Cronaca
Quando il conclave si affida ai segni: così Robert Prevost è diventato Papa
Il New York Times racconta la notte della Sistina: Parolin bruciato dalle divisioni, Erdo fuori gioco. E Prevost, seduto al posto di Bergoglio, diventa Papa

Alla fine non sono bastate strategie, coalizioni e giochi di corridoio. A decidere è stato anche un dettaglio apparentemente insignificante: Robert Prevost era seduto esattamente nello stesso posto che occupava Jorge Mario Bergoglio nel 2013, quando divenne Papa Francesco. Coincidenze? In conclave, si chiamano segni.
Il New York Times ha ricostruito le ore decisive che hanno portato all’elezione del nuovo pontefice, Leone XIV. Un dietro le quinte fatto di voti ballerini, cardinali indecisi, battute in latino stanco, respiri profondi e mani tra i capelli. Ma anche di lotte intestine: Pietro Parolin, l’uomo forte della diplomazia vaticana, è stato affondato dalla storica incapacità degli italiani di presentarsi uniti. “Erano divisi”, raccontano i cardinali. E questo, in Sistina, è letale.
Il primo scrutinio, quello “tecnico”, viene descritto come un test. Nessuna pausa cena, niente bagno: “Una prova generale”, la definisce il cardinale Juan José Omella. Ne escono fuori tre nomi: Parolin, Peter Erdo (l’ungherese sostenuto da conservatori e africani), e Robert Prevost. Ma mentre i primi due si incagliano nelle sabbie mobili delle spaccature interne e dell’impossibilità di allargare il consenso, Prevost — ex missionario in Perù, già prefetto dei vescovi, americano ma discretissimo — comincia la scalata.
Il colpo di scena arriva il 3 maggio, cinque giorni prima dell’apertura ufficiale del Conclave. I cardinali estraggono a sorte i ruoli organizzativi e a Prevost tocca un compito centrale: coordinare le riunioni preparatorie. È in quei giorni che il suo profilo cresce. È discreto, ascolta molto, media. Il cardinale Tobin, suo connazionale, gli sussurra una profezia: “Bob, potrebbero proporlo a te”.
E lo propongono davvero. Alla quarta votazione, le schede virano di colpo. “Schieramento schiacciante”, dice il cardinale You Heung-sik. Il clima si fa teso, e si moltiplicano i segnali. Il cardinale Tagle lo osserva seduto, teso, quasi incredulo. Il cardinale Tobin lo vede a capo chino, con la testa tra le mani. La Sistina trattiene il fiato.
Nel pomeriggio scatta l’ultima chiamata. I voti si accumulano, uno dopo l’altro. Fino a quota 89: la soglia dei due terzi. L’assemblea esplode. Ma Prevost rimane seduto. “Qualcuno dovette tirarlo su”, ricorda commosso il cardinale David. Tutti in piedi, lui no. Lacrime. E, subito dopo, una pioggia di abbracci. “Ha preso una maggioranza larghissima”, racconta Désiré Tsarahazana del Madagascar. Il nome scelto è Leone XIV.
E poi c’è la lingua. Prevost, nato a Chicago, cittadino americano, quando si affaccia per la prima volta come Papa non dice una parola in inglese. Parla in italiano, poi in spagnolo. È una scelta voluta, raccontano. Per non apparire troppo “americano” davanti a un’assemblea in cui la superpotenza non è più quella che detta la linea. È una strategia. Funziona.
Il Papa delle coincidenze diventa Papa dei gesti misurati. Quello che rifiuta il trionfalismo. Che sceglie il silenzio al clamore. Che arriva al soglio di Pietro con passo lento e mani giunte. Leone XIV non era il favorito. Ma oggi, per molti, è la risposta.
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Italia
Gemelle siamesi unite per la testa, a Monza l’intervento eccezionale: una sopravvive, l’altra muore dopo 48 ore di sala operatoria
Dopo dieci mesi di preparazione e 48 ore in sala operatoria, solo una delle gemelline siamesi senegalesi unite per la testa è sopravvissuta. I medici parlano di “progresso clinico” per D., mentre i genitori ringraziano: “Abbiamo visto l’amore fino all’ultimo”.

Un caso medico rarissimo, una sfida umana e scientifica senza precedenti, una speranza spezzata e una vita che, nonostante tutto, resiste. È il bilancio tragico ma straordinario dell’intervento di separazione delle gemelle siamesi senegalesi di due anni e mezzo, unite per la testa, avvenuto nei giorni scorsi presso l’ospedale San Gerardo di Monza. Un’operazione chirurgica titanica, durata 48 ore consecutive, che ha purtroppo visto il decesso della piccola T., mentre la sorellina D. è ora ricoverata in terapia intensiva neurologica, con segnali definiti “incoraggianti” dai medici.
Le due bambine erano affette da una forma eccezionalmente rara e complessa di craniopago verticale totale, una condizione in cui i crani, parte dei cervelli e i vasi sanguigni dei gemelli risultano fusi. Una situazione che si verifica in un caso ogni 2,5 milioni di nascite, con meno di 60 interventi di separazione documentati nel mondo negli ultimi settant’anni.
Giunte in Italia nel luglio del 2024 grazie all’intervento di associazioni umanitarie e con il supporto di Areu Lombardia, le bambine sono state accolte in una struttura specializzata dove, per quasi un anno, sono state seguite da un’équipe multidisciplinare altamente specializzata: neurochirurghi, anestesisti, radiologi, infermieri pediatrici, psicologi e tecnici biomedici. Ogni fase del percorso è stata preceduta da simulazioni digitali tridimensionali, per prepararsi a ogni possibile scenario.
L’operazione, eseguita nei giorni scorsi, è stata descritta dai chirurghi come “una delle prove più ardue mai affrontate nella storia del nostro ospedale”. L’obiettivo era ridare a entrambe una possibilità di vita autonoma, lontana dalle limitazioni e dai rischi legati alla loro condizione. Ma la realtà è stata più dura delle proiezioni.
T. non ce l’ha fatta. Ha perso la vita al termine della fase più critica dell’intervento, nonostante ogni sforzo. La sua morte ha lasciato un vuoto profondissimo non solo nella famiglia, ma anche tra i medici, che avevano condiviso un anno intero di lotte, speranze e preparativi. La sorella, D., lotta ancora, ma i segnali sono positivi: “Sta reagendo bene”, fanno sapere i sanitari, “ma il percorso sarà lungo”.
Colpiti dal lutto ma anche dal sostegno ricevuto, i genitori hanno affidato il loro dolore a parole piene di riconoscenza: “Abbiamo perso una figlia, ma abbiamo visto fino all’ultimo quanto amore e impegno ci siano stati attorno a noi. Siamo grati a chi ha creduto in questo sogno”.
Ora resta la speranza per D., e il patrimonio di conoscenze accumulato da un’équipe che, pur nell’esito tragico, ha compiuto un’impresa che entra a pieno titolo nella storia della medicina italiana.
Cronaca Nera
Omicidio Tramontano, la difesa in appello: “Non fu crudele, voleva solo uccidere il feto”
Secondo l’avvocata Geradini, l’ex barman non avrebbe agito con premeditazione né con crudeltà: “Voleva solo fermare la gravidanza, il delitto fu maldestro e non pianificato”. Ma per la Corte d’assise di Milano aveva pianificato ogni dettaglio.

Un omicidio efferato, un femminicidio che ha sconvolto il Paese, un uomo condannato all’ergastolo che oggi cerca di riscrivere i contorni della sua colpa. Mercoledì si riapre a Milano il caso di Giulia Tramontano, la giovane di 29 anni uccisa il 27 maggio 2023 dal compagno Alessandro Impagnatiello, mentre era incinta al settimo mese. Davanti alla Corte d’assise d’appello, la difesa del trentaduenne cerca ora di scardinare le due aggravanti più pesanti della condanna di primo grado: la premeditazione e la crudeltà.
Per l’avvocata Giulia Geradini, Impagnatiello non sarebbe stato un lucido assassino, ma un uomo in crisi, travolto dal crollo del castello di bugie che aveva costruito intorno a sé. Nessuna pianificazione fredda, nessun piano studiato nei dettagli: solo, secondo la tesi difensiva, un gesto improvviso, nato nel momento in cui le sue menzogne – la doppia vita, la relazione parallela, la gravidanza scomoda – erano giunte al capolinea. “Il delitto – argomenta la legale – fu commesso quando si verificò uno smascheramento irreparabile”.
A detta della difesa, il comportamento di Impagnatiello dopo l’omicidio dimostrerebbe proprio l’assenza di lucidità: “Ha commesso errori grossolani, maldestri, nel tentativo di nascondere il cadavere e simulare una scomparsa”. Un comportamento che, secondo Geradini, non si concilia con quello di un assassino che ha pianificato ogni passo. E per quanto riguarda la crudeltà? “Giulia non si è resa conto di ciò che stava accadendo. Non ha avuto tempo di difendersi: sul corpo non ci sono segni di reazione. È morta all’istante”.
La difesa porta in aula una narrazione alternativa: Impagnatiello non voleva uccidere Giulia, ma solo fermare la gravidanza. “Voleva solo uccidere il feto”, ha dichiarato la legale, puntando sulla convinzione dell’imputato di vedere quel bambino come un ostacolo alla propria carriera, alla vita con l’altra donna, al futuro che immaginava per sé. Una motivazione che la Corte d’assise, però, aveva già rigettato con forza, sostenendo che Giulia era perfettamente consapevole di stare morendo insieme a suo figlio.
Nel processo di primo grado, la sentenza era stata netta: delitto premeditato, preceduto da mesi di somministrazione di veleno (un topicida) da parte di Impagnatiello nel tentativo di indurre un aborto. Un piano lucido, secondo i giudici, che culminò nell’omicidio brutale. Alla famiglia Tramontano era stata riconosciuta una provvisionale di 700mila euro, e all’imputato erano stati inflitti anche tre mesi di isolamento diurno.
Ora, in appello, si riapre il fronte delle attenuanti generiche. La difesa chiede che vengano riconosciute in base al “contesto personologico” emerso dalla perizia psichiatrica: tratti narcisistici e psicopatici, ma piena capacità di intendere e volere. E invoca le fragilità mostrate da Impagnatiello durante l’interrogatorio: “Ha pianto, ha vacillato. Ha confessato. Non è un mostro, è un uomo devastato”.
Ma la domanda che aleggia nell’aula è un’altra: si può davvero separare un omicidio dalla sua atrocità solo perché chi lo ha compiuto non è stato abbastanza bravo a nasconderlo? La risposta spetta ora ai giudici d’appello.
Cronaca Nera
David Rossi, nuovi dubbi sulla caduta: “Ferite al polso incompatibili con l’impatto, orologio già rimosso”
Il presidente Vinci: “Il suo orologio si era già staccato prima dell’impatto. Quei tagli sul polso non sono compatibili con la caduta”. Il Ris prepara una simulazione con manichino e oggetti identici. La vedova: “È una boccata d’ossigeno”.

La ferita sul polso, due tagli evidenti, il sangue. E un orologio che si è staccato dal braccio di David Rossi prima che il corpo toccasse terra. A undici anni dalla tragica morte del manager del Monte dei Paschi di Siena, precipitato dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo 2013, emergono nuovi, inquietanti elementi. È quanto rivelano i lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta guidata da Gianluca Vinci, che nelle ultime ore ha reso pubblici i risultati di una nuova analisi video condotta con software di ultima generazione. Il dettaglio che riapre i dubbi è proprio quello dell’orologio: al momento dell’impatto, Rossi non lo indossava più.
“Si vede chiaramente – ha spiegato Vinci – la cassa dell’orologio che, dopo l’urto del corpo, viene proiettata verso il muro alle spalle, e si distingue il cinturino, già staccato, cadere vicino a una delle scarpe di Rossi. Due elementi distinti, già separati al momento della caduta”. Un’anomalia, secondo il presidente della Commissione, che apre a nuove domande: “Come può un orologio sganciarsi prima di un impatto così violento? E soprattutto: da cosa derivano quelle ferite sul polso, se non dall’urto con il suolo?”.
La scena è quella già nota: una caduta silenziosa, pochi secondi nel cortile interno di Rocca Salimbeni, sede storica della banca senese. Ma stavolta, i dettagli fanno la differenza. Il Ris di Roma, guidato dal tenente colonnello Adolfo Gregori, ha analizzato ogni frame di quel video sfocato. E ha cristallizzato sette istanti precisi, in cui l’orologio si divide, la posizione del corpo si altera, e si individuano movimenti inspiegabili. “L’analisi è solo all’inizio – chiarisce Vinci – ma abbiamo deciso di procedere con una simulazione fisica della caduta, utilizzando un manichino e un orologio identico a quello indossato da Rossi. Solo così potremo capire cosa è accaduto davvero”.
I familiari di Rossi, da sempre convinti che non si sia trattato di un suicidio, accolgono le parole della Commissione con un misto di speranza e sollievo. Antonella Tognazzi, la vedova, ha commentato con voce spezzata: “È una boccata d’ossigeno. Questo è quello che abbiamo sempre detto e per anni siamo stati screditati, derisi, lasciati soli. Ora mi sembra che qualcosa si muova davvero. Speriamo che nessuno fermi questo percorso”.
Un percorso che ha visto negli anni troppe ombre, troppe omissioni, troppi silenzi. Dall’orario della morte alle tracce biologiche nella stanza, dalle telefonate mai chiarite al contenuto delle mail. Ora spunta anche un orologio spezzato, come se il tempo si fosse davvero interrotto prima di quella caduta. E con esso, l’intera narrazione su cui per anni si è retto il caso.
La Commissione ha annunciato che proseguirà con nuove audizioni e ulteriori accertamenti tecnici. Ma quel dettaglio – un orologio che vola via prima del corpo – pesa come un macigno su undici anni di domande senza risposta.
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