso arabo di cui non trapela l’identità, ma che basta a far ripartire le chiacchiere da Porto Rotondo a Milano.

            Vendere Villa Certosa non significherebbe solo monetizzare un patrimonio immobiliare, ma consegnare a un nuovo proprietario un pezzo della storia recente d’Italia. Per la famiglia Berlusconi sarebbe un passaggio simbolico enorme, quasi la chiusura definitiva di un capitolo che ha segnato decenni di cronaca politica e mondana.

            Per ora, però, restano solo le indiscrezioni. E la domanda che aleggia tra i frequentatori della Costa Smeralda: Villa Certosa diventerà l’ennesimo trofeo nelle mani di un magnate straniero, o continuerà a resistere come monumento intoccabile al mito del Cavaliere?

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              Italia

              “Cercasi camerieri (purché non sardi)”: il caso Monkey infiamma Porto Torres, il titolare attacca i giovani locali

              Marco Corda, imprenditore e proprietario del bar Monkey, difende la sua scelta di privilegiare candidati non residenti in Sardegna. «Meglio chi viene da fuori e parla lingue che ragazzi viziosi, attaccati a mammina e incapaci di rispettare un contratto». Le sue parole dividono e infiammano i social.

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                «Il ragazzino sardo è maleducato, inaffidabile, non professionale». Una sentenza lapidaria, firmata Marco Corda, titolare del Monkey di Porto Torres, che con un post di ricerca personale ha trasformato un annuncio di lavoro in un caso nazionale.

                La frase incriminata è semplice: «Il Monkey seleziona cameriere e camerieri di sala, barman e barlady preferibilmente non residenti in Sardegna». Bastava quel “non residenti” per scatenare il putiferio. L’annuncio, ripreso e rilanciato da La Nuova Sardegna, è stato subito travolto dalle polemiche, costringendo il titolare a chiarire (e rincarare la dose) sui social.

                «Un’azienda fa i propri interessi e il mio curriculum parla chiaro», ha spiegato Corda. «Abbiamo sempre avuto staff locali, ma mai come quest’anno abbiamo avuto difficoltà. Non è il problema del portotorrese o del sassarese in sé. È che state crescendo una generazione di persone viziate, senza futuro, che non danno valore al denaro perché c’è mammina che si toglie il pane di bocca per dare 100 euro al figliolo, così il sabato notte si ubriaca o si droga».

                Parole dure, che hanno fatto infuriare più di un utente. Ma l’imprenditore non arretra: «Il problema è che spesso i ragazzi del posto non rimangono fino alla fine del contratto. Ti mollano dall’oggi al domani con scuse futili: devono andare ad Alghero a ballare o li ha lasciati la fidanzatina. Ben vengano i portotorresi validi, ma sono pochi».

                Il Monkey cerca personale per la stagione invernale 2026 e, tra i requisiti, Corda sottolinea anche la necessità di parlare lingue straniere: «Se vogliamo definirci una città turistica, bisogna parlare almeno l’inglese. Chi viene da fuori magari lo sa e porta valore».

                L’annuncio nel frattempo è stato cancellato, ma il polverone resta. E nelle ultime repliche social, il titolare ha provato a smorzare i toni spiegando che «quasi tutto lo staff del Monkey è sardo» e che le candidature non isolane «sono due o tre». Troppo tardi: la bufera era già partita.

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