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Cronaca

Giuliano Peparini solleva il velo sugli abusi nel mondo della danza

L’ex coreografo di Amici e fondatore della sua Academy, ha posto l’accento sulla sicurezza dei giovani ballerini, rivelando di essere stato vittima di abusi sessuali durante la sua formazione. Promette un ambiente sicuro e offre supporto psicologico gratuito per gli studenti. Inoltre, si impegna a contrastare anche i disturbi alimentari nel mondo della danza, dimostrando un forte impegno per il benessere degli allievi.

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    «Nessuno ne parla mai, ma gli abusi sono sempre esistiti nel nostro ambiente. Lo dico perché l’ho provato sulla mia pelle», Giuliano Peparini, rinomato coreografo e figura di spicco nell’ambiente della danza, ha posto la sicurezza dei giovani allievi al vertice delle sue priorità.

    Durante la solenne inaugurazione della sua Academy, ha affrontato un tema cruciale e spesso trascurato: gli abusi sessuali nel mondo della danza. Peparini, esperto del settore e fratello della celebre Veronica, ha condiviso il suo personale percorso come vittima di molestie durante gli anni della sua formazione. Questo coraggioso atto rivela una volontà di trasparenza e impegno nel contrastare un problema dilagante ma spesso ignorato.

    «Quando ero giovane io ci venivano chieste cose che normali, in realtà, non erano». Giuliano racconta: «Per esempio, alcuni insegnanti volevano discutere della lezione o del mio percorso mentre loro si facevano la doccia, completamente nudi. Io mi sentivo a disagio, intuivo che fosse una richiesta strana ma non ero l’unico a ricevere questo genere di “inviti”. Paradossalmente era la normalità. Infatti non ne parlai mai in famiglia». 

    La visione di Peparini è quella di creare un ambiente sicuro e accogliente per i giovani talenti che frequentano la sua Academy. Egli ha dichiarato che la sua missione è quella di offrire un rifugio protetto dove gli allievi possano coltivare il loro talento senza timori o preoccupazioni. Questo impegno si traduce in azioni concrete: Peparini si impegna a fornire supporto psicologico gratuito per gli studenti, dimostrando una responsabilità sociale e un profondo interesse per il loro benessere emotivo.

    Le parole di Peparini risuonano come un richiamo all’industria della danza, invitando a una riflessione profonda sulle dinamiche di potere e sulle pratiche abusive che spesso restano celate nell’ombra. La sua Academy si propone di essere non solo un luogo di formazione artistica, ma anche un baluardo contro gli abusi e un faro di speranza per i giovani aspiranti ballerini.

    Parallelamente agli sforzi contro gli abusi sessuali, Peparini è altrettanto consapevole di un altro aspetto oscuro nel mondo della danza: i disturbi alimentari. In linea con la sua visione di un ambiente sano e equilibrato, il coreografo ha annunciato l’intenzione di offrire un servizio psicologico specializzato, completamente gratuito per gli allievi. Questo gesto generoso dimostra un impegno tangibile nel sostenere la salute mentale e il benessere complessivo degli studenti.

    In sintesi, la storia di Giuliano Peparini e della sua Academy non è solo quella di un’istituzione educativa dedicata alla danza, ma anche quella di un luogo che si batte attivamente per la sicurezza e il benessere dei giovani talenti che accoglie. La sua voce si leva come un richiamo all’azione, invitando l’intera comunità artistica a unirsi nel combattere gli abusi e nel promuovere una cultura di rispetto e supporto reciproco.

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      Mondo

      Burke, Sarah, Müller: in Conclave gli ultraconservatori contro Francesco

      Dalla comunione ai divorziati al ruolo delle donne nella Chiesa: le battaglie della fronda più tradizionalista, tra accuse, polemiche e una contrapposizione ormai decennale con il pontificato di Francesco. Ma i numeri, oggi, non sono dalla loro parte.

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        Sono agguerriti ma isolati. Determinati a far sentire la propria voce, ma condannati, come già in passato, a restare ai margini.
        Nel Conclave che dovrà eleggere il successore di papa Francesco si affacciano anche loro: i cardinali ultraconservatori, protagonisti per oltre un decennio di una contestazione costante e rumorosa contro le riforme del pontificato di Bergoglio.

        Non si tratta di un’opposizione nuova. Fin dal 2013, quando Jorge Mario Bergoglio fu eletto, si delineò una fronda interna, prevalentemente collocata nell’area più tradizionalista del Sacro Collegio. Una fronda che non aveva mai perdonato la rinuncia di Benedetto XVI, considerata un gesto che aprì la strada a un cambiamento temuto e osteggiato. «Sarà un disastro», avrebbe commentato a caldo in Cappella Sistina il cardinale sloveno Franc Rodé, esprimendo un sentimento diffuso tra i nostalgici dell’ortodossia preconciliare.

        Da sinodo a sinodo: lo scontro sulle riforme
        La battaglia si è inasprita con i Sinodi sulla famiglia del 2014 e del 2015, quando iniziarono a circolare aperture sulle coppie di fatto, sull’accoglienza delle persone omosessuali e sulla possibilità di accesso all’eucaristia per i divorziati risposati.
        Una rivoluzione che trovò una sua formalizzazione nell’esortazione apostolica Amoris Laetitia, e che scatenò la reazione più dura degli ultraconservatori: i “dubia” presentati nel 2016 da quattro cardinali – Raymond Leo Burke, Walter Brandmüller, Joachim Meisner e Carlo Caffarra – che, con linguaggio filiale ma tono fermo, chiesero chiarimenti al Papa su aspetti dottrinali fondamentali.

        Sempre gli stessi temi, sempre le stesse barricate
        Da allora, le occasioni di scontro non sono mancate. L’omosessualità, il celibato sacerdotale, il ruolo delle donne nella Chiesa, il ritorno alla Messa preconciliare: ogni tentativo di riforma, ogni segnale di apertura è stato accolto da una levata di scudi. Con toni che, col passare degli anni, si sono fatti via via più duri.

        Tra i protagonisti di questa opposizione permanente c’è il cardinale americano Raymond Leo Burke, 76 anni, sostenitore convinto di Donald Trump e strenuo difensore della liturgia tradizionale. Negli ultimi tempi, il suo rapporto con il Vaticano si è ulteriormente deteriorato: Francesco gli ha tolto il diritto a un alloggio gratuito e alla pensione cardinalizia, segnando così la fine formale di ogni benevolenza istituzionale.

        I nuovi volti della fronda
        Accanto a Burke, si sono fatti strada altri esponenti del fronte conservatore. Il cardinale guineano Robert Sarah, 79 anni, già prefetto della Congregazione per il Culto Divino, si è distinto per le critiche aperte alla gestione bergogliana del sinodo sull’Amazzonia, soprattutto sul tema dei “viri probati”, cioè l’ipotesi di ordinazione sacerdotale per uomini sposati in zone remote.
        Un dissenso culminato nella pubblicazione di un libro – inizialmente presentato come scritto a quattro mani con Benedetto XVI – in difesa del celibato sacerdotale obbligatorio. Un’operazione che suscitò clamore e imbarazzo, anche a causa della successiva smentita da parte dell’entourage del Papa emerito.

        Tra i più attivi nel criticare il pontificato c’è anche il cardinale tedesco Gerhard Ludwig Müller, 77 anni, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede sotto Benedetto XVI e poi confermato da Francesco, salvo essere congedato nel 2017. Da allora, Müller ha moltiplicato interventi e interviste pubbliche, contestando le aperture verso i divorziati, il sinodo dei giovani, il sinodo sull’Amazzonia e l’ipotesi di un maggiore ruolo delle donne nella Chiesa.

        Minoranza rumorosa
        Nonostante la visibilità mediatica e il peso storico di alcuni protagonisti, gli ultraconservatori restano una minoranza nel Collegio cardinalizio. Non perché i cardinali creati da Francesco siano tutti progressisti – anzi, molti provengono da contesti pastorali molto diversi, spesso lontani da qualunque etichetta ideologica – ma perché l’impronta globale e pastorale impressa da Bergoglio ha reso marginale il tradizionalismo più rigido.

        Burke, Sarah e Müller entrano in Conclave con la volontà di orientare il dibattito, di frenare ulteriori aperture, di invocare una restaurazione della disciplina tradizionale. Ma, nella realtà dei numeri, le loro possibilità di determinare l’elezione del nuovo Papa appaiono estremamente limitate.

        Un segnale, più che un programma
        Il loro peso politico oggi risiede più nella testimonianza di una protesta che nella capacità di incidere realmente sulla scelta del futuro Pontefice. Difficilmente un loro candidato potrà essere eletto. Più probabile, semmai, che il loro dissenso venga assorbito, in parte neutralizzato, da un collegio cardinalizio che – pur non rinnegando la tradizione – sembra orientato a scegliere un successore capace di proseguire, magari con toni diversi, il cammino tracciato negli ultimi dodici anni.

        Ma quanto la voglia di una frenata sulle riforme sarà condivisa oltre i confini della fronda più radicale, lo diranno solo le votazioni a porte chiuse. E a quel punto, più che i proclami, parleranno i numeri.

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          Mondo

          Trump contro Amazon: “Atto ostile”. Bezos chiarisce, ma la Casa Bianca alza i toni

          La tensione tra Washington e Amazon esplode nel giorno in cui la Casa Bianca valuta l’allentamento dei dazi sulle auto. Secondo la CNN, Trump ha chiamato personalmente Jeff Bezos dopo aver appreso dell’intenzione – poi smentita – di evidenziare sui prodotti Amazon l’effetto delle tariffe d’importazione. La risposta della Big Tech: “Era solo un’ipotesi interna allo store low cost, mai arrivata sul sito principale”.

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            Nella nuova stagione della guerra commerciale targata Donald Trump, il bersaglio non è solo la Cina. È anche chi, negli Stati Uniti, osa far notare ai consumatori quanto quei dazi incidano davvero sul prezzo dei prodotti.
            Amazon, secondo la Casa Bianca, avrebbe tentato un’operazione considerata “politica e ostile”. A dirlo, senza mezzi termini, è stata la portavoce presidenziale Karoline Leavitt, che in conferenza stampa ha accusato l’azienda di Jeff Bezos di flirtare con “una branca della propaganda cinese”, insinuando un presunto allineamento strategico nella battaglia economica in corso.

            Tutto parte da un’indiscrezione pubblicata da Punchbowl News, secondo cui alcuni team interni ad Amazon stavano valutando l’idea di mostrare ai clienti l’impatto diretto delle tariffe doganali accanto al prezzo dei prodotti: una sorta di “scontrino trasparente” con tutte le voci di importazione evidenziate.

            L’intento? A detta dei detrattori, quello di trasferire sulle politiche dell’amministrazione la responsabilità degli aumenti percepiti dai consumatori. Una mossa che, se applicata davvero, avrebbe avuto ricadute evidenti sulla comunicazione politica di Trump, proprio nei giorni in cui la Casa Bianca si prepara ad annunciare un allentamento dei dazi sulle auto per calmare i mercati e rilanciare l’industria domestica.

            Secondo quanto riportato dalla giornalista della CNN Alayna Treene, il presidente Trump ha reagito personalmente, chiamando al telefono Jeff Bezos per chiedere spiegazioni dirette. Un gesto inusuale, ma che segnala quanto il rapporto tra il tycoon e l’ex uomo più ricco del mondo resti fragile, nonostante un avvicinamento nelle ultime settimane.

            Amazon ha risposto con una precisazione immediata, attraverso un portavoce: «Il team che gestisce il nostro negozio ultra low cost Amazon Haul ha discusso internamente la possibilità di mostrare i costi di importazione su alcuni articoli. Si tratta di brainstorming ordinari. L’idea non è mai stata presa in considerazione per lo store principale di Amazon, né implementata su alcuna piattaforma».

            Una smentita che cerca di raffreddare il caso, ma che arriva troppo tardi per evitare lo scontro. Per la Casa Bianca, anche solo pensare di rendere visibili ai clienti gli effetti delle scelte governative sui loro portafogli è già un attacco politico.

            Sul piatto, però, ci sono anche 12 miliardi di euro di export italiano a rischio, colpiti dai dazi su acciaio, alluminio e auto. E mentre Trump agita la clava commerciale, i colossi americani – Amazon in testa – si trovano tra due fuochi: il pressing cinese da un lato, e quello di Washington dall’altro.

            Il messaggio, in fondo, è chiaro: in un’America dove i prezzi lievitano e la campagna elettorale è già entrata nel vivo, anche la trasparenza può diventare un’arma pericolosa. Soprattutto se usata sotto forma di etichetta.

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              Il papa di Giorgia? Conservatore e colto come Benedetto. E la Meloni lavora sotto traccia

              La premier spera in un Papa lontano dall’“uragano Francesco” e vicino alla linea teologica di Wojtyla e Ratzinger. I nomi che circolano a Palazzo Chigi: Giuseppe Betori in testa, ma anche Parolin come compromesso. Il ruolo chiave di Mantovano, ex presidente di “Aiuto alla Chiesa che soffre”, oggi regista silenzioso tra Curia e governo.

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                Giorgia Meloni, da sempre considerata legata alla tradizione più conservatrice della Chiesa, non ha mai fatto mistero della sua ammirazione per Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Papa Francesco, all’inizio, le appariva come un corpo estraneo. Ma in tre anni di governo a Palazzo Chigi, le distanze si sono accorciate. I contatti con il Vaticano si sono fatti frequenti e discreti. A fare da ponte tra i due mondi c’è Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, giurista, uomo di Chiesa e per molti l’interfaccia informale (e influente) tra la Santa Sede e il governo italiano. Una figura che conosce bene le gerarchie vaticane, i non detti, le attese. E che oggi, con un Papa defunto e un Conclave alle porte, lavora nell’ombra per portare a Santa Marta un successore più vicino alla sensibilità della premier.

                Non è solo un auspicio, è una strategia. Palazzo Chigi osserva con attenzione il gioco delle alleanze cardinalizie e, senza dare nell’occhio, tesse la sua trama. L’identikit del Papa ideale per Meloni è chiaro: un uomo solido nella dottrina, sobrio nei toni, distante dalle aperture bergogliane su migranti, omosessuali e nuovi modelli di famiglia. Uno come Giuseppe Betori, attuale arcivescovo di Firenze, già segretario generale della CEI ai tempi di Camillo Ruini. Un prelato che non ha mai nascosto la sua distanza da Francesco, soprattutto sul tema delle migrazioni, e che rappresenta agli occhi della destra italiana un punto di equilibrio tra fede, tradizione e rigore morale.

                Betori, tuttavia, non è l’unico nome sul taccuino di Mantovano. Il sottosegretario è stato presidente della fondazione pontificia “Aiuto alla Chiesa che Soffre” (ACS), una realtà molto apprezzata da Francesco ma profondamente radicata nelle istanze più tradizionaliste del cattolicesimo. La sua rete comprende figure come Mauro Piacenza e Angelo Bagnasco, non più elettori ma ancora molto influenti nei corridoi della Curia. La loro azione è silenziosa ma costante, e si muove sotto la regia del decano delle strategie cardinalizie italiane: Camillo Ruini.

                Meloni non prende posizione ufficialmente, ma se potesse parlare liberamente non farebbe mistero della preferenza per un pontefice che riporti ordine, chiarezza e autorevolezza in una Chiesa da lei percepita come smarrita nei meandri del dialogo a tutti i costi. Un Papa che recuperi il profilo battagliero di Wojtyla senza gli slanci populisti di Francesco. O almeno, nella peggiore delle ipotesi, un mediatore. Un uomo come Pietro Parolin, il Segretario di Stato, abile diplomatico, stimato da Francesco ma non identificabile come continuatore puro della sua linea. Una figura che a Palazzo Chigi appare rassicurante, affidabile, meno incline a sbandamenti teologici.

                Ciò che è certo è che a Giorgia Meloni il nome di Matteo Zuppi non piace. Il presidente della CEI, indicato da molti come l’erede più naturale del Papa defunto, è troppo sbilanciato a sinistra, troppo vicino a quel mondo che Meloni considera avversario politico. La battuta pronunciata entrando in Vaticano il 25 aprile – “Ricordiamoci della Liberazione” – è suonata come un messaggio. E non è passato inosservato.

                In questo clima di attese e manovre, il governo italiano gioca le sue carte. Senza clamore, ma con determinazione. Il prossimo Papa sarà scelto dai cardinali, ma molti occhi resteranno puntati anche su Roma. Quella dei palazzi del potere temporale, dove si sogna un Pontefice meno profeta e più sovrano.

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