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Cronaca

Tagle fa l’assist a Parolin (e si sfila): il Conclave è un Risiko in porpora

Il cardinale filippino lascia il campo al collega italiano, ma nel frattempo David conquista l’Asia e il gioco delle alleanze riparte da zero.

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    Fumata nera anche stamattina. Niente Papa, almeno per ora. Ma in compenso a ogni giro di votazione si alza il livello di suspence e intrigo da serie TV vaticana. Le prime votazioni, si sa, servono per guardarsi in cagnesco, fare i conti, capire chi può scalare e chi è meglio che si ritiri in buon ordine. E proprio ieri, dicono i beninformati dell’Aldilà del Tevere, è successa una di quelle mosse da manuale di diplomazia clericale.

    Protagonista: Antonio Luis Tagle, cardinalone filippino, un tempo favoritissimo, oggi un po’ in retromarcia. Pare infatti che abbia deciso di mollare il sogno papale per sostenere Pietro Parolin, il nostro Segretario di Stato, con una valigetta piena di voti asiatici e qualche simpatia africana. Una specie di endorsement in formato Oriente Express. Perché? Forse per strategia, forse perché nel frattempo è salito alla ribalta un altro filippino, Pablo Virgilio David, vescovo scomodo e coraggioso, che nelle Filippine ha osato alzare la voce contro il regime Duterte. Uno con la schiena dritta e il profilo giusto per fare breccia nei cuori cardinalizi.

    Morale: Tagle si sfila con eleganza, Parolin incassa, e David prende quota. Ma il bello è che questa mossa potrebbe riscrivere l’intera geografia del Conclave. Perché se l’Asia vira su David, e l’Africa si divide tra sponde diverse, la corsa a Papa si fa ancora più imprevedibile. E mentre Parolin resta il candidato da battere, la sua scalata è tutt’altro che scontata.

    Anche perché sullo sfondo si muovono altri protagonisti. Come Pierbattista Pizzaballa, il patriarca che si è offerto come ostaggio a Gaza (sì, davvero), e ora incarna la linea più radicale della “Chiesa che si sporca le mani”. O Matteo Zuppi, con la sua scorta di simpatia sant’egidiana e il curriculum da diplomatico con i sandali. Poi c’è Jean-Marc Aveline, vescovo di Marsiglia, che piace un po’ a tutti, anche per le sue stoccate contro Macron.

    Nel frattempo, i conservatori sognano con il tedesco Müller (una sorta di Benedetto XVI remix), e ricordano con nostalgia Filoni, il cardinale rimasto a Baghdad sotto le bombe mentre il resto del mondo si dava alla fuga.

    Nel frattempo, il fumo è ancora nero, ma l’umore è vivace. Perché alla fine, il Conclave è un po’ come Sanremo: si parte con i big, ma spesso vince l’outsider.

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      Cronaca

      Leone XIV, il Papa dei ponti: “Aiutateci a costruire una pace disarmata e disarmante”

      Saluta il mondo con parole di pace e tenerezza, parla di dialogo, carità e sinodalità, rivendica l’appartenenza agli agostiniani e ringrazia Papa Francesco: Leone XIV comincia il suo pontificato con un invito a non temere, e a restare uniti “mano nella mano con Dio”.

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        «La pace sia con tutti voi». Non è solo una formula rituale. È un’invocazione, un manifesto, forse già una dichiarazione di stile. Leone XIV ha scelto di iniziare il suo pontificato con un gesto semplice, eppure radicale: rivolgersi al mondo con le parole stesse del Risorto. Non ha parlato di potere, né di autorità. Ha parlato di pace. Una pace che non pretende, non impone, non divide. Ma una pace “disarmata e disarmante”, che – ha detto con voce tremante ma decisa – nasce da un Dio che ci ama incondizionatamente.

        Il nuovo Papa è apparso visibilmente commosso affacciandosi dalla loggia centrale della Basilica Vaticana. Il suo primo discorso non ha avuto nulla della teatralità o della retorica enfatica che spesso accompagna i momenti solenni. È stato un discorso mite, tutto incentrato sulla tenerezza di Dio, sul cammino della Chiesa e sull’urgenza di restare uniti. Una parola dopo l’altra, Leone XIV ha tracciato già la traiettoria del suo pontificato. Un pontefice che vuole costruire, non dominare. Che chiede aiuto, non inchini.

        Il riferimento a Papa Francesco non è mancato. Anzi, è stato uno dei passaggi più intensi: «Conserviamo nelle nostre orecchie quella voce coraggiosa che benediva Roma e il mondo. Quella mattina di Pasqua. Voglio dare seguito a quella benedizione». C’è un filo che lega il pontificato appena concluso a quello appena iniziato. E Leone XIV ha scelto di non reciderlo. Ha scelto, invece, di custodirne il senso, prolungarne l’eco.

        Non si è limitato alla gratitudine. Ha subito marcato un’impronta. «Sono un figlio di Agostino», ha detto. Una frase che sa di confessione e identità. Come a voler dire: il Vescovo di Roma oggi è anche un agostiniano, e porterà nel cuore e nella mente il peso e la grazia di quel pensiero che ha fatto della ricerca inquieta, della grazia, della prossimità ai poveri e della comunità viva i suoi cardini. L’ha detto con fierezza, come se volesse rassicurare chi teme un pontificato incerto: “so da dove vengo, so dove voglio andare”.

        La sua idea di Chiesa è uscita subito chiara. Una Chiesa aperta, dialogante, non rinchiusa nei palazzi ma immersa nella storia. «Una Chiesa che cammina, una Chiesa sinodale, una Chiesa di pace», ha ripetuto. Parole che parlano di uno stile, non solo di una strategia. La Chiesa che sogna Leone XIV è quella che non si stanca di ascoltare, di ricucire, di stare accanto a chi soffre. Ha evocato gli ultimi, i dimenticati, e ha invitato a pregare per “la pace della Chiesa in tutto il mondo”. Non ha usato il linguaggio del potere spirituale, ma quello dell’umiltà operosa.

        Nel suo saluto alla diocesi di Chiclayo, pronunciato in spagnolo, ha svelato il legame mai spezzato con il Perù, terra che l’ha accolto, formato, amato. Ha mostrato che la sua Chiesa non è solo romana, ma anche latinoamericana. Non solo dottrinale, ma profondamente pastorale. Un pontefice che porta nel cuore più mappe geografiche e più lingue del mondo.

        E poi la devozione alla Madonna di Pompei, ricordata non per folclore, ma come figura viva e presente nella quotidianità dei fedeli. Leone XIV ha voluto chiudere il suo discorso con una preghiera, non con un proclama. Ha invocato Maria non da teologo, ma da figlio. Un gesto che dice molto sul tono spirituale che intende mantenere. E forse anche sulla centralità che vorrà restituire alla dimensione popolare della fede, quella fatta di gesti semplici, parole essenziali, cuori che cercano.

        Il nuovo Papa ha già fatto capire che sarà un pastore più che un principe. Che parlerà con le mani tese, non con l’indice alzato. Che crede in una Chiesa che non domina, ma accompagna. Che non giudica, ma accoglie. Il suo primo discorso è stato questo: una carezza, un abbraccio, un appello a non avere paura. E a camminare insieme, senza lasciarsi dividere dal rumore o dal sospetto.

        La storia è appena cominciata. Ma Leone XIV ha già lasciato il segno.

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          Cronaca

          L’eredità del mondo sulle spalle: le sfide di Leone XIV tra crisi, guerre e speranza

          Dal rischio di nuove guerre globali alla crisi climatica, dal crollo della natalità alla ricerca di un nuovo ruolo per la fede nel mondo secolarizzato: Leone XIV eredita un mondo stanco e diviso, e deve decidere se restare custode o diventare guida. Senza illusioni, ma con coraggio.

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            Non c’è tempo per l’incanto. L’elezione di un nuovo Papa è sempre un momento di gioia, di speranza, di rinnovata fiducia. Ma Leone XIV sa bene che, chiusa la finestra sulla loggia delle Benedizioni, comincia un’altra storia. Più dura, più solitaria. Perché il mondo che lo attende non è quello degli inni e delle telecamere, ma quello delle macerie.

            Il mondo oggi è una casa che brucia. C’è una guerra nel cuore d’Europa, e una strage quotidiana in Medio Oriente. C’è l’Africa dimenticata che continua a morire in silenzio, e c’è un’Asia dove milioni di cristiani vivono sotto pressione, tra persecuzioni, censura e paura. E poi c’è il clima, il grido della terra che si unisce a quello dei poveri. La sfida più radicale, e anche la più ignorata.

            La prima grande responsabilità di Leone XIV sarà proprio questa: non voltare lo sguardo. Non limitarsi a parole prudenti e ben educate, ma scegliere da che parte stare. Non con slogan, ma con la coerenza. Sarà chiamato a parlare forte contro le armi, contro l’indifferenza, contro l’ipocrisia di chi usa la fede per giustificare guerre o razzismi. Non sarà facile. Il rischio di inimicarsi poteri forti è alto. Ma la Chiesa non è un partito: è una coscienza.

            La seconda sfida è interna: l’unità dei cattolici. Dopo anni in cui le fratture ideologiche sono diventate ferite aperte – tra progressisti e tradizionalisti, tra chiese locali e curia romana – Leone XIV dovrà cercare una sintesi che non sia un compromesso al ribasso. Dovrà ascoltare, ma anche decidere. E soprattutto, non dovrà avere paura di dispiacere. Perché il rischio più grande è una Chiesa che tace per non disturbare nessuno. La verità, quella vera, non è mai comoda.

            Poi c’è il tema delle vocazioni, della crisi numerica, delle parrocchie vuote. Ma qui, forse, la vera sfida non è riempire i seminari, ma ridare senso alla fede. Perché oggi Dio non è più negato: è semplicemente ignorato. Il nemico della fede non è l’ateismo, ma l’indifferenza. E combattere l’indifferenza richiede passione, linguaggi nuovi, gesti che lascino il segno.

            La Chiesa ha bisogno di ripensarsi. Di tornare alle periferie, alle piazze, alle strade. Di spezzare la liturgia con la vita. Non si tratta solo di cambiare la pastorale: si tratta di riaccendere il fuoco. Di far capire, soprattutto ai giovani, che il Vangelo è ancora una cosa viva. Che non parla solo di norme, ma di libertà. Non solo di peccati, ma di desideri profondi. Che Dio è ancora interessante. E non per convenienza, ma perché è l’unico che non si scandalizza di nulla.

            Leone XIV ha anche davanti a sé la sfida delle donne nella Chiesa. Francesco ha aperto, ma la strada è lunga. Ci sarà da ascoltare, da includere, da osare. Le donne non possono essere solo destinatarie della pastorale, ma anche protagoniste del discernimento, della guida, della missione. Senza clericalismi, ma con giustizia.

            E poi c’è il nodo della sinodalità. Papa Francesco ha scommesso tutto su una Chiesa che cammina insieme, che si interroga, che non impone ma discerne. Leone XIV dovrà decidere se continuare su questa via o archiviare l’esperimento. Ma ormai è tardi per tornare indietro: milioni di fedeli si sono messi in ascolto. Far finta di niente sarebbe uno schiaffo. La sinodalità non è un metodo: è una visione. E se davvero vuole incarnare una Chiesa povera, vicina, viva, Leone XIV dovrà farla sua. Anche rischiando.

            Infine, ci sono i giovani. I più distanti, i più critici, ma anche i più sinceri. Sono loro il terreno più scivoloso ma anche più fertile. Non cercano un’autorità che imponga, ma una presenza che accompagni. Non vogliono moralismi, ma verità. E chiedono alla Chiesa solo una cosa: che sia credibile.

            Ecco, forse è proprio questa la parola chiave del futuro pontificato: credibilità. In un tempo in cui tutto è sospetto, in cui le istituzioni crollano e la parola si consuma, la vera rivoluzione sarà essere autentici. Un Papa che parla poco e fa molto. Che cammina. Che abita il dolore. Che non si difende, ma si dona. Che non si chiude in Vaticano, ma apre porte.

            Leone XIV è chiamato a essere tutto questo. Non sarà solo un capo spirituale. Sarà, se vorrà, una voce nel deserto, un bastone per chi inciampa, una luce dove tutto sembra offuscato. Sarà giudicato duramente, criticato, isolato. Ma se avrà il coraggio di non compiacere nessuno, allora il suo pontificato avrà davvero senso.

            Perché in un mondo che sta perdendo la bussola, servono voci che ricordino dove si trova il Nord.

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              Cronaca

              Leone XIV e l’ombra americana: la geopolitica del nuovo pontificato

              Cresciuto nell’America dell’integrismo evangelico e dei conflitti culturali, Leone XIV porta in Vaticano uno sguardo globale ma dovrà guardarsi da un sospetto difficile da scrollarsi: la vicinanza presunta o reale con la destra americana, proprio mentre all’orizzonte si profila il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.

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                L’elezione di Leone XIV, primo Papa americano della storia, è un fatto che scuote gli equilibri geopolitici della Chiesa. Non per una questione di bandiere, quanto per le implicazioni che quel passaporto – statunitense, anche se pastoralmente speso altrove – inevitabilmente porta con sé. Roma non è Washington. Ma l’eco della superpotenza è forte, anche dentro le mura leonine.

                Per questo, già nelle prime ore dopo la fumata bianca, tra i commentatori vaticani e le cancellerie internazionali si è aperta una domanda cruciale: che linea adotterà Leone XIV? Si allineerà alla visione di Francesco, con il suo magistero antimilitarista, antiatomico, filomigrante, e spesso critico verso l’impostazione ideologica dell’Occidente? Oppure inaugurerà una stagione più cauta, meno conflittuale con gli equilibri dominanti, più accomodante con l’agenda atlantica?

                A rendere il quesito ancora più urgente è il momento storico in cui avviene questa elezione. Il mondo è sull’orlo di un nuovo bipolarismo: da una parte Stati Uniti e alleati occidentali, dall’altra il blocco Russia-Cina. In mezzo, l’Europa che cerca un ruolo e un’identità, e una Chiesa che, sotto Francesco, ha cercato con tenacia la via del multilateralismo etico. E poi c’è Donald Trump, sempre più vicino a un ritorno alla presidenza. Con lui, anche una certa destra cattolica americana, che ha visto con fastidio gli anni di Bergoglio e che oggi sogna una “restaurazione”.

                Leone XIV non è parte di quella destra. Ma viene da lì. Per tutta la sua vita, ha camminato in equilibrio tra due mondi: da una parte, la tradizione agostiniana, la sobrietà teologica, il servizio ai poveri nelle periferie dell’America Latina. Dall’altra, le attese – spesso invadenti – dell’episcopato statunitense, che da anni mostra insofferenza per i toni pastorali della Chiesa di Francesco, invocando una maggiore chiarezza dottrinale e una più decisa opposizione al relativismo culturale.

                È in questo contesto che il nuovo Papa dovrà muoversi. E la sua sfida sarà duplice. Da una parte, rassicurare chi teme una virata neoconservatrice del pontificato, mostrando continuità nella difesa dei poveri, dei migranti, dell’ambiente. Dall’altra, evitare di diventare ostaggio delle aspettative di chi vorrebbe una Chiesa militante contro il mondo moderno, invece che presente dentro il mondo.

                La trappola, in fondo, è tutta lì. Leone XIV non è un “Papa di Trump”, ma sa che da oggi ogni suo gesto sarà letto anche in quella chiave. Qualsiasi sorriso a un ambasciatore, qualsiasi parola non detta sull’aborto o sul gender, qualsiasi silenzio su guerre e arsenali potrà diventare argomento per opposte narrazioni. I suoi nemici lo dipingeranno come un conservatore mascherato. I suoi fan più esagitati lo useranno come strumento per rivendicare rivincite ideologiche.

                Ma se c’è una cifra che fin qui ha segnato il suo stile, è proprio la volontà di non farsi strumentalizzare. In Perù, dove ha guidato la diocesi di Chiclayo per anni, ha preferito stare tra la gente più che nei salotti del potere. A Roma, nella Congregazione per i Vescovi, ha lavorato sottotraccia, con uno stile pacato, quasi monacale. Non è uomo da slogan. Non è uno che cerca il conflitto, né tantomeno il protagonismo. Ma è anche un pastore deciso, che sa dire no.

                In politica estera, il suo pontificato potrebbe quindi imboccare una terza via: non una chiusura nel fortino cattolico, né una rincorsa alle mode culturali. Piuttosto, una diplomazia paziente, sobria, ma radicata in un’idea precisa: la Chiesa come coscienza critica dell’umanità, non come sua ancella.

                Già nel primo Angelus – ancora da pronunciare – si attendono segnali. Un accenno alla guerra in Ucraina, un messaggio alla Terra Santa, uno sguardo all’Africa. Non tanto per dettare linee politiche, quanto per ribadire una postura: quella di un Papa che vuole essere ponte, non bandiera.

                In fondo, Leone XIV sa che il vero potere non sta nell’assecondare i potenti, ma nel ricordare loro ciò che conta davvero. La pace, la dignità umana, la giustizia sociale. Se saprà restare fedele a questa bussola, nonostante le pressioni e i sospetti, il suo pontificato potrà lasciare un segno profondo. Anche in un tempo di grandi ombre.

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