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Benessere

La fobia di guidare: una paura moderna

La paura di guidare è dipendenza dall’auto, percezione del pericolo e della complessità delle automobili tecnologiche. Comprendere queste dinamiche può aiutare a sviluppare strategie efficaci per affrontare e superare l’amaxofobia, permettendo alle persone di riconquistare la loro indipendenza e mobilità.

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    La paura di guidare, o amaxofobia, è spesso considerata una paura moderna. Questa fobia può sembrare una peculiarità della nostra era, data l’importanza che l’automobile riveste nella società contemporanea. Ma cosa rende la paura di guidare una fobia dei tempi moderni?

    L’aumento della dipendenza dall’auto
    Negli ultimi decenni, l’automobile è diventata un elemento centrale della vita quotidiana. La dipendenza dall’auto per il lavoro, lo svago e la vita sociale è cresciuta esponenzialmente, specialmente in paesi dove i trasporti pubblici non sono ben sviluppati. Questa crescente dipendenza ha portato a una maggiore pressione sociale e personale per imparare a guidare e per farlo con sicurezza.

    Traffico e congestionamento
    Le strade moderne sono spesso affollate e congestionate. Gli ingorghi e il traffico intenso possono aumentare lo stress e l’ansia associati alla guida. Per chi soffre di amaxofobia, l’idea di trovarsi bloccati nel traffico o di dover gestire situazioni di guida complesse può essere estremamente intimidatoria.

    Incidenti stradali e percezione di pericolo
    L’aumento del numero di veicoli sulla strada ha portato a una crescita degli incidenti stradali. La copertura mediatica di incidenti gravi può amplificare la percezione del pericolo associato alla guida. Le notizie sugli incidenti possono contribuire a creare un senso di paura e insicurezza, alimentando la fobia di guidare.

    Sovraccarico di informazioni
    La tecnologia moderna ha reso le automobili più complesse. La presenza di numerosi dispositivi di sicurezza, sistemi di navigazione e altre tecnologie può risultare opprimente per alcuni conducenti. L’eccesso di informazioni da gestire durante la guida può aumentare lo stress e l’ansia, soprattutto per i nuovi guidatori.

    Isolamento sociale
    Paradossalmente, nonostante l’auto sia uno strumento di connessione sociale, la paura di guidare può portare a un maggiore isolamento. Chi soffre di amaxofobia può evitare di partecipare a eventi sociali o attività che richiedono spostamenti in auto, riducendo così le loro interazioni sociali e aumentando il senso di isolamento.

    La fobia di guidare, conosciuta anche come amaxofobia, è una paura intensa e irrazionale di mettersi al volante di un’auto. Questo disturbo, benché meno discusso rispetto ad altre fobie, colpisce molte persone e può avere un impatto significativo sulla vita quotidiana e sulla mobilità individuale.

    Come si manifesta la paura di mettersi al volante
    Le cause della fobia di guidare sono molteplici e variano da persona a persona. Alcuni sviluppano questa paura a seguito di un incidente stradale, mentre altri possono essere influenzati da esperienze traumatiche indirette, come aver assistito a un incidente o averne sentito parlare. Altri ancora possono sviluppare questa fobia senza un motivo apparente, forse a causa di una predisposizione genetica o di un disturbo d’ansia preesistente.

    I sintomi

    Ansia intensa al solo pensiero di guidare
    Attacchi di panico quando si è al volante

    Palpitazioni, sudorazione e tremori
    Difficoltà respiratorie o sensazione di soffocamento

    Evitamento di situazioni che richiedono la guida, come lunghi viaggi o percorsi sconosciuti.

    Impatto sulla vita quotidiana
    La fobia di guidare può limitare notevolmente l’indipendenza di una persona. Chi ne soffre può trovarsi costretto a dipendere dai mezzi pubblici, da familiari o amici per gli spostamenti quotidiani. Questo può influire negativamente sulla capacità di lavorare, soprattutto se il lavoro richiede viaggi frequenti o la guida stessa. Inoltre, la paura di guidare può limitare le attività sociali e ricreative, riducendo le opportunità di svago e interazione sociale.

    Come superare la paura del volante
    Affrontare la fobia di guidare richiede spesso un approccio multidisciplinare.
    Le terapie più comuni includono: identificano e modificano i pensieri negativi e irrazionali legati alla guida.

    Affrontare la paura in modo progressivo, iniziando con brevi e semplici percorsi e aumentando gradualmente la complessità.
    Esercizi di respirazione, meditazione e rilassamento muscolare possono ridurre l’ansia associata alla guida.

    Rieducazione e formazione alla guida con un istruttore
    Frequentare corsi di guida con istruttori qualificati può aumentare la fiducia al volante. Questi corsi spesso includono lezioni teoriche e pratiche che aiutano a migliorare le competenze di guida e a ridurre l’ansia. Inoltre, la conoscenza delle regole della strada e delle tecniche di sicurezza può fare molto per aumentare la sicurezza personale.

    Supporto Sociale
    Parlare della propria fobia con amici, familiari o gruppi di supporto può essere estremamente benefico. Condividere le proprie esperienze e ricevere incoraggiamento può ridurre il senso di isolamento e fornire una rete di supporto emotivo. Partecipare a gruppi di supporto per persone con fobie simili può anche offrire strategie pratiche e consigli utili.

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      Benessere

      Insonnia, l’alleato silenzioso: mindfulness e meditazione per addormentarsi meglio

      Gli studi mostrano che la meditazione riduce stress, ansia e iperattività mentale, tra le principali cause dei disturbi del sonno. Ecco come applicarla a casa con esercizi semplici e sicuri.

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      Insonnia, l’alleato silenzioso: mindfulness e meditazione per addormentarsi meglio

        Difficoltà ad addormentarsi, risvegli notturni, pensieri che corrono come un treno in piena notte: l’insonnia è un problema in aumento. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, quasi un terzo degli adulti sperimenta disturbi del sonno significativi almeno una volta nella vita. In Italia, le stime parlano di uno su cinque con insonnia cronica o ricorrente. A risentirne non è solo l’energia al mattino: dormire poco indebolisce memoria, umore, capacità di concentrazione e persino il sistema immunitario.

        Non sorprende, quindi, che si cerchino soluzioni non farmacologiche, soprattutto quando lo stress è il motore principale del problema. Tra queste, la mindfulness — una forma di meditazione basata sulla consapevolezza del momento presente — sta dimostrando efficacia clinica crescente. Studi pubblicati su riviste come JAMA Internal Medicine e Sleep hanno rilevato che programmi di Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR) migliorano la qualità del sonno in persone con insonnia lieve o moderata, riducendo i sintomi dell’ansia e diminuendo la latenza dell’addormentamento.

        Perché funziona

        Il meccanismo è semplice nella teoria, meno nella pratica: la mindfulness smonta l’iperattivazione mentale, la stessa che porta a girarsi nel letto per ore.
        Quando si medita, il sistema nervoso riduce l’attività della risposta “lotta o fuggi” e aumenta quella del sistema parasimpatico, collegato al rilassamento. Si abbassano i livelli di cortisolo e rallenta il flusso dei pensieri intrusivi, quelli che iniziano con “domani devo…”.

        Non si tratta di “spegnere” il cervello, ma di spostare l’attenzione: dal rimuginio al respiro, dalle preoccupazioni alle sensazioni del corpo, dal futuro al presente.

        Le tecniche da provare subito

        Ecco alcuni esercizi semplici da fare a casa, senza attrezzature e senza competenze particolari:

        1) Respirazione 4-4-6

        Indicata per rallentare il battito e sciogliere la tensione.

        • inspira dal naso per 4 secondi
        • trattieni l’aria 4 secondi
        • espira lentamente 6 secondi
          Ripetere 4-6 volte.

        2) Body scan

        Distesi, occhi chiusi: si passa mentalmente una “torcia” su ogni parte del corpo, dai piedi alla testa.
        Osserva tensioni e lascia andare senza giudizio.
        Utile per spegnere la ruminazione mentale.

        3) Mindfulness dei suoni

        Attenzione ai rumori circostanti: respiro, silenzio, rumore lontano.
        Accettarli invece di combatterli aiuta a ridurre la reattività allo stress.

        4) Il pensiero-ancora

        Quando arriva un pensiero molesto (“E se domani…?”), invece di inseguirlo:

        • riconoscilo
        • etichettalo: «Ecco un pensiero di preoccupazione»
        • torna al respiro
          È un metodo clinicamente validato per gestire l’ansia notturna.

        Quando praticarla

        La mindfulness non agisce come un interruttore immediato, ma come una palestra mentale: più si allena il cervello, più si abitua a rilassarsi. Bastano 10-15 minuti al giorno, meglio se la sera, in un rituale privo di schermi e luci forti.

        Consigli pratici:

        • Smartphone lontano dal letto
        • Luci calde e ambiente fresco
        • Niente notifiche o contenuti stimolanti prima di dormire
        • Routine regolare: stesso orario per addormentarsi e svegliarsi

        Una cura senza controindicazioni

        Mentre i farmaci per dormire possono generare dipendenza o tolleranza, la mindfulness non ha effetti collaterali rilevanti ed è raccomandata da specialisti del sonno come supporto alle terapie tradizionali. In molti casi, può essere il primo passo prima di ricorrere a cure farmacologiche.

        Quando il disturbo persiste per settimane, però, è importante chiedere aiuto a un medico o a uno specialista del sonno: insonnia, ansia e depressione sono strettamente correlate e non vanno sottovalutate.

        Dormire bene è un’abitudine

        Ascoltare il proprio corpo, imparare a fare spazio alla calma, riconoscere che spegnere il mondo esterno è possibile: sono piccoli gesti che, ripetuti ogni sera, trasformano il sonno da nemico a complice.

        L’insonnia non è una colpa né una condanna.
        È un segnale — e la consapevolezza può diventare la via per spegnerlo dolcemente.

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          Benessere

          Craving, il desiderio che accende il cervello: capire e gestire la spinta alla dipendenza

          Dalle sostanze ai comportamenti compulsivi, il craving è un bisogno improvviso e intenso che può riaccendere la dipendenza anche dopo anni di astinenza. Le neuroscienze spiegano perché nasce e come affrontarlo con strategie terapeutiche mirate.

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          Craving

            Un impulso che parte dal cervello

            In psicologia clinica, il termine craving indica un desiderio intenso, quasi irresistibile, di assumere una sostanza o di ripetere un comportamento che in passato ha generato piacere o sollievo. È un’esperienza comune nei disturbi da uso di sostanze — come alcol, nicotina, cocaina o oppiacei — ma anche nelle dipendenze comportamentali, come il gioco d’azzardo, il cibo o l’uso compulsivo di internet.

            A livello biologico, il craving è una risposta del cervello ai sistemi di ricompensa, governati da neurotrasmettitori come dopamina e serotonina. Queste sostanze chimiche regolano la motivazione, il piacere e la memoria emotiva: quando vengono alterate da un’esperienza di forte gratificazione, il cervello “impara” ad associare quella sensazione a un segnale di benessere immediato, creando una traccia difficile da cancellare.

            Perché si manifesta anche dopo molto tempo

            Uno degli aspetti più insidiosi del craving è la sua capacità di riemergere anche dopo anni di astinenza. Gli stimoli che lo innescano — un odore, una canzone, un luogo o un’emozione — riattivano la memoria della gratificazione passata. Gli esperti parlano di “memoria del piacere”, una sorta di scorciatoia che il cervello utilizza nei momenti di stress o vulnerabilità emotiva.

            Secondo il National Institute on Drug Abuse (NIDA), questa riattivazione può avvenire per via di cambiamenti duraturi nei circuiti neuronali, in particolare nell’amigdala e nella corteccia prefrontale, aree coinvolte nel controllo delle emozioni e nelle decisioni razionali.

            Il craving, dunque, non è un segno di debolezza o mancanza di volontà, ma una reazione fisiologica di adattamento. Comprenderlo in questa chiave è essenziale per ridurre il senso di colpa e favorire un approccio terapeutico più realistico e compassionevole.

            Come si affronta: strategie e terapie

            Gestire il craving richiede un lavoro su più livelli. Le tecniche cognitivo-comportamentali aiutano a riconoscere i pensieri automatici e a sostituirli con risposte più consapevoli. Il mindfulness training — ossia la consapevolezza del momento presente — si è dimostrato efficace nel ridurre l’intensità dell’impulso, così come l’esercizio fisico regolare, che stimola la produzione naturale di dopamina e endorfine.

            Ma da solo, il controllo mentale non basta. Nelle fasi iniziali dell’astinenza, è fondamentale il supporto di professionisti e di una rete terapeutica integrata, che includa psicologi, psichiatri e gruppi di sostegno. Gli interventi farmacologici — come quelli che modulano i recettori dopaminergici o serotoninergici — possono ridurre l’urgenza del desiderio e migliorare l’aderenza ai percorsi di disintossicazione.

            Dal controllo alla consapevolezza

            Superare il craving non significa eliminarlo del tutto, ma imparare a riconoscerlo e gestirlo. Gli specialisti dell’Istituto Europeo delle Dipendenze (IEuD) sottolineano che monitorare gli episodi, annotare i fattori scatenanti e parlarne apertamente aiuta a “ridurre il potere” dell’impulso. Con il tempo, la persona costruisce una nuova relazione con sé stessa e con le proprie emozioni, trasformando il bisogno in conoscenza di sé.

            La chiave, quindi, non è reprimere il desiderio, ma comprenderlo: solo così si può spezzare il legame tra impulso e azione. In questa prospettiva, la libertà non coincide con l’assenza di craving, ma con la capacità di scegliere consapevolmente come rispondere a esso.

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              Vitamina D senza lattosio: cosa mangiare quando l’organismo è in carenza

              Dai pesci grassi ai funghi trattati con luce UV, fino ai prodotti fortificati senza lattosio: le alternative esistono, ma non sostituiscono il ruolo chiave dell’esposizione solare e del parere medico.

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              Vitamina D senza lattosio

                La vitamina D non è soltanto un nutriente: è un vero regolatore dell’organismo. Contribuisce alla salute delle ossa favorendo l’assorbimento del calcio, sostiene il sistema immunitario e partecipa alla funzione muscolare. In Italia, secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, una quota significativa della popolazione presenta livelli inferiori a quelli raccomandati, soprattutto nei mesi invernali e tra gli anziani. Chi è intollerante al lattosio spesso teme di avere ancora meno fonti alimentari a disposizione, ma la realtà è meno limitante di quanto sembri.

                Il mare come principale risorsa

                I pesci ricchi di grassi restano la fonte alimentare più abbondante di vitamina D3, la forma maggiormente utilizzabile dal corpo umano. Salmone, sgombro, aringa e sardine ne contengono quantità significative: una porzione di salmone cotto può fornire tra i 10 e i 20 microgrammi, avvicinandosi al fabbisogno giornaliero per gli adulti (circa 15 microgrammi secondo i LARN italiani). Anche l’olio di fegato di merluzzo, se indicato da un professionista sanitario, è una fonte concentrata. Per chi non consuma pesce con regolarità, le alternative animali sono più modeste ma utili: il tuorlo d’uovo e il fegato apportano piccole quantità che possono sommarsi nella dieta settimanale.

                Funghi e luce: una combinazione efficace

                Spesso sottovalutati, i funghi rappresentano una delle poche fonti vegetali di vitamina D, soprattutto se esposti alla luce UV. L’irradiazione permette di aumentare il contenuto di vitamina D2, una forma meno potente rispetto alla D3 ma comunque utile. Alcune catene di distribuzione commercializzano funghi già trattati, indicandolo in etichetta. Consumati regolarmente, possono integrare la dieta di chi segue un’alimentazione senza lattosio o a base vegetale.

                Bevande vegetali e alimenti fortificati senza lattosio

                Il fatto di non tollerare il lattosio non impedisce di assumere vitamina D attraverso prodotti arricchiti. In commercio esistono latte delattosato e yogurt senza lattosio fortificati, così come bevande vegetali a base di soia, avena o mandorla arricchite con vitamina D e calcio. La fortificazione è regolata e consente di colmare una parte del fabbisogno, soprattutto per chi consuma questi prodotti quotidianamente. È importante, però, leggere le etichette: non tutte le alternative vegetali lo sono.

                Il ruolo del sole e quando chiedere aiuto

                Per quanto l’alimentazione sia utile, la principale fonte di vitamina D resta la sintesi cutanea: l’esposizione moderata al sole permette all’organismo di produrla in autonomia. Durante inverno, scarsa esposizione o in presenza di fattori di rischio (pelle molto scura, età avanzata, obesità, uso di creme schermanti costante), il medico può valutare un’integrazione. Gli esperti ricordano che assumere supplementi senza controllo può essere rischioso: la vitamina D è liposolubile e l’eccesso può dare effetti indesiderati.

                Chi è intollerante al lattosio non deve rinunciare alla prevenzione: pesce azzurro, uova, funghi trattati e alimenti fortificati offrono una base solida. La chiave resta l’equilibrio tra dieta, luce e monitoraggio clinico. Perché la vitamina D non è una moda alimentare, ma un tassello essenziale della salute di tutti.

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