Sic transit gloria mundi
Papa Francesco ricoverato, ma sui social la salute dell’informazione è ormai terminale
L’ondata di fake news sulla malattia di Bergoglio è l’ennesima dimostrazione che i social non sono più uno strumento di informazione, ma un circo senza regole dove l’unico obiettivo è attirare click.

L’ultimo ricovero di Papa Francesco non è solo una notizia di rilievo, ma anche un termometro perfetto per misurare il livello di affidabilità (o meglio, di disastro) dell’informazione online. Mentre il Pontefice affrontava le cure al Policlinico Gemelli, sulle piattaforme social si scatenava l’ennesima tempesta di disinformazione. Un’orgia di speculazioni, teorie del complotto e fake news che hanno trasformato la malattia di Bergoglio in un evento da spettacolo trash, con tanto di falsi scoop, meme e assalti ospedalieri in diretta.
Lo scenario che emerge da un’analisi condotta da Cyabra in collaborazione con Kite Group è desolante: tra il 3 e il 10 marzo, su X e TikTok si sono registrati 4.598 post e commenti, prodotti da oltre 3.600 profili, di cui 31% chiaramente falsi. Questi ultimi hanno diffuso contenuti completamente inventati, trasformando un ricovero in un funerale virtuale, con tanto di interrogativi deliranti: “Il Papa è morto?”, “Ci stanno nascondendo qualcosa?”, “Bergoglio è già sostituito da un sosia?”.
Certo, il morbo della disinformazione non è una novità. Ma quello che sta accadendo ormai sistematicamente sui social network va oltre la semplice diffusione di notizie infondate. È una degenerazione culturale, un trionfo dell’assurdo, una patologica dipendenza dalla viralità che ha sostituito ogni forma di verifica giornalistica.
Il Papa non è morto, ma l’informazione online sì
Il 41,6% dei post analizzati nello studio di Cyabra aveva un tono chiaramente negativo, il 15,8% positivo, mentre il restante 42,6% risultava neutro. Un dato che, preso così, potrebbe sembrare persino rassicurante, se non fosse che all’interno di quel 41,6% di negatività si annidano speculazioni, deliri paranoici e attacchi feroci contro il Papa stesso.
Il dibattito online si è sviluppato intorno a tre temi principali:
- Le speculazioni sulla morte di Bergoglio, alimentate da post che rilanciavano continuamente il dubbio che il Papa fosse già morto e che il Vaticano stesse insabbiando la notizia.
- Le teorie del complotto sulla sua malattia, con fantasie che spaziavano dall’avvelenamento da parte di cardinali tradizionalisti fino all’ipotesi di una morte inscenata per favorire la successione.
- Il dileggio dei bollettini ufficiali vaticani, con una parte del pubblico social pronta a smontare ogni comunicazione ufficiale come se fosse una menzogna di Stato.
E in mezzo a tutto questo, c’erano i fenomeni da baraccone, personaggi che i social hanno trasformato in opinionisti dell’assurdo: Bombolino, Ottavo, influencer improvvisati che sono arrivati a farsi riprendere mentre tentavano di intrufolarsi all’ospedale, convinti di poter smascherare chissà quale complotto ecclesiastico. Il tutto con un pubblico affamato di like pronto a esaltarli come eroi della verità alternativa.
L’impero delle fake news e la fabbrica dell’idiozia
Ciò che fa davvero paura in tutto questo caos non è tanto la diffusione delle fake news – che ormai hanno invaso la nostra epoca come una peste digitale – ma la totale perdita di fiducia nel concetto stesso di verità.
Un tempo, davanti a una notizia di rilievo, la reazione più naturale era leggere un giornale, accendere la TV, cercare fonti affidabili. Oggi, invece, il primo riflesso è andare su TikTok, scorrere X (ex Twitter) e cercare la versione più estrema, assurda e virale della storia. Non importa quanto sia improbabile, quanto sia infondata: se attira attenzione, allora deve contenere una verità nascosta.
Non è più importante sapere cosa sia successo realmente: conta solo la narrazione più emozionante, quella che genera più interazioni.
Così, nel giro di poche ore, Papa Francesco diventa protagonista di una sceneggiatura assurda, in cui c’è chi lo dichiara morto, chi lo vede sostituito da un clone e chi giura di avere prove inconfutabili (ovviamente mai mostrate).
E non si tratta solo di un effetto collaterale della velocità del web. È un vero e proprio business. Piattaforme come TikTok e X non hanno alcun interesse a fermare queste ondate di disinformazione, perché ogni post delirante genera traffico, commenti, interazioni. Più assurdo è il contenuto, più alto è l’engagement.
Social network: da strumenti di comunicazione a circhi dell’assurdo
Il problema non è solo legato ai bot e ai profili fake – che, certo, contribuiscono a gonfiare il fenomeno – ma al fatto che ormai anche utenti reali preferiscono la versione più fantasiosa di una storia alla realtà.
Chiunque osi smentire la follia collettiva viene accusato di essere parte del sistema, complice del complotto, servo del potere. I giornalisti sono bugiardi, il Vaticano è un covo di cospiratori, solo i TikToker sanno la verità.
In questo clima, le parole non contano più, i fatti nemmeno. Conta solo la percezione, e questa percezione è costruita su algoritmi che premiano il sensazionalismo più sfrenato.
Conclusione: il malato non è il Papa, ma l’informazione
Papa Francesco, a 87 anni, lotta con i suoi acciacchi, ma almeno può contare su medici reali e cure concrete. L’informazione digitale, invece, è ormai senza speranza.
I social network non sono più strumenti di conoscenza, ma macchine perfette per fabbricare caos e ignoranza. La malattia è terminale e l’unica cura – ammesso che esista – è tornare a fidarsi delle fonti verificate, dei giornalisti seri, della realtà basata sui fatti.
Ma in un mondo dove le notizie sono diventate spettacolo e i complottisti superstar, la domanda è: siamo ancora in
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Il Papa venuto dal futuro: perché Leone XIV ha già fatto la rivoluzione
Meno proclami, più strategia. Il nuovo Papa non urla, ma agisce: ricompone le fratture interne, cambia il linguaggio, riporta ordine e introduce un modello di leadership a lungo termine. Con un dettaglio non trascurabile: ha iniziato a rivoluzionare tutto… restando apparentemente fermo

Non ha alzato la voce, non ha fatto gesti eclatanti, non ha rovesciato nulla. Eppure Leone XIV ha già fatto la rivoluzione. La sua, a ben vedere, è una delle più subdole ed eleganti operazioni di riforma degli ultimi anni: un cambiamento interno, sottile, profondo, silenzioso. Una rivoluzione nella forma che trasformerà la sostanza.
Il pontificato del primo Papa americano (e peruviano) della storia si annuncia come una fase di transizione, certo, ma anche come un ritorno a una forma più “classica” di conduzione della Chiesa. Senza rinnegare Francesco, ne ha assorbito l’eredità su pace, giustizia sociale e dialogo con i poveri. Ma lo ha fatto spogliandola del pathos sudamericano e della forza mediatica del predecessore. Dove Francesco camminava tra la folla, Prevost resta sullo sfondo. Dove Francesco abbracciava, Leone XIV osserva e media. Ma, attenzione, non è affatto debolezza: è consapevolezza.
Quella che stiamo vedendo non è una virata a destra o a sinistra – categorie che nel mondo ecclesiastico valgono quanto un righello nel mare aperto – ma un aggiustamento di rotta per navigare attraverso acque sempre più torbide: lo scontro tra “correnti” interne alla Curia, la pressione delle opinioni pubbliche globali, la crisi vocazionale e identitaria del clero, la secolarizzazione inarrestabile in Europa e il radicalismo emergente in altre aree del mondo. Tutto questo, Prevost ha deciso di affrontarlo con un’arma che nella Chiesa ha sempre funzionato: il tempo.
Perché è il tempo la vera novità di questo pontificato. Dopo tre papi anziani, l’elezione di un pontefice giovane cambia l’intero scenario: non serve più pensare a soluzioni tampone o a gestioni ordinarie, ma a progetti di lungo corso. Il nuovo Papa può permettersi di ragionare come un costruttore di cattedrali, non come un amministratore in scadenza di mandato.
La sua età è una risorsa politica e strategica, soprattutto in un contesto globale dove i leader sono spesso anziani, stanchi, logorati. Prevost, al contrario, ha tempo e visione. Può permettersi di iniziare ora un’opera di ricucitura interna, di pacificazione tra le varie anime della Chiesa, di ricentratura sul Vangelo come bussola spirituale e geopolitica. Il tutto senza bisogno di proclami roboanti, che a lungo andare stancano.
Il cambio di stile si nota subito anche nella comunicazione. Meno storytelling, più sobrietà. Niente frasi fatte, niente retorica. Il nuovo Papa parla per sottrazione. Non accarezza i media, non cavalca i social. Al massimo li attraversa con passo lento. Eppure, ogni parola è pesata, meditata, calibrata per durare. Come quella con cui ha aperto il suo pontificato: «La pace sia con voi. Una pace disarmata e disarmante, umile e perseverante». Una frase che sembra una carezza, ma che contiene un’architettura spirituale e diplomatica potentissima.
Perché la pace, per Leone XIV, non è solo un auspicio ma un programma. È l’unico ponte possibile tra la Chiesa e il mondo lacerato che la circonda. È anche il punto di continuità più evidente con Papa Francesco: il rifiuto di ogni logica di guerra, la critica al riarmo europeo, l’attenzione ai popoli martoriati da conflitti dimenticati. Ma lo fa con un tono che è tutto suo: meno appelli pubblici, più diplomazia silenziosa.
E se c’è una rivoluzione che Leone XIV ha già messo in atto, è proprio questa: riportare la Chiesa a un ruolo di regia silenziosa, capace di parlare ai potenti con il linguaggio dei secoli, non con i post su X. Capace di tenere il timone dritto, anche quando le onde sono alte e la nave cigola. E soprattutto, capace di non cedere alla tentazione di farsi partito o fazione.
La tentazione, oggi più che mai, sarebbe forte: usare la visibilità globale del papato per occupare spazi politici, influenzare agende, dirigere voti. Ma Prevost non ci casca. Forse perché sa bene che, nella lunga storia della Chiesa, le vere rivoluzioni non le ha fatte chi urlava più forte, ma chi sapeva aspettare.
Leone XIV ha cominciato il suo pontificato con pochi gesti e molte omissioni. Ma proprio in quelle omissioni, nella scelta di non forzare, di non dividere, di non provocare, si sta già costruendo un nuovo modo di essere Papa. Più difficile da raccontare, forse. Ma potenzialmente molto più potente.
Sic transit gloria mundi
Tutti a parlare di pace, ma a Istanbul ci va solo Zelensky: Putin e Trump mandano i camerieri
Blaterano di tregua, ma si tengono alla larga. L’ucraino ci mette la faccia, gli altri due solo arroganza e deleghe

Alla fine la montagna, come da copione, partorirà il solito, patetico topolino diplomatico. Mancano meno di 48 ore al vertice di Istanbul, il primo vero incontro negoziale tra Russia e Ucraina da tre anni a questa parte, e l’unico dei tre leader che ha il coraggio (e la decenza) di presentarsi è Volodymyr Zelensky. Gli altri due, Donald Trump e Vladimir Putin, blaterano di pace, parlano a raffica di “cessate il fuoco” e “soluzioni”, ma poi si defilano. E mandano i sottoposti.
Zelensky, almeno, ci mette la faccia. “Vengo io, ovunque serva, basta che Putin si presenti”, ha detto con la consueta schiettezza. Vuole incontrare il leader russo vis-a-vis, e glielo ripete ormai da giorni. Ma da Mosca il solito silenzio nebbioso: né conferme né smentite. Il portavoce Peskov balbetta frasi vaghe, mentre le solite fonti “bene informate” annunciano che a Istanbul, al posto dello zar, ci sarà il ministro degli Esteri Sergej Lavrov. Insomma, la Russia c’è, ma con il pilota automatico.
Trump non è da meno. Dopo aver accennato a una possibile partecipazione in prima persona, ieri da Riad ha annunciato che a rappresentarlo sarà il segretario di Stato Marco Rubio. Una mossa utile giusto a mantenere il nome nei titoli dei giornali, ma che sa tanto di “mandate avanti gli altri”. Eppure, Trump trova il modo di commentare: “Mi aspetto buoni risultati”. Certo. Magari dal divano.
Intanto, Zelensky continua a picchiare sul punto: “Putin non vuole la pace. Se non viene a Istanbul, vuol dire che non ha alcuna intenzione di fermare la guerra”. E chiede nuove sanzioni, ancora più pesanti, se il leader del Cremlino dovesse rimanere nella sua dacia a rimuginare. La risposta di Putin? Il solito sarcasmo velenoso: “Chi ci sanziona fa il male della Russia… e anche il proprio”. Un disco rotto che ormai non convince più nessuno, se non la corte di falchi di cui si circonda.
Per non farsi mancare nulla, Mosca ribadisce anche le condizioni: la “denazificazione dell’Ucraina” e l’eliminazione delle “cause profonde” della guerra. Tradotto: il solito bla bla per non cedere su nulla. E tutto mentre l’Occidente guarda, commenta, e incrocia le dita.
Dalla parte di Kiev, il braccio destro di Zelensky, Andrei Yermak, è netto: “Se Putin non si presenta, sarà la prova definitiva che la Russia non vuole trattare”. E se invece arrivasse, Kiev è pronta anche a rivedere il decreto che vieta ufficialmente il dialogo con lui. Ma serve un segnale, e non arriverà.
A sperare ancora ci prova la Germania. Il ministro degli Esteri Johann Wadephul prova a mettere pressione: “La Russia non dovrebbe lasciare una sedia vuota. Ma se viene, deve essere davvero interessata alla pace”. Non a giocare a Risiko geopolitico.
Morale: tutti parlano di pace, ma poi si tengono ben lontani dal tavolo. L’unico a rischiare in prima persona è Zelensky. Gli altri? Troppo impegnati a farsi belli davanti alle telecamere, o a manovrare nell’ombra. Ma almeno, risparmiateci la retorica.
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Il cardinale malato che non c’è: veleni da conclave, Parolin nel mirino dei corvi
La smentita della Santa Sede è arrivata puntuale, ma il danno è fatto: l’indiscrezione sul presunto malore di Pietro Parolin sembra avere tutto il sapore di una manovra per affondare la candidatura del Segretario di Stato.

Niente malore, niente infermieri, niente camici bianchi sfreccianti nei corridoi vaticani. Solo una fake news ben confezionata, diffusa a colpo sicuro nel giorno giusto, e rimbalzata sul web come una miccia accesa tra le panche della Congregazione generale. Il bersaglio? Il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato della Santa Sede, considerato tra i nomi più forti in vista del Conclave del 7 maggio. L’obiettivo? Farlo apparire fragile, inaffidabile, fisicamente non all’altezza. E così, quando in serata la smentita ufficiale del Vaticano ha bollato tutto come “priva di fondamento”, il sospetto è diventato certezza: questa non è cronaca, è strategia.
Il primo a lanciare il siluro è stato CatholicVote.org, sito americano notoriamente vicino all’ala più conservatrice del cattolicesimo Usa. Da lì, l’indiscrezione ha fatto il giro dei social, degli ambienti ultracattolici, delle chat dei vescovi più intransigenti. Tutto secondo copione. Parolin, va detto, è l’uomo che più incarna il volto istituzionale e pragmatico della Chiesa. È stato il custode dell’equilibrio bergogliano, ma senza mai diventarne megafono. Troppo diplomatico per i tradizionalisti a stelle e strisce, troppo “moderato” per i teologi della sinodalità a tutti i costi. Il capro espiatorio perfetto.
Classe 1955, originario di Schiavon, in provincia di Vicenza, Pietro Parolin entra in seminario a 14 anni, resta orfano di padre a dieci, studia alla Pontificia Accademia Ecclesiastica e inizia la sua carriera diplomatica in Africa, poi in Messico e Venezuela. Parla correntemente sei lingue, conosce a memoria gli equilibri tra Santa Sede e Cina, ha tenuto i contatti con regimi impresentabili senza mai sporcarsi le mani. Un uomo di equilibrio, ma anche di potere. Ed è qui che scattano le gelosie.
Alcuni, in queste ore, leggono gli attacchi come una rappresaglia per il ruolo giocato da Parolin nella definitiva estromissione di Angelo Becciu dal Conclave. Fu lui, secondo fonti curiali, a mostrare in aula le lettere siglate da Francesco — quando era ancora ricoverato — in cui si confermava la decisione irrevocabile di escludere Becciu. Una mossa che qualcuno ha vissuto come uno sgarbo personale e istituzionale. Il resto lo fa il veleno, mai assente nelle sagrestie romane, soprattutto in tempo di elezione.
Eppure, nel caos di queste giornate, Parolin continua a non sbilanciarsi. Esce dalle Congregazioni in silenzio, entra tra i primi, esce tra gli ultimi. Sa che ogni parola potrebbe diventare un boomerang. Ma intanto resta uno dei candidati più solidi: ha esperienza, reti internazionali, capacità di mediazione, credibilità tra i cardinali che non vogliono uno strappo netto ma neppure un clone di Francesco. E se i progressisti dovessero capire che nessuno dei loro riuscirà a superare il quorum, potrebbero anche convergere su di lui.
Resta però un’incognita: quanto il fango lanciato in questi giorni avrà davvero lasciato traccia? I 129 cardinali elettori non si lasciano condizionare facilmente, ma il dubbio insinuato — la crepa, per quanto smentita — può bastare a spostare voti decisivi, soprattutto se si arrivasse a una battaglia lunga e fatta di ballottaggi sotterranei.
Intanto, Parolin guarda e attende. Come il diplomatico che è, non rincorre le smentite. E come il prete che è stato — figlio di una maestra, cresciuto all’oratorio — sa che ogni attacco è anche una prova. A pochi giorni dalla prima votazione, le manovre si fanno più esplicite e le trappole più insidiose. Ma c’è un dettaglio che chi diffonde bufale dovrebbe ricordare: la porpora non è impermeabile al fango. Ma non lo è nemmeno la memoria della Chiesa. E in Sistina, ogni passo falso — anche uno solo — può costare il trono… pardon, il soglio!
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