Sic transit gloria mundi
Giorgia Meloni, la conferenza mancata e il mistero del ritocchino. Le opposizioni all’attacco: “Parla con la stampa meno di Putin”
La premier rinvia per la seconda volta consecutiva la tradizionale conferenza stampa di fine anno. Italia Viva provoca: “Ritocchino di Natale?”. Intanto, tra accuse, ipotesi chirurgo-estetiche e appuntamenti saltati, resta un’unica certezza: il rapporto tra Meloni e i giornalisti è tutto un mistero!
C’era una volta la conferenza stampa di fine anno. Quel momento in cui il presidente del Consiglio, qualunque fosse il suo colore politico, si presentava davanti a una platea di giornalisti pronti a bombardarlo di domande. Un appuntamento simbolico, un passaggio quasi rituale tra un anno e l’altro, dove si tiravano le somme e si abbozzavano promesse per il futuro. Ora, quel “c’era una volta” ha il sapore di una favola dimenticata, perché Giorgia Meloni, per il secondo anno consecutivo, ha deciso di saltare l’ormai ex incontro con la stampa di fine anno. Stavolta, però, non c’è una sindrome otolitica (questa la motivazione ufficiale dell’anno scorso) a giustificarla. Qualcuno – maliziosamente – suggerisce che il motivo potrebbe essere un altro: un ritocchino estetico per iniziare il 2025 con un volto rinnovato da qualche punturina di botox. Solo illazioni? Forse. Ma quando si latita così, si lascia spazio alla fantasia.
Il mistero del rinvio non ha una spiegazione ufficiale. La nota che annuncia l’evento non fa altro che fissare la data per il 9 gennaio 2025, eliminando anche il riferimento al “fine anno”, ormai privo di senso. Nessun motivo, nessuna giustificazione. Solo un cambio di data che, per qualcuno, suona come l’ennesima fuga dal confronto con i giornalisti. Un tema su cui Matteo Renzi, mai avaro di sarcasmo, ha deciso di picchiare duro: «Nell’anno solare 2024 Giorgia Meloni ha fatto meno conferenze stampa di Vladimir Putin. È un fatto molto triste per la qualità dell’informazione italiana, ma nessuno dice nulla», ha scritto sui social, con quella perfidia che solo lui sa sfoderare.
Ma la vera chicca arriva da Francesco Bonifazi, fedelissimo renziano, che rilancia con una battuta al veleno: «Tocchi e ritocchi?». L’allusione è chiara, ma non si spinge oltre. Del resto, il silenzio di Palazzo Chigi lascia spazio a ogni ipotesi, e il sospetto di un restyling natalizio si insinua tra i commenti. Un’idea che farebbe sorridere, se non fosse che le assenze di Meloni davanti alla stampa stanno diventando una consuetudine difficile da ignorare.
L’anno scorso, almeno, ci fu una spiegazione. La premier si trovò costretta a rinviare due volte l’appuntamento per un problema di otoliti. E, il 4 gennaio 2024, si presentò comunque davanti ai cronisti, scusandosi per l’inconveniente e ribadendo di non avere “mai paura delle domande”. Una giustificazione che, in quell’occasione, le venne concessa senza troppe polemiche. Ma quest’anno, il silenzio è totale, e i giornalisti – quelli che dovrebbero essere il tramite tra il governo e i cittadini – restano al palo, senza risposte.
E allora viene da chiedersi: perché? È davvero un problema di agenda? Una questione di priorità politiche? O semplicemente un’insofferenza strutturale verso la stampa, che Meloni non ha mai nascosto? Certo è che, a dispetto delle promesse di trasparenza, questo continuo rimandare e sfuggire non fa che alimentare polemiche e speculazioni. Anche perché, diciamolo, il rapporto tra Giorgia Meloni e i giornalisti non è mai stato idilliaco. Dai tempi in cui rivendicava il suo diritto a selezionare con chi parlare, la premier non ha mai nascosto un certo fastidio per le domande scomode. Preferisce i monologhi sui social, dove può controllare il messaggio senza il rischio di essere messa in difficoltà.
Eppure, questa scelta di evitare la stampa non è senza conseguenze. Ogni rinuncia a un confronto diretto alimenta dubbi, indebolisce la percezione di trasparenza e, in ultima analisi, mina la fiducia. Certo, Meloni non è l’unica a preferire altri canali di comunicazione, ma il suo atteggiamento sembra spingersi oltre, trasformando un’occasione di dialogo in un terreno di scontro o, peggio, in un vuoto.
Nel frattempo, il calendario avanza, e il 9 gennaio 2025 si avvicina. La data fissata per la conferenza stampa potrebbe finalmente essere l’occasione per chiarire le ragioni di questo ennesimo slittamento. Oppure, più semplicemente, per spostare l’attenzione su altri temi, lasciando che le polemiche si dissolvano come neve al sole. Resta da vedere se, quando quel giorno arriverà, la Meloni si presenterà con risposte pronte o con un volto nuovo, tanto metaforicamente quanto letteralmente.
D’altronde, chi ha bisogno di giornalisti quando si può regnare dall’alto di una diretta Facebook? Forse Meloni ha solo deciso che la conferenza stampa di fine anno è un retaggio del passato, come il telefono a gettoni o le lettere scritte a mano. Forse sta solo puntando a un nuovo record: meno conferenze stampa di Putin e più mistero di un giallo di Agatha Christie. Del resto, perché preoccuparsi dei giornalisti? Basta lasciarli lì, in attesa, a speculare e a fare domande senza risposta.
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Sic transit gloria mundi
Rita De Crescenzo a Belve: quando il Servizio Pubblico smette di fare cultura e inizia a esaltare il degrado
Rita De Crescenzo, simbolo di un successo costruito su eccessi e provocazioni, arriva a Belve come ospite del Servizio Pubblico. Una scelta che fa discutere: la Rai trasforma una figura priva di meriti artistici in personaggio televisivo nazionale, sollevando interrogativi sul ruolo stesso della TV pubblica.
La notizia dell’intervista di Rita De Crescenzo a Belve ha sollevato un’ondata di polemiche. La tiktoker napoletana, diventata celebre per i suoi video tra musica neomelodica, balli e dirette sopra le righe, sarà tra gli ospiti di Francesca Fagnani nel programma cult di Rai2. Un format che negli anni ha accolto figure di primo piano della politica, dello spettacolo e della cultura, trasformandosi in una sorta di consacrazione mediatica.
Eppure, questa volta, l’effetto è stato diametralmente opposto: la partecipazione della De Crescenzo è apparsa a molti come un segnale di resa del Servizio Pubblico davanti al degrado dei social. Nessun compenso, dicono fonti interne alla Rai, ma un ritorno d’immagine enorme per la tiktoker, che potrà vantare una ribalta nazionale senza aver speso un euro.
Il problema non è economico, ma simbolico. Rita De Crescenzo non è un’artista, non è un’attivista, non è una voce culturale o politica: è il prodotto di un certo tipo di popolarità online fatta di eccessi, linguaggio volgare e spettacolarizzazione del quotidiano. Portarla nel salotto televisivo di Francesca Fagnani significa certificare, con il timbro del Servizio Pubblico, un modello che molti considerano pericolosamente regressivo.
Chi difende la scelta parla di un ritratto “antropologico”, di un fenomeno sociale da osservare più che da celebrare. Ma il rischio, come sempre accade con la televisione, è che la semplice presenza basti a trasformare un caso mediatico in legittimazione culturale.
Perché la Rai, che per statuto dovrebbe garantire qualità, informazione e crescita culturale, sceglie di offrire spazio a chi incarna tutt’altro? Forse per inseguire ascolti, o per inseguire i social che ormai dettano legge anche in TV. Ma così facendo, il confine tra analisi e spettacolo, tra racconto e compiacimento, si fa sempre più sottile.
Rita De Crescenzo non è il problema: è il sintomo. Il sintomo di una televisione che ha smesso di selezionare e ha iniziato ad assecondare, di un Servizio Pubblico che invece di educare riflette — e amplifica — il rumore di fondo di un Paese in cerca di attenzione più che di contenuti.
Sic transit gloria mundi
Addio a Ace Frehley, lo “Spaceman” dei Kiss: il mio supereroe con la chitarra che sapeva volare
Con il suo trucco da “Spaceman”, le chitarre che fumavano e i razzi che partivano dal manico, Ace ha trasformato il rock in spettacolo e magia. Lascia un’eredità di suoni, coraggio e umanità: quella di un uomo che ha saputo salvarsi e far sognare milioni di ragazzi.
Ci sono artisti che non si limitano a suonare: accendono un immaginario. Ace Frehley era uno di questi. Per chi è cresciuto tra gli anni Settanta e Ottanta, lui non era solo il chitarrista dei Kiss, ma un supereroe in carne e ossa, uno di quelli che scendevano dal palco avvolti nel fumo, con la chitarra che sputava fuoco e gli occhi pieni di stelle. Lo chiamavano The Spaceman, l’uomo venuto dallo spazio, ma in realtà veniva dal Bronx, con una Gibson in mano e un sorriso timido dietro il trucco argentato.

Ace se n’è andato, a 74 anni – il giorno del mio compleanno e non è stato davvero un ben regalo – dopo un’emorragia cerebrale che lo aveva colpito nei giorni scorsi. E con lui se ne va un pezzo di infanzia, di ribellione, di sogno. Perché chi ha amato i Kiss – quelli veri, quelli del 1975 di Rock and Roll All Nite e del trucco come armatura – sa che il suono di Ace era la scintilla che faceva partire l’esplosione. Ogni assolo sembrava un decollo, ogni nota un razzo che bucava il buio.
Nel pantheon del rock, Frehley era l’anima più ironica, più fragile, più umana del gruppo. Gene Simmons e Paul Stanley erano i generali, lui era l’astronauta. Il suo “Space Ace” nasceva come il personaggio di un fumetto, ma divenne presto una leggenda viva, capace di unire il virtuosismo alla teatralità, la tecnica alla fantasia. Le sue chitarre fumavano, letteralmente. Le sue dita correvano leggere e incendiate, e noi ragazzi lo guardavamo come si guarda un eroe di un film che non finisce mai.
Nel 1982 lasciò la band, quando i Kiss decisero di togliere il trucco e affrontare il mondo a viso scoperto. Ace non ci riuscì. Aveva bisogno del suo personaggio, di quella maschera che non nascondeva, ma liberava. Continuò da solo, con i Frehley’s Comet, alternando tour, eccessi, cadute e rinascite. Negli anni Novanta tornò per una reunion trionfale: la vecchia banda di nuovo insieme, quattro maschere, quattro archetipi, un suono che sembrava ancora nuovo.
Nel 2014 entrò nella Rock and Roll Hall of Fame, dove i Kiss furono premiati come una delle band più influenti della storia. Era felice, e commosso. Nelle ultime interviste aveva detto di voler essere ricordato “come un uomo schietto, fedele alla propria musica, rispettato dai colleghi”. Lo era. Aggiungeva: “Ho portato felicità a molte persone, e tanti ragazzi mi dicono di essere riusciti a disintossicarsi grazie a me. Se ce l’ho fatta io, possono farcela anche loro”. Era questo il suo vero superpotere: non la chitarra che lanciava razzi, ma il coraggio di dire che la fragilità non è una vergogna.
Paul Stanley lo ricordava così: «Nel 1974 lo sentii suonare in una stanza d’albergo. Pensai: vorrei che quel ragazzo fosse nella mia band. Era Ace». Gene Simmons ha scritto: «I nostri cuori sono spezzati. Nessuno potrà mai eguagliare la sua eredità. Amava i suoi fan, e ci mancherà per sempre». Peter Criss, il batterista con cui aveva condiviso la nascita della leggenda, ha aggiunto: «Era mio fratello. È morto serenamente, circondato da chi lo amava. La sua eredità vivrà nei cuori di milioni di persone».
Ace era uno di quei pochi che riuscivano a restare bambini anche sul palco. Quando lo vedevi sorridere sotto la maschera d’argento, capivi che dietro al rock c’era un’anima buona. Uno che non cercava di essere un dio, ma un amico. Forse per questo lo abbiamo amato così tanto. Perché in quel trucco c’era il sogno di ognuno di noi: salire su un palco e non avere più paura.
Oggi che la notizia corre tra social e redazioni, chi lo ha ascoltato da ragazzo sente un vuoto diverso, personale. È la fine di un’epoca, quella in cui il rock aveva ancora la forza di sembrare eterno. Ace Frehley era il suono della libertà, il fumo che saliva da una chitarra in fiamme, il sorriso dietro la maschera di uno Spaceman che non voleva tornare sulla Terra.
E mentre la sua musica continua a girare nei vinili graffiati delle nostre camerette, viene naturale pensare che sì, forse aveva ragione lui: la sua eredità durerà centinaia d’anni. Perché chi ti insegna a sognare non muore mai davvero.
Sic transit gloria mundi
Caso Epstein, Melania Trump pronta a chiedere oltre un miliardo a Hunter Biden: “Accuse false e diffamatorie”
Melania Trump ha minacciato una causa miliardaria contro Hunter Biden per aver dichiarato che sarebbe stato Epstein a presentarla al marito. Intanto i democratici puntano il dito sul trasferimento di Ghislaine Maxwell in un carcere meno severo.
Melania Trump è passata al contrattacco. La first lady americana ha annunciato l’intenzione di fare causa a Hunter Biden, chiedendo un risarcimento da oltre un miliardo di dollari, dopo che il figlio del presidente ha affermato che sarebbe stato Jeffrey Epstein – il finanziere condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori – a presentarla a quello che poi sarebbe diventato suo marito. Una ricostruzione definita dai legali di Melania “falsa, denigratoria, diffamatoria e provocatoria”.
Le dichiarazioni di Biden risalgono a un’intervista di inizio mese, in cui aveva ripercorso i rapporti tra il presidente e il miliardario pedofilo, sottolineando vecchie frequentazioni poi interrotte “agli inizi degli anni Duemila”, come lo stesso Trump ha sempre sostenuto.
Ma la vicenda non si ferma qui. I democratici della Commissione Giustizia della Camera hanno sollevato un polverone sul trasferimento di Ghislaine Maxwell – ex compagna e complice di Epstein – in un carcere federale del Texas con regime meno restrittivo. La donna, condannata a 20 anni, era detenuta a Tallahassee, in Florida, ma è stata spostata subito dopo un incontro con il vice procuratore generale Todd Blanche.
Secondo il deputato Jamie Raskin, leader dei democratici in Commissione, il trasferimento “offre maggiore libertà ai detenuti” e “prima di questo caso era categoricamente vietato per chi fosse condannato per molestie sessuali”. In una lettera al procuratore generale Pam Bondi e al direttore del Bureau of Prisons William K. Marshall, Raskin parla di “preoccupazioni sostanziali” su possibili pressioni per indurre Maxwell a fornire una testimonianza favorevole al presidente, “violando le stesse politiche federali”.
Un’accusa che, in un contesto già incandescente, riaccende i riflettori sul nodo più imbarazzante per la Casa Bianca: i rapporti passati tra il presidente e Jeffrey Epstein.
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