Connect with us

Sic transit gloria mundi

Quando i tecnomiliardari vogliono dettare legge: Musk, il tweet contro i giudici italiani e il pericolo per la democrazia

Sempre più influenti e convinti di essere al di sopra dei governi, i magnati della tecnologia come Musk si arrogano il diritto di intervenire nelle questioni giudiziarie di stati sovrani. Dalla magistratura alla politica, le reazioni in Italia e l’allarme per l’arroganza di chi si crede padrone del mondo.

Avatar photo

Pubblicato

il

    Elon Musk e l’arroganza dei tecnomiliardari: sempre più spesso – complice anche la vicinanza con Trump, che lo ha eletto a “genio” della sua vittoria elettorale – il patron di Tesla e SpaceX si arroga il diritto di entrare in questioni politiche e giudiziarie ben lontane dalle sue competenze. E dopo i balletti ai comizi Maga e le telefonate a quattro occhi con The Donald e Volodymyr Zelensky per discutere la possibile fine della guerra in Ucraina, Musk entra ora a gamba tesa nel complicato rapporto tra Governo e giudici.

    E lo fa con la sicurezza di chi si considera al di sopra delle istituzioni, lanciandosi in giudizi che suonano più come ordini che opinioni. Il recente intervento di Musk contro la giustizia italiana non fa eccezione: il suo tweet rivolto ai giudici di Roma – «questi giudici se ne devono andare» – ha acceso un dibattito senza precedenti, tra chi intravede in queste parole una minaccia concreta per l’autonomia dei paesi e chi, più semplicemente, le considera un atto di palese arroganza.

    Questa non è una semplice presa di posizione. La provocazione di Musk ha suscitato reazioni durissime proprio perché porta alla luce un problema che va ben oltre il caso italiano: cosa accade quando questi neo-ricchi, dal potere economico praticamente illimitato, iniziano a ergersi a giudici e sovrani? Il caso Musk pone una questione che tocca la democrazia stessa: se le decisioni giuridiche e politiche degli stati possono essere condizionate da magnati dell’industria tecnologica, chi garantirà l’indipendenza e la sopravvivenza delle istituzioni democratiche?

    La risposta italiana alle parole di Musk è stata rapida e decisa, un messaggio forte lanciato a chiunque creda di poter influenzare il sistema giudiziario del Paese senza subirne le conseguenze. Le dichiarazioni di Laura Boldrini non lasciano spazio a dubbi: “A che titolo Elon Musk pensa di poter dire cosa devono o non devono fare i giudici italiani? Cosa gli dà il diritto di interferire con un potere indipendente di uno stato sovrano che non è neanche il suo?” Un’interrogazione più che legittima: con quale autorità Musk si erge a commentatore giudiziario di un paese straniero, accusando i giudici di aver “sbagliato”?

    Il deputato Angelo Bonelli di Alleanza Verdi e Sinistra ha rincarato la dose, chiedendo l’intervento della premier Giorgia Meloni: «Un’ingerenza inaccettabile e un problema serio per la democrazia». Non è solo l’opposizione, però, a reagire. Anche figure della maggioranza hanno sentito il bisogno di dissociarsi dall’atteggiamento di Musk. Maurizio Lupi, presidente di Noi Moderati, ha definito l’intervento del magnate «inopportuno», aggiungendo che «addirittura dall’estero, alimenta uno scontro con la magistratura che il Centrodestra non vuole».

    Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera e deputato di Fratelli d’Italia, ha invece risposto in modo deciso alle insinuazioni di Musk: «Ringraziamo Elon Musk ma non siamo come la sinistra, che sbava per amplificare a livello internazionale le criticità italiane ridicolizzando la nazione. Siamo attrezzati per difenderci da soli». Le parole di Rampelli sembrano chiarire una linea di demarcazione netta tra chi sostiene l’autonomia delle istituzioni italiane e chi non perde occasione per appoggiarsi alle esternazioni dei “colleghi” sovranisti d’oltreoceano.

    Nel quadro di questa bufera politica, si inserisce senza sorpresa il chiaro sostegno di Matteo Salvini a Musk. Il leader della Lega, da sempre vicino al trumpismo e a chi sostiene una visione politica basata sul potere individuale dei magnati, ha commentato in inglese che «Musk ha ragione», aggiungendo che «il 20 dicembre potrei ricevere una condanna a sei anni di prigione per aver bloccato gli sbarchi di clandestini in Italia quando ero ministro dell’Interno».

    Insomma, un’occasione ghiotta per rivendicare quel pizzico di vittimismo che ormai non può più mancare, con il leader della Lega che sembra voler rafforzare il messaggio di Musk, unendosi al coro di chi accusa il sistema giudiziario di operare contro gli interessi della “sicurezza” nazionale e presentandosi come capro espiatorio dei magistrati cattivi e comunisti che ce l’avrebbero con lui.

    Ma la questione va oltre il caso italiano. Sempre più spesso, questi tecnomiliardari, ormai onnipresenti, si spingono oltre, commentando, influenzando e criticando decisioni prese da governi e istituzioni democratiche, ignorando i confini e i principi di sovranità nazionale. Con la sicurezza di chi controlla industrie multimiliardarie e governa un impero, Musk e altri potenti della Silicon Valley si comportano come nuovi sovrani, oltre ogni confine e al di fuori di ogni controllo democratico. Quando le dichiarazioni di uno di questi uomini iniziano a essere recepite come ordini, è il momento di chiedersi: chi protegge le istituzioni da un’influenza che le corrode dall’interno?

    Questa vicenda svela un’ambiguità nelle relazioni tra Musk e Giorgia Meloni, che ha più volte definito il magnate «un valore aggiunto» e «una persona con cui confrontarsi». Tuttavia, con questo intervento pesante, anche la premier italiana si trova a dover riflettere sulle implicazioni di tale “amicizia”. Se da un lato un appoggio di Musk può apparire come un trofeo, dall’altro rischia di minare l’autonomia e la credibilità, trasmettendo l’immagine di un governo che accetta di subire l’influenza di un tecnomiliardario.

    Il caso Musk in Italia è solo l’ultima manifestazione di una tendenza globale, ma in Europa la risposta è chiara: il futuro delle democrazie è minacciato da una nuova classe di potenti senza confini, ma il sistema ha già iniziato a tracciare i suoi limiti, rispondendo con fermezza a chi pensa di poter “comprare” il mondo. La questione non riguarda solo Musk e i giudici italiani: occorre dimostrare che, di fronte all’influenza dei tecnomiliardari, la sovranità nazionale resta inviolabile e che le decisioni politiche non sono materia per oligarchi digitali.

    Se i magnati della tecnologia pensano di poter orientare la politica mondiale, minacciando i principi democratici su cui si fondano i diritti dei cittadini, è arrivato il momento di tracciare una linea chiara. La vicenda di Elon Musk e il suo intervento sui migranti è solo l’ennesima conferma di come gli “oligarchi digitali” vedano sé stessi come figure incontestabili, pronte a imporre la propria visione. Ma in Europa, la risposta è forte: la democrazia non si piega di fronte ai bitcoin.

      SEGUICI SU INSTAGRAM
      INSTAGRAM.COM/LACITYMAG

      Sic transit gloria mundi

      Selfie col Papa morto. Scusate, ma non meritiamo nemmeno l’Apocalisse

      Non bastavano le dirette, i microfoni puntati ai passanti, le lacrime prefabbricate davanti alla Basilica. Adesso c’è anche la fila per il selfie col cadavere. Non per un saluto, non per pregare. Ma per “condividere l’esperienza” come se fosse un brunch con vista cupola. Ché se non lo posti, non è morto nessuno.

      Avatar photo

      Pubblicato

      il

      Autore

        Un cadavere al centro della scena. Un corpo santo, riverito, amato, che ha guidato la Chiesa per oltre un decennio. E attorno, come mosche sul sacrario, si muove un’umanità deformata, irreversibilmente corrotta dal culto dell’apparenza. Altro che pellegrinaggio. Altro che raccoglimento. È la sagra del selfie post mortem.

        Il Papa è morto, viva il contenuto. Si entra in Basilica non per fede, ma per feed. Si sfila davanti alla salma di Francesco come in un’attrazione macabra da Luna Park liturgico, con decine di telefonini spianati, schermi accesi, occhi lucidi non per commozione ma per la saturazione dello schermo. Un addetto ogni metro bisbiglia “no foto, no video”, come un mantra disperato. Nessuno lo ascolta.

        Ci sono ragazze in posa con la boccuccia da duck face, signore che si immortalano col fazzoletto all’occhio, padri che riprendono i figli davanti al feretro come se fosse la giostra dei cavallini. C’è chi azzarda uno zoom, chi aggiusta la luce, chi chiede a un passante di scattare meglio. Come se dietro non ci fosse un Pontefice, ma una statua di cera da Madame Tussauds.

        È questo il nuovo culto: il cordoglio condiviso in stories da 15 secondi, magari con sottofondo musicale. “Ciao Francesco, mi mancherai 😢🙏” – emoji, filtro seppia, hashtag #PapaForever. Una preghiera non detta, ma taggata.

        Intorno, i microfoni delle tv infilano il naso ovunque, cacciando frasi da trafiletto e lacrime usa e getta. “Cosa significava per lei Papa Francesco?” chiede una giornalista con lo stesso tono con cui a Riccione ti domandano “Che crema prendi sul cono?”. La risposta è sempre uguale: “Un padre, un faro, un vuoto incolmabile”. Come se il dolore avesse un copione.

        Nel frattempo, chi ha superato il cordone delle troupe diventa a sua volta reporter di sé stesso. Impugna il telefono, si gira verso la camera, e immortala il momento più sacro e intimo di tutta la liturgia cristiana con la naturalezza di un ragazzino al concerto di Ultimo.

        E allora via alla processione di immagini: la salma, lo sfondo, il volto commosso ma ben inquadrato. Si fotografa il lutto, si monetizza l’assenza. Si incornicia la morte per mostrare che c’eravamo, che anche noi abbiamo visto, scattato, condiviso. Un’ostensione di narcisismo planetario, con la scusa della fede.

        Questo non è il funerale di un Papa. È il reality della nostra fine culturale. Il rogo dell’intimità, il tracollo del senso, l’ultima unzione del buon gusto. Non siamo più nemmeno capaci di tacere davanti a un morto, figuriamoci se possiamo capire cosa sia il sacro. La sola liturgia che conosciamo è quella del pollice sullo schermo.

        Davvero: che razza di umanità siamo diventati, se ci sentiamo in diritto di fare la gallery anche col pontefice defunto alle spalle? Dove pensiamo di arrivare con la nostra smania di esserci, anche nel lutto, anche nel dolore, anche davanti alla morte?

        Forse non ci meritiamo nemmeno l’Apocalisse. Forse meritiamo solo noi stessi. Con i nostri filtri, i nostri telefoni, i nostri selfie davanti all’Altissimo. Letteralmente.

          Continua a leggere

          Sic transit gloria mundi

          Editoriale: Caro Vance, Dio non costruisce muri

          Dal pranzo con Meloni ai riti di Pasqua, JD Vance si presenta come il volto nuovo del conservatorismo Usa. Ma sotto la superficie devota resta il marchio di un populismo aggressivo che inneggia alla chiusura e alla discriminazione.

          Avatar photo

          Pubblicato

          il

          Autore

            Caro vicepresidente Vance,
            le abbiamo viste le foto con San Pietro sullo sfondo, le frasi a effetto sullo “spirito umano che si innalza” e il sorriso soddisfatto immortalato tra un rigatone alla gallinella di mare e un selfie davanti a Castel Sant’Angelo.
            Abbiamo letto anche i suoi tweet carichi di devozione e ammirazione per Roma, “costruita da persone che amavano Dio e l’umanità”.
            Belle parole, davvero. Peccato che suonino tremendamente vuote, dette da chi nella pratica politica costruisce muri, non ponti.

            Perché vede, signor Vance, Dio — almeno quello predicato da quella Chiesa che lei tanto cita — non si è mai occupato di respingere disperati né di sospettare dei diversi.
            Dio non ha chiesto ai suoi fedeli di barricarsi dietro una cultura monolitica, né di temere la libertà di pensiero.
            Dio, nella narrazione evangelica, accoglie, non divide.
            Un concetto semplice, che però sembra essersi perso nei meandri della sua agenda politica.

            Mentre in Italia ammiccava sorridente a Giorgia Meloni e riceveva l’applauso dei nostri vicepremier Salvini e Tajani, negli Stati Uniti lei porta avanti una visione del mondo che sa di epoche che credevamo sepolte:

            • Libertà di parola sì, ma solo per chi la pensa come lei.
            • Famiglia tradizionale sì, ma senza spazi per chi vive diversamente.
            • Occidente da salvare sì, ma difendendolo con la paura e la chiusura.

            Lei si presenta come il paladino dei valori cristiani, ma si scaglia contro l’immigrazione, contro i diritti delle minoranze, contro la cultura del rispetto.
            In nome di che cosa? Di un’idea di “ordine naturale” che sembra più vicina al darwinismo sociale che alla carità cristiana.

            Non sfugge a nessuno, poi, il tempismo perfetto della sua visita romana: Pasqua, San Pietro, riti solenni.
            E magari, chissà, un incontro con il Papa, se le agende lo permetteranno.
            Un Papa che, ogni volta che apre bocca, sembra predicare esattamente il contrario di quello che lei incarna: apertura, accoglienza, dialogo, misericordia.

            Le sue parole, caro Vance, parlano di Dio.
            Ma i suoi atti parlano di paura.
            Le sue foto raccontano una fede plastificata, da social network, che nulla ha a che vedere con l’amore per il prossimo.
            Quel prossimo che, nei suoi discorsi, è sempre una minaccia da respingere, mai un fratello da abbracciare.

            La verità, signor vicepresidente, è che non basta camminare in Vaticano per essere cristiani.
            Non basta commuoversi davanti a una basilica per redimersi da un’agenda politica costruita sull’esclusione e sull’odio mascherato da valori.

            Forse, la prossima volta che visiterà Roma, dovrebbe fermarsi davvero un momento.
            E magari ricordarsi che, in quella città che tanto ammira, la parola “cattolico” significa “universale”.
            Non “nostro”, non “di chi ce lo merita”, non “di chi rientra nei nostri parametri”.
            Universale.

            E Dio, per fortuna, resta di tutti.
            Anche di quelli che lei vorrebbe lasciare fuori dalle sue mura immaginarie.

            Buon viaggio di ritorno, Mr. Vance.
            E se trova il tempo, magari, provi anche a costruire qualche ponte vero.
            Ne abbiamo tutti un disperato bisogno.

              Continua a leggere

              Sic transit gloria mundi

              Trump ribattezza Giorgia Meloni: “Georgia”, come lo Stato. Altro che alleanza speciale

              Meloni vola alla Casa Bianca sognando l’asse sovranista, ma finisce archiviata da Trump come “Georgia”. Un errore? O il solito modo di umiliare gli interlocutori senza nemmeno sforzarsi di ricordare come si chiamano?

              Avatar photo

              Pubblicato

              il

              Autore

                Tanto entusiasmo, tante strette di mano, tanti sorrisi. E alla fine, Giorgia Meloni è diventata… Georgia.
                Donald Trump, fedele alla sua tradizione di finezza diplomatica, ha deciso di archiviare così l’incontro alla Casa Bianca: un post euforico su Truth in cui ribattezza la premier italiana con il nome di uno Stato americano. Una nuova perla per il tycoon, che dopo “Giuseppi” Conte firma un’altra memorabile gaffe da album.

                «La premier Georgia Meloni ama il suo Paese. FANTASTICA!!!», scrive Trump, regalando alla storia la nuova caricatura di un rapporto che avrebbe dovuto sancire l’alleanza tra due campioni del sovranismo mondiale.
                Ma che, a ben vedere, si è risolta come sempre in una scrollata di spalle americana: grazie del viaggio, cara, e ora vai a sistemarti nella collezione di “cosi” che ho incontrato.

                Il paragone è inevitabile. Quando non ti ricordi il nome dell’amico del bar, lo chiami “coso”. Quando Trump non si ricorda (o non si sforza di ricordare) il nome di un capo di governo, lo ribattezza a piacere. E la leggerezza con cui liquida i suoi interlocutori non è mai casuale: è un modo per ribadire, senza troppi complimenti, chi conta davvero e chi invece no.

                Giorgia, pardon, Georgia, si è presentata piena di buone intenzioni: dialogo transatlantico, negoziati sui dazi, mediazione con l’Unione europea. Peccato che, agli occhi di Trump, il suo destino si sia compiuto in cinque secondi netti: sorrisi, foto di rito, complimenti generici («una persona molto speciale»), e infine l’assegnazione del nuovo nome da battaglia.
                Un destino comune a tutti quelli che orbitano, più o meno inconsapevoli, nell’universo egocentrico del tycoon.

                E se Giuseppe Conte ha pagato “Giuseppi” con anni di scherni e meme, prepariamoci: “Georgia Meloni” diventerà il tormentone perfetto per gli avversari politici, i social, e magari anche per qualche editorialista poco incline all’ossequio.

                Il più grande paradosso? Giorgia Meloni era partita per Washington con il sogno di essere riconosciuta come interlocutrice privilegiata della nuova destra americana. È tornata a casa con un nome nuovo, e nemmeno troppo originale.
                Difficile costruire un asse sovranista quando il tuo presunto alleato non ti riconosce nemmeno al momento di taggare il post celebrativo.

                Nel frattempo, Trump — che della politica internazionale ha la stessa visione con cui si sceglie il menù di un fast food — continua a inanellare lapsus che sono in realtà piccoli atti di dominio. Se ti chiamo con il nome sbagliato, dice implicitamente, non sei poi così importante.

                E allora, che la premier italiana si chiami Giorgia, Georgia o semplicemente “coso”, poco importa: l’importante è aver fatto la foto, aver raccolto gli applausi dei sostenitori e aver confermato, ancora una volta, che tra Washington e Roma la distanza non è solo geografica.
                È anche — e soprattutto — gerarchica.

                  Continua a leggere
                  Advertisement

                  Ultime notizie

                  Lacitymag.it - Tutti i colori della cronaca | DIEMMECOM® Società Editoriale Srl P. IVA 01737800795 R.O.C. 4049 – Reg. Trib MI n.61 del 17.04.2024 | Direttore responsabile: Luca Arnaù