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Lifestyle

Monk Mode, il paradosso dell’era digitale: spegnere lo smartphone solo se ce lo dice un trend

Il fenomeno promette disciplina, concentrazione e minimalismo, ma rivela una fragilità collettiva: non riusciamo a staccarci dai telefoni senza l’etichetta di un movimento. Il silenzio diventa prodotto, tra retreat, app e candele “focus”.

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    Sveglia presto, niente smartphone a portata di mano, solo disciplina e concentrazione. È la ricetta del Monk Mode, trend nato negli angoli più iperattivi di internet e già diventato fenomeno globale. L’idea è semplice: vivere per un periodo più o meno lungo “come un monaco”, tagliando fuori distrazioni digitali, social e consumi compulsivi di informazioni. In vacanza significa lettura, enigmistica, trekking, silenzi e sguardo fisso sull’orizzonte. Il culmine si raggiunge con un vecchio cellulare anni Novanta, senza schermo a colori né connessione, ma ancora funzionante.

    Il termine attecchisce perché tocca corde profonde: la saturazione di notifiche, l’ansia di non avere mai tempo, la sensazione di vivere in un flusso ininterrotto di messaggi e like. Monk Mode promette un antidoto: minimalismo e performance mentale. Non sorprende che siano soprattutto giovani professionisti e studenti a cercarlo, soffocati da input infiniti e alla ricerca di un discorso interiore.

    Ma il paradosso è evidente: davvero serve un trend per smettere di seguire i trend? La disconnessione diventa “cool” solo con un hashtag. Non riusciamo più a dire “stacco dal telefono” senza che TikTok ci autorizzi, senza che i social celebrino la scelta.

    Non è la prima volta. Prima del Monk Mode c’erano il digital detox, il dopamine fasting, la slow life, i retreat silenziosi venduti come pacchetti vacanza per manager stressati. Tutte varianti dello stesso bisogno: scollegarsi. La ripetizione dei trend, però, rivela la fragilità di fondo: non sappiamo più disconnetterci senza cornici che ci giustifichino.

    C’è poi un nodo sociale. Chi può permettersi settimane di “monastero” virtuale? Non chi fa turni a chiamata, non chi accudisce familiari, non chi vive di consegne. La narrativa della disciplina personale, eticamente legittima, diventa politicamente ambigua se maschera la scarsità di tutele collettive.

    Intanto l’industria del benessere monetizza la quiete: retreat a pagamento, app di meditazione, timer digitali, candele “focus”. Il silenzio diventa abbonamento mensile, prodotto confezionato da un capitalismo che prima crea il problema e poi vende la soluzione. Ed ecco perché abbiamo bisogno di un trend per smettere di seguire i trend.

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      Lifestyle

      Filofobia: quando l’amore fa paura

      Chi ne soffre desidera amare ma teme di soffrire.
      Capire le origini di questa paura e imparare a gestirla è il primo passo per costruire relazioni più sane e autentiche.

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      Filofobia

        C’è chi fugge appena una storia diventa seria, chi si sente soffocare al primo segnale di intimità, chi sabota ogni nuova possibilità di legame. Tutti, in qualche misura, conoscono la paura di lasciarsi andare. Ma quando questa paura diventa un ostacolo costante, capace di impedire qualsiasi coinvolgimento affettivo, si parla di filofobia, la paura di amare.

        Secondo gli psicologi, la filofobia non è un semplice “non volere una relazione”: è una reazione emotiva complessa che si attiva davanti alla prospettiva di un legame profondo. Chi ne soffre può provare ansia, tachicardia o panico quando la relazione prende una piega più seria, e tende a interrompere i rapporti per paura di soffrire o di perdere il controllo.

        Le radici della paura

        Le cause della filofobia possono essere molteplici. Spesso derivano da esperienze affettive dolorose: un tradimento, una separazione improvvisa, o una relazione tossica che ha lasciato segni profondi. In altri casi, la radice risale all’infanzia, quando il bambino non ha sperimentato un attaccamento sicuro con i genitori.

        Secondo la teoria dell’attaccamento elaborata dallo psicologo John Bowlby, chi da piccolo ha vissuto instabilità o rifiuto tende da adulto a temere l’intimità, perché la associa a perdita o vulnerabilità. A volte, la paura di amare è anche una forma di autoprotezione: meglio non rischiare, pur di non rivivere la sofferenza del passato.

        Come si manifesta

        I segnali della filofobia possono essere sottili. Alcune persone idealizzano l’amore ma, di fronte a una relazione reale, si tirano indietro. Altri preferiscono relazioni impossibili o a distanza, dove l’impegno è minimo e il rischio emotivo contenuto.

        Tra i comportamenti più frequenti ci sono la tendenza ad autosabotarsi, la paura di mostrarsi vulnerabili, la difficoltà a fidarsi o a condividere i propri sentimenti. Spesso queste persone si descrivono come “indipendenti” o “non portate per l’amore”, ma dietro questa apparente sicurezza si nasconde una grande paura del rifiuto o dell’abbandono.

        A livello fisico, la filofobia può manifestarsi con sintomi simili all’ansia: palpitazioni, sudorazione, tensione muscolare. Nei casi più intensi, il solo pensiero di un legame stabile può generare una vera e propria crisi di panico.

        Come superarla

        La buona notizia è che la filofobia si può affrontare e superare. Il primo passo è riconoscerla, senza colpevolizzarsi. “La paura di amare non è un difetto, ma una risposta appresa che può essere disinnescata”, spiega la psicoterapeuta Maria Beatrice Toro, specialista in psicologia clinica.

        Il percorso terapeutico più indicato è la psicoterapia cognitivo-comportamentale, che aiuta a identificare i pensieri distorti legati all’amore e a sostituirli con convinzioni più realistiche e rassicuranti. Anche la mindfulness e le tecniche di gestione dell’ansia possono essere strumenti utili per tornare a fidarsi.

        È importante, inoltre, procedere per piccoli passi: concedersi esperienze affettive graduali, imparare a comunicare i propri limiti e coltivare relazioni basate sulla sincerità e sull’ascolto reciproco.

        Amare senza paura

        Superare la filofobia non significa eliminare del tutto la paura, ma imparare a conviverci senza esserne dominati. L’amore, come ogni esperienza umana profonda, comporta inevitabilmente una quota di rischio. Ma è proprio in questa vulnerabilità che si nasconde la sua forza.

        Chi riesce ad accettare l’imperfezione dei rapporti e a fidarsi poco a poco scopre che amare non è perdere se stessi, ma condividere ciò che si è, con coraggio e autenticità.

        Come ricorda la psicologa statunitense Brené Brown, studiosa del coraggio emotivo: “La vulnerabilità non è debolezza, è la misura del nostro coraggio”. E forse è proprio da qui che comincia la guarigione: dal concedersi di essere umani, anche quando si ha paura.

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          Animali

          Quando il cane “dà la zampa” senza essere stato richiesto: cosa vuole davvero comunicarci

          Secondo veterinari e comportamentalisti, l’atto non è un semplice automatismo: è un comportamento appreso che il cane usa per attirare l’attenzione, chiedere qualcosa o esprimere uno stato emotivo. E capire il contesto è fondamentale.

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          cane “dà la zampa”

            Una zampa sollevata e poggiata sulla gamba del proprietario è uno dei comportamenti più frequenti – e spesso fraintesi – dei cani domestici. Per molti è solo una richiesta di coccole, per altri un gesto affettuoso. In realtà la sua interpretazione è più complessa e, come spiegano i veterinari, varia molto a seconda del contesto e della personalità dell’animale.

            Il veterinario romano Federico Coccìa, intervistato da Adnkronos Salute, chiarisce un punto fondamentale: si tratta di un comportamento appreso, non di un gesto istintivo. «Il cane imita alcuni movimenti che osserva nell’uomo e scopre che alzare la zampa genera quasi sempre una risposta: attenzione, carezze, o addirittura un premio. Così il gesto diventa uno strumento di comunicazione».

            Ma perché il cane sceglie proprio la zampa? Gli esperti di comportamento animale, tra cui l’American Veterinary Society of Animal Behavior, evidenziano che i cani usano il contatto fisico per modulare la comunicazione con i membri del gruppo sociale. Posare la zampa su qualcuno può essere un modo per “marcare” una presenza, richiamare lo sguardo o creare un contatto rassicurante. Proprio per questo il significato cambia in base al linguaggio del corpo che lo accompagna.

            Secondo Coccìa, per interpretare correttamente il segnale è utile osservare il viso del cane: «Occhi morbidi, orecchie rilassate e postura distesa indicano che il gesto è un invito al contatto, una sorta di pacca amichevole. Se invece lo sguardo è basso, il muso appare teso o l’animale sembra irrequieto, è probabile che la zampa serva a chiedere qualcosa: uscire, mangiare, giocare o essere rassicurato».

            I comportamentalisti sottolineano anche che la zampa può essere un segno di stress lieve. Alcuni cani la sollevano quando si trovano in situazioni ambigue o non sanno come comportarsi: un comportamento definito “segnale calmante”. In questi casi la richiesta non è di attenzione, ma di riduzione della tensione.

            Per comprendere cosa voglia dire davvero il cane, gli esperti consigliano di analizzare ciò che succede prima del gesto. Porsi alcune domande aiuta a chiarire il messaggio:
            – Perché si avvicina e mi fissa?
            – Perché cammina verso la porta?
            – Perché ha mostrato un giocattolo o si è diretto verso la ciotola?
            – Perché sembra agitarsi senza motivo?

            Spesso la risposta si trova nella sequenza comportamentale: la zampa è semplicemente l’ultimo tassello di un messaggio iniziato qualche secondo prima.

            Comprendere questo linguaggio non verbale favorisce una convivenza più serena e riduce i malintesi. «Chi vive con un cane impara in fretta che ogni animale comunica in modo diverso», ricorda Coccìa. «L’importante è non ignorare il gesto, ma interpretarlo: dietro una semplice zampa può esserci una richiesta d’affetto, un bisogno concreto o un segnale di disagio».

            In un rapporto basato sulla fiducia reciproca, anche un piccolo gesto diventa una conversazione. Sta a noi imparare ad ascoltarla.

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              Lifestyle

              WC, come eliminare calcare e ruggine in modo efficace e sicuro

              Dai prodotti specifici ai metodi naturali, passando per gli errori più comuni: una guida pratica per rimuovere le incrostazioni senza danneggiare la ceramica né mettere a rischio la sicurezza domestica.

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              WC

                Il WC è uno dei sanitari più soggetti all’accumulo di calcare, dovuto all’acqua dura, e di ruggine, spesso provocata da vecchie tubature o da depositi ferrosi nell’acqua. Le due macchie, che appaiono come striature biancastre o aloni arancioni, non sono solo antiestetiche: nel tempo possono rendere la ceramica porosa e più difficile da pulire. Per fortuna, esistono metodi sicuri e testati per rimuoverle, purché utilizzati correttamente.

                La prima distinzione da fare è tra calcare e ruggine. Il calcare è un deposito minerale composto principalmente da carbonato di calcio: per scioglierlo servono sostanze acide, come acido citrico o acido lattico, presenti in molti anticalcare commerciali. La ruggine, invece, è ossido di ferro: per rimuoverla sono utili prodotti specifici a base di acido cloridrico o tamponati (contenuti in molti disincrostanti per WC), oppure alternative più delicate, come l’acido ossalico.

                Tra i rimedi più efficaci e sicuri rientrano gli anticalcare professionali, reperibili nei supermercati e approvati dalle norme europee REACH. Vanno applicati sulle zone incrostate dopo aver svuotato l’acqua dal fondo del WC (spingendola via con lo scopino): questo permette al prodotto di aderire meglio alle superfici. Dopo un tempo di posa che va dai 10 ai 30 minuti, basta spazzolare e risciacquare. Per le incrostazioni più dure si può ripetere il trattamento.

                Per chi preferisce soluzioni meno aggressive, l’acido citrico in polvere è un’opzione valida: sciolto in acqua calda crea una soluzione anticalcare naturale che aiuta a ridurre le macchie bianche senza danneggiare la ceramica. Diversamente da quanto spesso suggerito online, l’aceto è molto meno efficace: la sua acidità è troppo bassa rispetto ai prodotti specifici.

                La ruggine richiede un’attenzione ulteriore. I detergenti antiruggine con acido ossalico rimuovono gli aloni arancioni senza intaccare lo smalto del sanitario. Anche in questo caso è importante farli agire per qualche minuto e utilizzare una spugna o una spazzola non abrasiva. Per macchie persistenti, l’operazione può essere ripetuta due o tre volte.

                Qualunque metodo si scelga, la sicurezza resta fondamentale. Gli esperti ricordano di non mescolare mai prodotti diversi, in particolare candeggina e acidi, perché possono generare gas irritanti per le vie respiratorie. È sempre consigliato l’uso di guanti, buona aerazione e attenzione a non graffiare la ceramica con pagliette metalliche o spugne troppo dure.

                Infine, prevenire è più semplice che intervenire su incrostazioni avanzate. Una manutenzione regolare con anticalcare delicati, il controllo delle perdite interne dello sciacquone e, se l’acqua è particolarmente dura, l’installazione di un addolcitore riducono drasticamente la formazione di residui.

                Rimuovere calcare e ruggine dal WC non è solo questione estetica: garantisce un ambiente più igienico, riduce gli odori e preserva nel tempo l’integrità dei sanitari. Bastano i prodotti giusti, pochi accorgimenti e molta costanza.

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