Sic transit gloria mundi
Il kitsch bussa alla nostra porta? La politica tra farsa, tragedia e spettacolo
Dalla motosega di Musk al ballo di Trump con i Village People, fino ai saluti romani di Bannon: il kitsch come linguaggio del potere

La politica si è trasformata in un reality show? Il professore Vincenzo Susca lo sostiene senza mezzi termini: oggi la cifra estetica della tecnocrazia è il kitsch più sfolgorante, logoro e osceno, una spettacolarizzazione becera e giocosa del male in politica. Dalla motosega di Javier Milei ai saluti romani di Steve Bannon, passando per l’ennesima danza goffa di Donald Trump sulle note di YMCA, tutto sembra rispondere a una regola non scritta: poco importano i programmi politici, le questioni morali o i calcoli economici, ciò che conta è evocare nel modo più brutale possibile la morte del sistema.
Lo spettacolo del potere: tra kitsch e provocazione
Basterebbe un rapido sguardo all’ultima edizione della CPAC (Conservative Political Action Conference) per cogliere il messaggio. Steve Bannon, ex stratega di Trump, chiude il suo intervento con un saluto romano, accolto dagli applausi del pubblico. Sul palco, Elon Musk si presenta brandendo una motosega, chiaro riferimento all’iconografia aggressiva del suo nuovo alleato Javier Milei, presidente argentino noto per le sue scenette iperboliche. Poco lontano, Donald Trump balla con i Village People sulle note di YMCA, un pezzo che ironicamente è diventato l’inno della sua campagna, sebbene sia nato come un manifesto della cultura queer.
Ma non è tutto: alla parata organizzata a Washington in onore di Trump, Musk torna a far parlare di sé con un gesto inequivocabile, un saluto romano davanti alla folla del Capitol One Arena. Un semplice fraintendimento? O un chiaro segnale lanciato alla parte più estremista del suo elettorato?
Il nuovo immaginario della destra: tra vichinghi, barbari e meme
Nell’era dei social, la politica non si fa più con i discorsi o i programmi, ma con le immagini. Lo dimostra il fatto che l’ex presidente degli Stati Uniti abbia concesso l’amnistia alle 1500 persone che, mascherate da vichinghi, incappucciate e armate, hanno assaltato Capitol Hill il 6 gennaio 2021. Scene da apocalisse, che però rientrano perfettamente nel nuovo linguaggio della destra populista: il ribaltamento delle istituzioni come grande atto spettacolare, la distruzione dell’ordine democratico come esibizione teatrale.
Il nuovo elettorato della destra non è più mosso dall’ideologia, ma dal desiderio di assistere al crollo del sistema che l’ha ingannato. La ragione non è più un’arma politica efficace: nel vuoto lasciato dai partiti tradizionali, il pubblico si rifugia nel grottesco, nei simboli del caos e nelle icone del disordine.
La politica come carnevale
A dare ancora più forza a questa nuova estetica del potere ci pensa la cultura pop. Un caso? No, un messaggio chiaro: la politica è diventata un circo, un’arena dove a vincere non è chi propone idee migliori, ma chi offre lo spettacolo più eccessivo.
Non è un caso che nella cultura politica di questa nuova destra spuntino continuamente riferimenti a barbari, pistoleri, serial killer, zombie e delinquenti. L’immaginario è quello della catastrofe imminente, della civiltà al collasso e dell’uomo forte che arriva a rimettere ordine. Un’estetica che non a caso trova risonanza tra i bianchi delle classi medie, impauriti dalla perdita dei loro privilegi e pronti a rifugiarsi nella nostalgia per un’America che non esiste più.
Il kitsch come arma politica
Il cappellino MAGA (Make America Great Again) di Musk sfoggiato nello Studio Ovale della Casa Bianca, la foto segnaletica di Trump scattata nel carcere della contea di Fulton e trasformata in gadget, le magliette con slogan da meme: tutto questo non è casuale. La nuova destra ha capito che la politica oggi si vince sull’immaginario. Le campagne elettorali non si basano più su programmi e idee, ma sulla creazione di simboli potenti e riconoscibili, anche a costo di sfociare nel ridicolo.
Ma c’è di più: secondo Hermann Broch, il kitsch è l’Anticristo nell’arte, ovvero “il male nel sistema della bellezza”. Applicato alla politica, diventa la versione oscena del potere, una caricatura che più è eccessiva, più funziona. Non è un caso che le nuove destre puntino su immagini grottesche, su una spettacolarizzazione del brutto, del pacchiano, del volgare.
La fine del kitsch? Forse no
La domanda che sorge spontanea è: fino a quando funzionerà? Il kitsch politico ha un problema: divora sé stesso. Vive di eccessi, di immagini sempre più forti, di provocazioni sempre più grandi. Ma proprio per questo rischia di bruciarsi in fretta. Trump, Meloni, Musk, Milei e gli altri protagonisti di questa nuova estetica del potere sanno che il tempo gioca contro di loro.
Eppure, nel frattempo, la loro strategia sembra funzionare. Se oggi la politica è uno show, allora vince chi ha la sceneggiatura più folle, chi riesce a tenere il pubblico incollato allo schermo, chi trasforma la realtà in una fiction senza fine.
Ma la vera domanda è un’altra: chi sarà il prossimo a raccogliere il testimone? E soprattutto, cosa succederà quando il pubblico si stuferà di questo spettacolo senza limiti?
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Sic transit gloria mundi
Da Sanremo al Circo Massimo, passando per Springsteen: il vero tour dell’estate è quello di Elly Schlein
La segretaria del Pd beccata a San Siro con la compagna Paola Belloni per il concerto di Springsteen. Applausi, selfie (mai pubblicati) e un messaggio chiaro: Elly è ovunque, tranne che dove dovrebbe esserci. E cioè, sul fronte dell’opposizione.

Mentre la destra impone l’agenda e il Paese affoga tra crisi economiche, follie trumpiane e guerra internazionali, Elly Schlein canta “Born to Run” sotto il palco di Bruce Springsteen, abbracciata alla sua compagna Paola Belloni. Una serata da “coppia dem rock” come la chiamano i fan, tra le star di Hollywood e i soliti influencer italiani. Solo che lei non è un’influencer. O non dovrebbe esserlo.
La segretaria del Pd è stata avvistata a San Siro mentre si godeva tre ore di rock e sudore con il “Boss”, circondata da Gigi Hadid, Bradley Cooper e Olivia Wilde. Con lei, la sua compagna storica, Paola Belloni, che a fine serata ha condiviso su Instagram un post pieno di entusiasmo: «Bruce ha cantato, ballato, urlato per tre ore. Steve, operato da quattro giorni, ha suonato con lui. Io, 36 anni, sto abbracciata al Voltaren perché ero sottopalco».
Ecco, forse è lì il problema: sottopalco. Sempre lì. Perché Schlein sembra vivere ormai perennemente in una tournée parallela. Dopo i duetti con Annalisa al Pride, il freestyle con J-Ax, il karaoke sanremese, le cover dei Cranberries alla Festa dell’Unità e i video da fangirl per Brunori, il suo Pd sembra più un fan club che un partito d’opposizione.
Che Schlein sia appassionata di musica è noto. Suona la chitarra, si diverte, ha gusti indie e mainstream. Ma c’è chi, tra i suoi stessi elettori, comincia a chiedersi se abbia ben chiaro che la politica non è una scaletta da concerto. La sua compagna chiede rispetto per la privacy — giustamente — ma Elly sotto i riflettori ci si piazza con entusiasmo. Tranne quelli del Parlamento.
Nel frattempo, Fratelli d’Italia avanza, Maloni governa, e l’opposizione viene affidata a una “story” su Instagram o a una pagella social post-Sanremo. I fan saranno anche felici. Gli elettori un po’ meno. Perché se la Schlein non capisce che la sua missione non è ballare coi Boss, ma suonarle alla destra, allora qualcuno dovrebbe suggerirle che forse è arrivato il momento di cambiare palco.
Sic transit gloria mundi
Non plus ultras: condannato l’ex bodyguard di Fedez
Christian Rosiello, vicino alla Curva Sud e per anni guardia del corpo del rapper, finisce nei guai con altri ultrà storici di Milan e Inter

A San Siro, si diceva, le curve comandano. E infatti, per anni, i veri padroni dello stadio sono stati loro: gli ultras della Sud rossonera e della Nord nerazzurra. Ma ora la giustizia presenta il conto. E il conto è salato.
Christian Rosiello, ultrà milanista ed ex bodyguard di Fedez (che non risulta indagato), è stato condannato a quattro anni e venti giorni di reclusione per associazione a delinquere, nel secondo processo abbreviato legato alla maxi inchiesta su estorsioni, traffici illeciti e gestione violenta delle curve dello stadio Meazza.
Con lui, sono finiti condannati anche Francesco Lucci, fratello del più noto Luca Lucci (ex leader della Curva Sud, già condannato), che si è preso 5 anni e 6 mesi, e Riccardo Bonissi, condannato a 3 anni e 8 mesi.
Il verdetto è arrivato dalla sesta sezione penale del Tribunale di Milano, che ha accolto le richieste della Procura dopo un’indagine durata mesi, condotta dalla Digos e dalla Guardia di Finanza. Al centro del fascicolo: un sistema capillare di potere nelle curve, tra minacce ai club, bagarinaggio, vendita abusiva di merchandising e uso sistematico della violenza.
Le nuove condanne arrivano a pochi giorni da quelle inflitte ai vertici storici della tifoseria: Luca Lucci e Andrea Beretta, quest’ultimo ex capo della curva interista, entrambi condannati a 10 anni di carcere.
Il nome di Rosiello, figura nota nell’ambiente milanese anche per essere stato per un periodo nella scorta personale di Fedez, è uno dei più visibili fra quelli emersi nell’inchiesta. Per gli inquirenti, avrebbe avuto un ruolo attivo nell’organizzazione criminale che controllava la Curva Sud.
Un sistema, quello delle curve milanesi, che ora si scopre marcio ben oltre i cori da stadio.
Sic transit gloria mundi
Il Papa venuto dal futuro: perché Leone XIV ha già fatto la rivoluzione
Meno proclami, più strategia. Il nuovo Papa non urla, ma agisce: ricompone le fratture interne, cambia il linguaggio, riporta ordine e introduce un modello di leadership a lungo termine. Con un dettaglio non trascurabile: ha iniziato a rivoluzionare tutto… restando apparentemente fermo

Non ha alzato la voce, non ha fatto gesti eclatanti, non ha rovesciato nulla. Eppure Leone XIV ha già fatto la rivoluzione. La sua, a ben vedere, è una delle più subdole ed eleganti operazioni di riforma degli ultimi anni: un cambiamento interno, sottile, profondo, silenzioso. Una rivoluzione nella forma che trasformerà la sostanza.
Il pontificato del primo Papa americano (e peruviano) della storia si annuncia come una fase di transizione, certo, ma anche come un ritorno a una forma più “classica” di conduzione della Chiesa. Senza rinnegare Francesco, ne ha assorbito l’eredità su pace, giustizia sociale e dialogo con i poveri. Ma lo ha fatto spogliandola del pathos sudamericano e della forza mediatica del predecessore. Dove Francesco camminava tra la folla, Prevost resta sullo sfondo. Dove Francesco abbracciava, Leone XIV osserva e media. Ma, attenzione, non è affatto debolezza: è consapevolezza.
Quella che stiamo vedendo non è una virata a destra o a sinistra – categorie che nel mondo ecclesiastico valgono quanto un righello nel mare aperto – ma un aggiustamento di rotta per navigare attraverso acque sempre più torbide: lo scontro tra “correnti” interne alla Curia, la pressione delle opinioni pubbliche globali, la crisi vocazionale e identitaria del clero, la secolarizzazione inarrestabile in Europa e il radicalismo emergente in altre aree del mondo. Tutto questo, Prevost ha deciso di affrontarlo con un’arma che nella Chiesa ha sempre funzionato: il tempo.
Perché è il tempo la vera novità di questo pontificato. Dopo tre papi anziani, l’elezione di un pontefice giovane cambia l’intero scenario: non serve più pensare a soluzioni tampone o a gestioni ordinarie, ma a progetti di lungo corso. Il nuovo Papa può permettersi di ragionare come un costruttore di cattedrali, non come un amministratore in scadenza di mandato.
La sua età è una risorsa politica e strategica, soprattutto in un contesto globale dove i leader sono spesso anziani, stanchi, logorati. Prevost, al contrario, ha tempo e visione. Può permettersi di iniziare ora un’opera di ricucitura interna, di pacificazione tra le varie anime della Chiesa, di ricentratura sul Vangelo come bussola spirituale e geopolitica. Il tutto senza bisogno di proclami roboanti, che a lungo andare stancano.
Il cambio di stile si nota subito anche nella comunicazione. Meno storytelling, più sobrietà. Niente frasi fatte, niente retorica. Il nuovo Papa parla per sottrazione. Non accarezza i media, non cavalca i social. Al massimo li attraversa con passo lento. Eppure, ogni parola è pesata, meditata, calibrata per durare. Come quella con cui ha aperto il suo pontificato: «La pace sia con voi. Una pace disarmata e disarmante, umile e perseverante». Una frase che sembra una carezza, ma che contiene un’architettura spirituale e diplomatica potentissima.
Perché la pace, per Leone XIV, non è solo un auspicio ma un programma. È l’unico ponte possibile tra la Chiesa e il mondo lacerato che la circonda. È anche il punto di continuità più evidente con Papa Francesco: il rifiuto di ogni logica di guerra, la critica al riarmo europeo, l’attenzione ai popoli martoriati da conflitti dimenticati. Ma lo fa con un tono che è tutto suo: meno appelli pubblici, più diplomazia silenziosa.
E se c’è una rivoluzione che Leone XIV ha già messo in atto, è proprio questa: riportare la Chiesa a un ruolo di regia silenziosa, capace di parlare ai potenti con il linguaggio dei secoli, non con i post su X. Capace di tenere il timone dritto, anche quando le onde sono alte e la nave cigola. E soprattutto, capace di non cedere alla tentazione di farsi partito o fazione.
La tentazione, oggi più che mai, sarebbe forte: usare la visibilità globale del papato per occupare spazi politici, influenzare agende, dirigere voti. Ma Prevost non ci casca. Forse perché sa bene che, nella lunga storia della Chiesa, le vere rivoluzioni non le ha fatte chi urlava più forte, ma chi sapeva aspettare.
Leone XIV ha cominciato il suo pontificato con pochi gesti e molte omissioni. Ma proprio in quelle omissioni, nella scelta di non forzare, di non dividere, di non provocare, si sta già costruendo un nuovo modo di essere Papa. Più difficile da raccontare, forse. Ma potenzialmente molto più potente.
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