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Cronaca Nera

Caso Sharon Verzeni: sul coltello dell’omicidio nessuna traccia di sangue, ma il giudizio immediato per Sangare è vicino

Nonostante l’assenza di tracce di sangue sul coltello usato per uccidere Sharon Verzeni, Moussa Sangare potrebbe affrontare un giudizio immediato grazie alla sua confessione e a ulteriori prove. Il dettaglio inatteso emerso dai Ris apre però domande inquietanti su un caso che ha scosso la comunità.

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    Un dettaglio sorprendente scuote l’inchiesta sull’omicidio di Sharon Verzeni: sul coltello indicato come arma del delitto da Moussa Sangare, reo confesso, non è stata rinvenuta alcuna traccia di sangue della vittima. Questo particolare, emerso dalle analisi dei Ris e riportato dal Corriere della Sera, solleva interrogativi, ma non impedirà alla Procura di procedere con il caso. Infatti, le autorità giudiziarie, convinte della colpevolezza del 33enne, sono pronte a richiedere il giudizio immediato.

    L’omicidio di Sharon Verzeni: ricostruzione e prove

    La sera del 30 luglio, Sharon Verzeni, 33 anni, viene accoltellata mentre si appresta a fare una camminata serale a Terno d’Isola, in provincia di Bergamo. Estetista e impiegata in un bar, Sharon viveva con il compagno, Sergio Ruocco, che era rimasto addormentato a casa quella notte. La giovane donna non ha mai fatto ritorno, vittima di un’aggressione brutale che le ha tolto la vita con tre coltellate. La perdita ha lasciato un vuoto profondo: Ruocco, colpito dal lutto, ha lasciato la casa condivisa con Sharon e vive dai suoi suoceri a Bottanuco, segnato dalla tragedia.

    Il mistero dell’assenza del Dna

    L’arma, nascosta vicino al fiume Adda, non ha conservato tracce del sangue di Sharon. Secondo gli esperti, il terreno umido potrebbe aver cancellato i residui ematici, complicando l’analisi genetica. Questo dettaglio ricorda il caso di Yara Gambirasio, nel quale erano stati utilizzati test su vasta scala per rintracciare il colpevole, una pista che qui si è però rivelata non praticabile. In questo caso, il Dna non è stato determinante, ma la confessione di Sangare e le prove tecnologiche raccolte sembrano più che sufficienti.

    Un giudizio immediato per chiudere il caso

    Grazie alla confessione di Sangare e agli indizi raccolti tramite telecamere e analisi dei telefoni, il pubblico ministero Emanuele Marchisio punta a un rapido processo, senza ulteriori indagini. L’assenza di tracce ematiche non mette quindi in dubbio la colpevolezza del sospettato, ma aggiunge un tassello inquietante a una vicenda già carica di dolore e rabbia.

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      Mostro di Firenze, nuova svolta nelle indagini: richiesta di una seconda autopsia su Stefania Pettini

      A cinquant’anni dal delitto, i legali delle vittime insistono per un’autopsia bis su Stefania Pettini, sperando di trovare tracce biologiche del Mostro di Firenze. Le famiglie delle vittime sono divise, mentre si apre un altro capitolo nella richiesta di revisione del processo sul delitto di Scopeti.

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        Alla vigilia del cinquantesimo anniversario del tragico omicidio di Stefania Pettini e del suo fidanzato Pasquale Gentilcore, avvenuto nel settembre 1974, una nuova svolta nelle indagini sul Mostro di Firenze scuote ancora una volta la serenità dei familiari delle vittime. L’avvocato Vieri Adriani, rappresentante dei familiari delle vittime francesi uccise nel 1985 a Scopeti, sta preparando un’importante mossa legale: chiede infatti al sindaco di Borgo San Lorenzo di non trasferire i resti di Stefania, come previsto alla scadenza del termine dei cinquant’anni, al fine di permettere un’eventuale seconda autopsia.

        Individuato un DNA?

        Questa richiesta arriva dopo la consulenza dell’ematologo Lorenzo Iovino, il quale sostiene di aver individuato una sequenza di DNA sconosciuto impressa su un’ogiva esplosa durante il delitto di Scopeti, che potrebbe essere collegata anche ad altri due duplici omicidi. Adriani intende presentare questa scoperta all’autorità giudiziaria, accompagnata da una formale richiesta di esame autoptico. L’obiettivo è chiaro: trovare tracce biologiche che possano far luce sull’identità del misterioso assassino, noto come il Mostro di Firenze.

        Aveva solo 18 anni

        Stefania Pettini, appena 18enne al momento della sua morte, fu brutalmente uccisa insieme a Pasquale, 19 anni, in località Rabatta, nel comune di Borgo San Lorenzo. Il Mostro colpì Pasquale con cinque colpi di pistola e poi si accanì su Stefania con una pioggia di fendenti, infliggendole un destino crudele che ha lasciato cicatrici indelebili nei cuori dei suoi familiari. Il suo corpo, oltraggiato con un tralcio di vite, fu sepolto in un loculo offerto dal Comune come gesto di solidarietà.

        Nonostante il passare del tempo, il dramma di Stefania continua a tormentare i suoi cari. Una delle cugine ha recentemente espresso il suo consenso per un’eventuale seconda autopsia, ma non tutte le parenti condividono questa opinione. Anche tra i familiari di Jean Michel, ucciso a Scopeti nel 1985, ci sono divisioni: Adriani aveva suggerito la riesumazione del corpo per ulteriori indagini, ma l’opposizione di uno dei tre fratelli ha fatto cadere questa ipotesi, a meno di una rogatoria internazionale che appare complessa.

        Nel frattempo, un altro capitolo di questo giallo senza fine si apre con la richiesta di revisione del processo sul delitto di Scopeti. Gli avvocati del nipote di Mario Vanni, uno dei presunti “compagni di merende”, intendono presentare nuovi elementi, basati su un esperimento che suggerisce che l’omicidio potrebbe essere avvenuto prima dell’8 settembre 1985, contraddicendo la testimonianza di Giancarlo Lotti. Questo ulteriore sviluppo getta ancora più ombre su un caso che continua a tenere con il fiato sospeso non solo i familiari delle vittime, ma anche un’intera nazione.

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          Massimo Bossetti, una battaglia infinita: la difesa insiste sui reperti del caso Yara mentre lui si ricostruisce una vita in carcere

          Dal DNA trovato sul corpo di Yara Gambirasio alla vita dietro le sbarre, la vicenda giudiziaria di Massimo Bossetti continua a far discutere. La difesa punta tutto su nuovi esami, ma per ora la verità giudiziaria resta immutata

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            Il caso Yara Gambirasio, conclusosi nel 2018 con la condanna definitiva di Massimo Bossetti all’ergastolo, sembra non trovare pace. Gli avvocati del carpentiere di Mapello continuano a muoversi con determinazione per aprire spiragli di revisione del processo, puntando questa volta sull’accesso ai reperti custoditi all’Istituto di Medicina Legale di Milano e in altri luoghi.

            La richiesta è chiara: verificare quali campioni siano ancora disponibili e in che condizioni si trovino. Per la difesa, il DNA prelevato dal tassello femorale e dagli indumenti di Yara potrebbe contenere la chiave per ribaltare una verità giudiziaria che Bossetti ha sempre contestato.

            Un responso è atteso per l’udienza fissata il prossimo 13 gennaio.

            Il tribunale di Bergamo ha dato tempo fino al 15 dicembre agli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini per produrre i verbali di sequestro relativi ai reperti. Solo dopo aver esaminato questi documenti, la Corte deciderà se accogliere o meno la richiesta, e un responso è atteso per l’udienza fissata il prossimo 13 gennaio.

            La situazione potrebbe cambiare

            L’avvocato Salvagni ha ribadito: «Vogliamo capire quali reperti sono utilizzabili. Se le analisi aggiuntive confermeranno i risultati, ne prenderemo atto; ma se emergessero nuovi elementi, la situazione potrebbe cambiare».

            Parallelamente alla battaglia legale, Bossetti conduce una vita intensa nel carcere di Bollate, dove è detenuto dal 2019 dopo essere stato trasferito dalla struttura di Bergamo. Qui è diventato uno dei protagonisti del Progetto 2121, una partnership tra pubblico e privato che punta al reinserimento lavorativo dei detenuti attraverso la formazione professionale.

            Bossetti lavora in carcere

            Dopo aver lavorato come tecnico rigeneratore di macchine per caffè espresso, Bossetti è stato assunto dalla Coimec, un’azienda specializzata in coibentazioni termoacustiche che opera all’interno del carcere.

            Oltre al lavoro, la quotidianità del detenuto è arricchita dalla partecipazione a concorsi di cucina, gare letterarie e progetti artistici. Secondo le sue stesse dichiarazioni, ogni attività è un modo per rendere il tempo più costruttivo e per continuare a sostenere economicamente la sua famiglia. Ma questa nuova routine non cancella il peso del passato.

            La moglie di Bossetti, Marita Comi, e i tre figli continuano a vivere un’esistenza segnata dalla vicenda giudiziaria. Nonostante la condanna definitiva, Marita non ha mai smesso di credere nell’innocenza del marito. A dar voce alla sua sofferenza è il fratello Agostino, che ha raccontato: «Mia sorella cerca di andare avanti, ma sa che la sua vita non tornerà mai normale. Quel fatto ha cambiato tutto».

            Intanto, la famiglia Gambirasio osserva con compostezza gli sviluppi legali. Il ricordo di Yara, 13enne trovata senza vita in un campo a Chignolo d’Isola, resta una ferita aperta. La battaglia legale sugli stessi reperti che hanno portato alla condanna di Bossetti riaccende inevitabilmente le emozioni legate a un caso che ha sconvolto l’Italia.

            Nonostante i tentativi della difesa, la giustizia sembra aver già parlato con chiarezza. Il DNA ritrovato sul corpo di Yara è stato considerato dalla Corte di Cassazione una prova schiacciante della colpevolezza di Bossetti. Tuttavia, l’accesso ai reperti potrebbe aprire nuovi scenari, e le aule di tribunale restano il teatro di una battaglia senza fine.

            La vicenda del carpentiere di Mapello è ormai un capitolo complesso della storia giudiziaria italiana, intrecciando prove scientifiche, indagini controverse e una lotta incessante per la verità. Ma tra le mura di Bollate, Bossetti si reinventa ogni giorno, tra il lavoro e una routine che cerca di trasformare il tempo vuoto in qualcosa di utile.

            Resta da vedere se il caso Yara conoscerà mai una conclusione definitiva, o se continuerà a essere un simbolo delle contraddizioni del sistema giudiziario.

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              Ergastolo per Filippo Turetta: i giudici decidono la pena massima per l’omicidio di Giulia Cecchettin

              Dopo un processo con rito abbreviato, il caso che ha scosso l’Italia si conclude con la sentenza più dura. Decisivi il memoriale dell’imputato e la requisitoria del pm.

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                Il processo a Filippo Turetta, accusato dell’omicidio volontario della ex fidanzata Giulia Cecchettin, si è concluso con una condanna all’ergastolo. La sentenza, emessa dai giudici del tribunale di Venezia, è arrivata al termine di un procedimento in cui l’accusa ha dimostrato una premeditazione brutale, mentre la difesa ha chiesto invano il riconoscimento delle attenuanti generiche.

                Un delitto pianificato con crudeltà

                Turetta, reo confesso, era accusato di un omicidio aggravato da premeditazione, crudeltà, efferatezza, stalking e occultamento di cadavere. Secondo la ricostruzione del pm Andrea Petroni, l’imputato aveva preparato il delitto con meticolosità, stilando una lista di oggetti da acquistare e studiando le mappe dell’area per nascondere il corpo e fuggire.

                La requisitoria del pm, pronunciata il 25 novembre durante la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, aveva sottolineato l’evidenza della premeditazione: «È stata pianificata con azioni preparatorie quotidiane, in un rapporto costante con la persona offesa. Mi sembra difficile trovare una premeditazione più provata di questa».

                La dinamica dell’omicidio

                Durante il processo, Turetta ha ricostruito in aula l’omicidio avvenuto l’11 novembre. Nel memoriale di 80 pagine presentato dalla difesa, ha descritto con vaghezza e contraddizioni il momento del delitto: «Non ricordo bene, ma devo essermi girato a colpirla mentre eravamo in macchina. Forse le ho dato almeno un colpo sulla coscia, tirando colpi a caso».

                Turetta ha ammesso di aver coperto il corpo della vittima per evitare che fosse trovato in quelle condizioni. Ha anche dichiarato di aver tentato il suicidio subito dopo, senza successo: «Ho provato a uccidermi con un sacchetto di plastica in testa, ma non ci sono riuscito».

                La difesa invoca l’emotività dell’imputato

                Gli avvocati della difesa, Giovanni Caruso e Monica Cornaviera, hanno cercato di ottenere attenuanti generiche, sostenendo che Turetta avesse agito in preda a un’alterazione emotiva. «Filippo Turetta merita le attenuanti generiche», ha dichiarato Cornaviera, definendo il giovane come «un ragazzo che ha commesso un atto efferato, privando una ragazza meravigliosa dei suoi sogni e delle sue speranze».

                Tuttavia, i giudici hanno ritenuto prevalenti le aggravanti contestate nel capo di imputazione, confermando la linea dell’accusa e condannando l’imputato alla pena massima.

                Una sentenza simbolo

                Il caso ha profondamente colpito l’opinione pubblica italiana, diventando un simbolo della lotta contro la violenza di genere. La famiglia di Giulia Cecchettin, presente durante il processo, ha accolto la sentenza con commozione, sottolineando l’importanza di un verdetto che rende giustizia alla memoria della giovane.

                Il processo, iniziato con rito abbreviato il 23 settembre 2024, si è concluso rapidamente, ma ha lasciato una ferita aperta nella società italiana, ricordando ancora una volta l’urgenza di combattere la violenza contro le donne.

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