Storie vere
A 13 anni baby-mamma, il Tribunale le restituisce la sua bambina
Un classico caso che vede le istituzioni miopi ed esclusivamente sanzionatrici. Questa volta nel caso di una mamma giovanissima, sicuramente non autonoma nel gestire la responsabilità genitoriale, ma sostenuta da una famiglia coesa e responsabile.

Poco più di una bambina, anche se tredicenne una mamma ha il diritto di tenere con sé la figlia. Questa la decisione, che naturalmente ha scatenato una ridda di commenti, presa dal Tribunale per i minorenni. L’ha deciso la Corte d’appello di Roma, che ha annullato la precedente sentenza di adozione, ordinando che la neonata dovrà essere restituita alla baby-mamma.
La storia per sommi capi
Si tratta, nonostante il lieto fine (ammesso che lo sia, il dibattito è comunque aperto), di una vicenda che va riassunta per meglio capirne i contorni. Jacqueline ha 13 anni, si innamora di un ragazzo già maggiorenne. Probabilmente ammaliata da fantasie di felicità insieme, la ragazzina accetta di scappare di casa con lui. Poi la gravidanza, che segna il destino di quella creatura. Lo domostrano le statistiche sulle mamme-bambine: sotto i 14 anni nascono in Italia 1,3 bambini ogni mille parti.
Un elemento di possibile discriminazione
Fortunatamente in questa particolare storia, c’è un elemento per alcuni forse discriminatorio ma che, a conti fatti, ha rappresentato la differenza: il forte collante che vige nella sua famiglia, anche a livello di fede religiosa. Si tratta di persone cha appartengono alla comunità evangelica dei Sinti. Con un lavoro, un terreno di proprietà sul quale lavorano vivono in economia ma con grande dignità. Persone semplici ma perbene, che non fanno sconti quando si tratta di principi. Quel piccolo, anche se è arrivato per caso, deve necessariamente nascere, senza assolutamente considerare la possibilità dell’aborto per la 13enne.
Leggi e regolamenti
Durante una visita di controllo dal ginecologo, questi avvisa i servizi sociali. Partono le procedure di verifica e il sistema, una volta attiviato, non si ferma più. Viene fatto credere alla mamma di Jacqueline che la ragazzina verrebbe assistita con maggiori garanzie presso una casa-famiglia, facendole firmare un documento che autorizza il trasferimento della figlia. La sorella più grande di Jacqueline si accorge che qualcosa non va e cerca di protestare, ma viene zittita da leggi e regolamenti che impedirebbero qualsiasi modifica degli eventi.
La famiglia unita invoca giustizia
Arriva il momento del parto. Nuovamente le autorità sottolineano che il neonato non può stare con la giovanissima mamma minorenne, non in gradi di esercitare la responsabilità genitoriale. La legge recita che per riconoscere un figlio servono almeno 16 anni, ma dietro la partoriente c’è una famiglia che la sostiene e c’è, soprattutto, una sorella maggiorenne che dichiara la sua disponibilità a prendere in affido la nipotina. Purtroppo la proposta – senza alcuna motivazione ragionevole – viene respinta e 28 giorni dopo la nascita il Tribunale per i minorenni dichiara l’adottabilità della bambina perché “in stato di abbandono”. La famiglia di Jacqueline non ci sta chiede a gran voce giustizia.
Viene ribaltato il giudizio di primo grado
A questo punto Dijana Pavlovic, portavoce del Movimento Kethane Rom e Sinti per l’Italia, venuta a conoscenza del caso si attiva per affidare il caso all’avvocato Pasqualino Miraglia. Attraverso un ricorso che va a buon fine. Il mese scorso è stata resa nota la sentenza d’appello che ribalta il giudizio di primo grado: viene annullata la decisione di dichiarare adottabile la neonata perché non in stato di abbandono. Anche perchè né la baby-mamma e neanche a sorella e i suoi genitori erano stati informati e avevano dato il loro consenso. I giudici minorili avevano deciso tutto senza quel contraddittorio previsto obbligatoriamente dalla legge. Un “errore” – che è fin benevolo chiamare così – clamoroso, pesante e definitiva, decisa all’oscuro di tutti i diretti interessati.
Se Jacqueline non fosse stata sinta, sarebbe accaduto lo stesso? E’ doverroso che gli assistenti sociali e il giudice che hanno ignorato la procedura legale siano chiamati a rispondere, con tutte le verifiche del caso. L’auspicio che le istituzioni non si limitino solo ed esclusivamente a sanzionare è più che mai lecito. Soprattutto quando ci sono di mezzo i bambini.
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Storie vere
«Per rimuovere le mie foto su Phica.net ho pagato duemila euro»: il racket delle immagini rubate e dei deep fake
Dal “pacchetto base” da 250 euro al mese all’“unlimited” da mille, fino a ricerche da 30 euro l’ora: un listino per rimuovere immagini e thread. Lei, stremata, ha versato quasi duemila euro: «Non ce la facevo più, volevo sparire in fretta».

Una storia di ricatto e umiliazione. Valeria — nome di fantasia — ha dovuto pagare quasi duemila euro per far rimuovere dal forum Phica.net foto prese dai suoi profili social e trasformate in materiale sessuale. «Ho mandato mail, messaggi, diffide agli amministratori. Alla fine mi hanno proposto pacchetti a pagamento per cancellare tutto. E ho ceduto», racconta.
La vicenda inizia quando alcuni amici la avvertono: il suo nome e le sue immagini erano finite nel forum che conta oltre 200 mila iscritti. «C’erano foto prese da Instagram, immagini in costume al mare. Nessun nudo autentico. Ma avevano fatto deep fake, montando la mia faccia sul corpo di pornostar». Accanto, commenti volgari: «Desideri sessuali, minacce, parole che mi hanno fatto sentire manipolata ed esposta agli occhi morbosi di migliaia di sconosciuti».
I primi tentativi di farle sparire sono vani. «Mi sono iscritta con un nome finto, ho scritto nei thread fingendomi un amico. Niente. Poi ho mandato diffide via mail spiegando che era tutto illegale. Silenzio». Solo quando Valeria minaccia di rivolgersi a un avvocato qualcosa si muove: «Hanno tolto alcune cose, ma per il resto mi hanno offerto pacchetti a pagamento».
Il listino è preciso: 250 euro al mese per mettere il nome in blacklist e cancellare i thread più recenti, 500 per il “premium”, fino a mille euro per l’“unlimited” che prometteva anche richieste di oblio ai motori di ricerca. Extra: 30 euro l’ora per la ricerca completa dei contenuti da eliminare. Pagamenti con bonifico, Paypal o bitcoin, intestati a nomi femminili. «Le mail arrivavano da un indirizzo chiamato Admin phica.net, nessun numero di telefono».
Alla fine Valeria cede: «Ho mandato i soldi su Paypal, quasi duemila euro. Ho firmato un modulo di eliminazione dei contenuti. Non ho retto: non era tanto per le foto in costume, ma per i nudi finti e i commenti osceni che chiunque avrebbe potuto vedere. Volevo solo uscirne, sparire il più in fretta possibile».
Un incubo digitale che dimostra come i forum sporcaccioni si siano trasformati in un vero business dell’umiliazione: prima diffondono le immagini, poi vendono alle vittime la loro cancellazione.
Storie vere
Peccato! L’Autovelox non era omologato: annullata la multa per l’automobilista a 255 km/h
Sfreccia in auto a 255 all’ora ma la maxi multa viene annullata: l’Autovelox non era omologato.

Lui tranquillo sfrecciava in auto a ben 255 km/h su un tratto autostradale con limite di 130, ma la multa salatissima gli è stata annullata per un errore burocratico. Mannaggia!! L’Autovelox usato per la contravvenzione non era omologato. Gasp! L’episodio risale allo scorso maggio quando un automobilista è stato multato per eccesso di velocità, con una sanzione di 845 euro e la sospensione della patente da 6 a 12 mesi.
Provaci ancora Sam magari la prossima volta ti beccano per davvero
L’automobilista, assistito dall’avvocato Gabriele Pipicelli di Verbania, ha presentato ricorso alla prefettura di Novara, che ha accolto le sue motivazioni. Il prefetto ha verificato infatti che lo strumento della Polizia Stradale, sebbene “approvato”, non risultava “omologato”, come richiesto dalla legge per validare le rilevazioni di velocità.
Autovelox omologato, automobilista sanzionato!
L’avvocato ha spiegato che il ricorso è stato fondato sulla giurisprudenza della Cassazione, che distingue tra “approvazione” e “omologazione” degli apparecchi di rilevazione. Solo quelli omologati garantiscono misurazioni legittime. Di fronte a questa discrepanza, il prefetto ha annullato la multa e tutte le sanzioni correlate, restituendo anche la patente all’automobilista.
Storie vere
Salvare quel castello!! E’ la missione di Isabella Collalto de Croÿ, la principessa del prosecco
La storia di Isabella dimostra che, a volte, le vere principesse non hanno bisogno di carrozze dorate: basta un bicchiere di Prosecco. Prosit!

Un tempo le principesse aspettavano il principe azzurro e vivevano destini incantati. Oggi, molte di loro hanno scelto di rimboccarsi le maniche e di costruire il proprio futuro con determinazione. E con la cazzuola. È questo il caso di Isabella Collalto de Croÿ, che ha trasformato la sua eredità familiare in una missione. Salvare il Castello di San Salvatore a Susegana, un gioiello delle colline trevigiane, uno dei complessi fortificati più grandi d’Europa, grazie alla viticoltura e al Prosecco. Come ha fatto? E soprattutto perché l’ha fatto?
Isabella ha lasciato la noia di Bruxelles per ritornare alle sue radici
Nata in una famiglia di origine longobarda, Isabella ha vissuto per anni a Bruxelles, lontana dalle colline trevigiane che avevano visto crescere la sua famiglia per generazioni. Tuttavia, quando il padre, il Principe Manfredo, le chiese aiuto per preservare l’eredità storica del Castello di San Salvatore, decise di tornare. “Avevo qualche timore nell’abbandonare la vita che conducevo,” racconta, “ma il legame con questo luogo era troppo forte”. Questo legame affonda le radici nel Mille, inteso come periodo storico, quando la famiglia Collalto governava Treviso con il titolo di Conti. Nei secoli successivi il Castello si trasformò in un centro culturale, ospitando musicisti, letterati e artisti come Cima da Conegliano, che ne immortalarono la bellezza nei loro dipinti.
Dalla Prima Guerra Mondiale alla rinascita moderna
La storia del castello subì una drammatica svolta con la Prima Guerra Mondiale. Quando il fronte si spostò dal fiume Isonzo al Piave, il maniero diventò bersaglio dell’artiglieria italiana, riportando gravi danni. Nonostante la devastazione, la famiglia Collalto non si arrese e avviò un lungo processo di restauro, volto a recuperare lo straordinario patrimonio storico-artistico. Isabella ricorda bene le condizioni in cui ha trovato il castello. “Fino all’inizio del nuovo millennio era ancora un cantiere”, spiega, “le finestre erano chiuse con assi di legno”. Ma a ridare tono e vita al Castello di San Salvatore è stato il vino. In particolare il Prosecco, che ha finanziato i lavori di recupero. “La viticoltura ci ha permesso di ricostruire questo maniero”, dice Isabella.
I Collalto: viticoltori per tradizione
Dal Medioevo fino ai giorni nostri, la famiglia Collalto ha coltivato e protetto il territorio, diventando un nome di riferimento nella produzione vitivinicola. Qui si trova la più vasta superficie vitata della zona e la coltivazione di varietà autoctone ovvero il Verdiso e la Bianchetta, due uve tipiche del Trevigiano. Nel 2007, Isabella ha assunto la guida dell’azienda agricola, portando avanti una tradizione secolare con uno spirito innovativo. Il suo impegno ha permesso non solo di salvaguardare il Castello di San Salvatore, ma anche di rafforzare il ruolo del Prosecco nel panorama vitivinicolo internazionale.
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