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Sic transit gloria mundi

Nasce l’antidiplomazia: Trump bullizza Zelensky e umilia l’Occidente, mentre Putin ringrazia

La diplomazia muore in diretta, mentre l’Europa cerca di capire da che parte stare. Nel vergognoso agguato orchestrato a Washington, Trump accusa Zelensky di voler la guerra mentre lo spinge alla resa. L’America si sfila, Putin ringrazia e l’Europa resta sola. E mentre tutti i leader UE condannano lo scempio, Meloni tace.

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    La diplomazia nello Studio Ovale è morta. Assassinata in diretta globale da Donald Trump e J.D. Vance, in un agguato costruito con precisione chirurgica per umiliare Volodymyr Zelensky e servire su un piatto d’argento il futuro dell’Ucraina a Vladimir Putin. Uno spettacolo grottesco, un gioco al massacro travestito da incontro politico, una sceneggiatura degna del peggior reality show, dove l’unico obiettivo era screditare il presidente di un Paese in guerra e giustificare la ritirata strategica degli Stati Uniti.

    Zelensky era arrivato a Washington per negoziare. Voleva discutere di pace, territori, garanzie di sicurezza e, sì, anche di terre rare, perché nessun accordo di oggi può ignorare le risorse strategiche di domani. Ma invece di trovare interlocutori, ha trovato due banchieri d’asta pronti a svendere la sua nazione come se fosse un lotto fallimentare. L’incontro si è trasformato in un teatro macabro dove, con tecniche scenografiche da immobiliarista in bancarotta, Trump e Vance hanno costretto il leader ucraino a una resa simbolica, lanciando un messaggio inequivocabile a Putin: l’Ucraina è tua, fanne ciò che vuoi.

    L’errore di Zelensky? Essere venuto con le mani tese per discutere, mentre a Washington lo aspettavano con i coltelli affilati. La narrazione era già scritta: il presidente ucraino doveva essere ridicolizzato, messo all’angolo, trasformato in un ostacolo alla pace e dipinto come l’unico responsabile della guerra. Trump lo ha accusato di voler trascinare il mondo nella Terza Guerra Mondiale, mentre nei fatti è proprio questa leadership americana a spingere il pianeta verso il baratro, con una strategia che somiglia più alla fuga di un pugile suonato che alla costruzione di un nuovo ordine mondiale.

    L’umiliazione inflitta a Zelensky ha riportato alla memoria antichi scenari di dominio e sopraffazione. Tucidide, nel suo resoconto della Guerra del Peloponneso, descrisse il cinico colloquio tra Atene e l’isola di Melo, in cui il realismo politico si sbarazzava della giustizia per abbracciare la legge del più forte. E così Trump ha fatto con Zelensky, riducendo la guerra in Ucraina a una transazione da chiudere con il minor danno possibile per gli interessi americani, senza preoccuparsi minimamente della sorte di un popolo martoriato.

    Il piano è fin troppo chiaro: smettere di aiutare Kiev, indebolire Zelensky, delegittimarlo agli occhi del suo stesso popolo e, infine, offrirlo su un piatto d’argento a Putin. Trump lo aveva già insultato giorni fa, definendolo “un pessimo comico” e insinuando che fosse un presidente senza legittimità, perché ha rinviato le elezioni durante la guerra, come peraltro previsto dalla Costituzione ucraina. Un attacco non casuale, ma costruito per spianare la strada a una sua eventuale sostituzione, magari con una figura più gradita al Cremlino.

    Di fronte a questa trappola, Zelensky ha dimostrato una dignità che i suoi carnefici non sono stati capaci di scalfire. Ha tenuto la postura di un leader globale, mentre intorno a lui si recitava una farsa imbarazzante. Persino la scelta del suo abbigliamento è diventata un pretesto per attaccarlo, con un giornalista che lo ha provocatoriamente interrogato sul suo look militare, come se fosse quello il vero problema, e non le bombe che continuano a cadere su Kiev.

    Il messaggio inviato a Putin è stato chiaro: l’Ucraina è sola, fai pure. E il Cremlino ha accolto il segnale con entusiasmo, consapevole che questa Casa Bianca sta lavorando per accelerare la resa ucraina, mascherandola da trattativa di pace. Perché il piano è proprio questo: smettere di parlare di resistenza e cominciare a discutere di compromessi, che nella lingua di Mosca significano solo una cosa—resa senza condizioni.

    E l’Europa? Messa in un angolo, schiacciata tra la strategia trumpiana di disimpegno e l’iperattivismo russo, sta cercando disperatamente di rimanere in partita con incontri e negoziati bilaterali che sembrano sempre più vuoti. Le visite di Macron, Starmer e Scholz a Zelensky avevano cercato di dare un segnale di continuità, ma dopo il vergognoso attacco mediatico orchestrato da Trump, ogni discorso sembra vanificato.

    E mentre tutti i leader europei hanno condannato con fermezza questa messinscena, da Berlino a Madrid, da Parigi a Varsavia, l’Italia sembra essere scomparsa dal radar della geopolitica. Dov’è Giorgia Meloni? Con chi sta? Il suo silenzio rischia di essere assordante, perché questa volta non è solo una questione di politica estera, ma di identità.

    L’Europa può scegliere di restare a guardare, oppure può finalmente capire che il futuro del Vecchio Continente dipende dalla sua capacità di costruire una difesa autonoma e una politica estera indipendente. Non si può più vivere di riflesso, sperando che a Washington qualcuno si ricordi che esistiamo.

    Trump, con il suo bullismo da periferia dell’Impero, ha dimostrato che la Casa Bianca è ormai governata da una classe politica che guarda al passato, che sogna un ritorno agli equilibri dell’Ottocento, quando le grandi potenze si dividevano il mondo a tavolino. Un’America che non vuole più guidare l’Occidente, ma che preferisce ritirarsi lasciando spazio agli autocrati di Mosca e Pechino.

    E allora la domanda è: vogliamo davvero essere spettatori di questa tragedia? O è arrivato il momento di costruire un’Europa che sappia difendere se stessa e i propri valori, senza aspettare che qualcuno da oltreoceano ci dica cosa fare?

    Perché mentre Trump e Vance giocano con il futuro dell’Ucraina come se fosse una merce di scambio, in qualche cantina di Mariupol, tra le macerie di una città ridotta in cenere, un bambino aspetta che il mondo si ricordi di lui. E di tutti gli altri che non possono permettersi di perdere questa guerra.

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      Santa Rita De Crescenzo vergine e martire (del trash televisivo e dei suoi stessi followers)

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        Ogni epoca ha i suoi santi. Noi, che non ci facciamo mancare nulla, abbiamo Rita De Crescenzo: patrona delle punturine di acido ialuronico, del silicone spacciato per estetica e dei monologhi social che neppure alla recita dell’asilo. «Ho paura, basta odio, basta violenza mediatica», piagnucola oggi la tiktoker partenopea, appena il sindaco di Castel Volturno le ha cancellato uno show. Una Madonna del trash che si immola sull’altare della visibilità, con tanto di rosario fatto di stories Instagram.

        Il problema, però, non è lei. È la folla che l’applaude. Migliaia di followers che la venerano nonostante accuse di spaccio per conto del clan Elia, minacce a un deputato («Devo essere il tuo incubo, è arrivata l’ora che ti distrugga io»), video dove la cultura del nulla diventa linguaggio quotidiano. Santa Rita del degrado non canta, non balla, non recita. Non sa fare assolutamente niente, eppure è riuscita a trasformare l’ignoranza in un titolo di studio, il pressapochismo in curriculum, l’urlato in vangelo.

        La sua difesa? «Sono una donna, una madre, una persona come tutte le altre». Tutte le altre chi? Quelle che fanno dei filtri TikTok un manifesto politico? Quelle che credono che il talento consista nel mettersi una minigonna fluorescente e ripetere frasi sconnesse in diretta?

        Il miracolo è che funziona: più la criticano, più sale. Più le istituzioni le chiudono le porte, più diventa martire. È la beatificazione trash: non serve saper cantare, scrivere, pensare. Serve piangere davanti a una telecamera, gonfiare le labbra fino a sembrare canotti e agitare le mani in aria come se fossero ali d’angelo caduto.

        Chi la segue, in fondo, non cerca un’artista. Cerca un’icona dell’idiozia elevata a forma d’arte, un simbolo che rassicura: “se ce l’ha fatta lei, posso farcela anch’io”. E infatti ce l’ha fatta. A diventare il monumento vivente di un Paese che si inchina al nulla e lo incorona.

        Meritiamo l’estinzione? Sicuramente. Ma tranquilli: prima dell’apocalisse ci sarà la sua prossima diretta online di Santa Rita, e sarà sold out.

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          Sic transit gloria mundi

          Caso Epstein, Melania Trump pronta a chiedere oltre un miliardo a Hunter Biden: “Accuse false e diffamatorie”

          Melania Trump ha minacciato una causa miliardaria contro Hunter Biden per aver dichiarato che sarebbe stato Epstein a presentarla al marito. Intanto i democratici puntano il dito sul trasferimento di Ghislaine Maxwell in un carcere meno severo.

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            Melania Trump è passata al contrattacco. La first lady americana ha annunciato l’intenzione di fare causa a Hunter Biden, chiedendo un risarcimento da oltre un miliardo di dollari, dopo che il figlio del presidente ha affermato che sarebbe stato Jeffrey Epstein – il finanziere condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minori – a presentarla a quello che poi sarebbe diventato suo marito. Una ricostruzione definita dai legali di Melania “falsa, denigratoria, diffamatoria e provocatoria”.

            Le dichiarazioni di Biden risalgono a un’intervista di inizio mese, in cui aveva ripercorso i rapporti tra il presidente e il miliardario pedofilo, sottolineando vecchie frequentazioni poi interrotte “agli inizi degli anni Duemila”, come lo stesso Trump ha sempre sostenuto.

            Ma la vicenda non si ferma qui. I democratici della Commissione Giustizia della Camera hanno sollevato un polverone sul trasferimento di Ghislaine Maxwell – ex compagna e complice di Epstein – in un carcere federale del Texas con regime meno restrittivo. La donna, condannata a 20 anni, era detenuta a Tallahassee, in Florida, ma è stata spostata subito dopo un incontro con il vice procuratore generale Todd Blanche.

            Secondo il deputato Jamie Raskin, leader dei democratici in Commissione, il trasferimento “offre maggiore libertà ai detenuti” e “prima di questo caso era categoricamente vietato per chi fosse condannato per molestie sessuali”. In una lettera al procuratore generale Pam Bondi e al direttore del Bureau of Prisons William K. Marshall, Raskin parla di “preoccupazioni sostanziali” su possibili pressioni per indurre Maxwell a fornire una testimonianza favorevole al presidente, “violando le stesse politiche federali”.

            Un’accusa che, in un contesto già incandescente, riaccende i riflettori sul nodo più imbarazzante per la Casa Bianca: i rapporti passati tra il presidente e Jeffrey Epstein.

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              Il Senato salva Sangiuliano dal processo per la “chiave di Pompei”: 112 voti bastano a fermare l’accusa di peculato

              Il caso ruotava attorno al simbolico omaggio di Pompei finito in un regalo privato. La Giunta per le immunità ha riconosciuto l’atto come compiuto nell’interesse pubblico e non come reato ordinario. I legali dell’ex ministro ricordano che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che la chiave era stata acquistata e pagata, diventando sua proprietà.

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                Palazzo Madama ha fatto scudo all’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, bloccando il processo per peculato che rischiava di aprirsi attorno alla “chiave d’onore” di Pompei. Con 112 voti favorevoli e 57 contrari, l’aula del Senato ha respinto l’autorizzazione a procedere, accogliendo la linea della Giunta per le immunità: il gesto di donare la chiave a Maria Rosaria Boccia non costituirebbe reato ordinario, ma un atto riconducibile all’esercizio della funzione di governo e al perseguimento di un interesse pubblico preminente.

                La vicenda aveva incuriosito l’opinione pubblica nei mesi scorsi, trasformandosi in un caso mediatico: la chiave, simbolo del legame con la città archeologica, era stata regalata dall’ex ministro a una conoscente, scatenando polemiche e sospetti di appropriazione indebita. I difensori di Sangiuliano hanno sempre sostenuto la piena legittimità dell’operazione, ricordando che la Procura aveva già chiesto l’archiviazione e che, tramite la procedura prevista dalla legge, l’ex ministro aveva acquistato e pagato l’oggetto, diventandone il proprietario a tutti gli effetti.

                Il voto in aula è arrivato dopo una giornata di interventi accesi, tra ironie e schermaglie politiche. Il leghista Gian Marco Centinaio ha scherzato in diretta: «Lasciamo i colleghi nella suspense… Sim Salabim!», strappando un sorriso in un dibattito altrimenti teso.

                Non solo Sangiuliano: nella stessa seduta, Palazzo Madama ha affrontato altre questioni di immunità parlamentare. Maurizio Gasparri ha incassato il via libera dell’aula sulla sua insindacabilità per le frasi rivolte al magistrato Luca Tescaroli nel 2023, giudicate collegate ad atti parlamentari come interrogazioni e interventi in aula. A favore hanno votato 117 senatori, mentre 23 – tra M5s e Avs – hanno detto no.

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