Cronaca Nera
“Meglio un figlio morto che come me”: la lettera di Filippo Turetta ai genitori dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin
Filippo, ora in attesa di giudizio, chiede ai genitori di rinnegare il loro legame e racconta il suo tentativo fallito di togliersi la vita. “Ho perso la persona più importante per me e tutto questo per colpa mia. Non esiste perdono, e non lo voglio”. La sentenza definitiva è attesa per il 3 dicembre.
“Ho perso la persona più importante, rinnegatemi”. Con queste parole Filippo Turetta, reo confesso dell’omicidio di Giulia Cecchettin, scrive ai suoi genitori dalla cella del carcere di Halle, in Germania, dove fu detenuto dopo essere stato arrestato. Una lettera che mostra tutta la disperazione di un giovane consapevole del gesto estremo che ha compiuto e del dolore che ha causato. La missiva è agli atti del processo che si è aperto ieri mattina a Venezia, dove Turetta è accusato di omicidio volontario aggravato da premeditazione, crudeltà, efferatezza, stalking e occultamento di cadavere.
Filippo si rivolge direttamente ai genitori, chiedendo loro di dimenticarlo e, se possibile, di rinnegare il loro legame: “Capirei e accetterei se d’ora in poi volete dimenticarmi e rinnegarmi come figlio… e probabilmente sarebbe la scelta migliore per la vostra vita. Probabilmente sarebbe meglio un figlio morto che un figlio come me”, scrive il 23enne nella lettera che risale al novembre del 2023, pochi giorni dopo l’omicidio della sua ex fidanzata, il cui corpo venne ritrovato sette giorni dopo, nella zona del lago di Barcis, in provincia di Pordenone.
Il tentativo di suicidio e il senso di colpa
Nella lettera, Filippo racconta anche di aver tentato il suicidio: “Ho provato a soffocarmi con un sacchetto di plastica in testa, ma all’ultimo l’ho strappato. Volevo fare un incidente mortale, un frontale contro un muro o albero, che non mi lasciasse scampo, ma neanche in questo sono riuscito”. Le sue parole tradiscono una consapevolezza amara e dolorosa: “Sono stato la maggior parte delle ore degli ultimi giorni seduto in macchina puntandomi il coltello alla gola o al torace, aspettando di riuscire a sferrare i colpi. Invidio molto chi ha avuto il grande coraggio di farlo, a differenza mia”.
La lettera continua con un’ammissione di colpa che cerca una sorta di giustificazione impossibile: “Ho perso la persona che è tutto per me e che da due anni penso ininterrottamente ogni giorno… e tutto questo per colpa mia. Non so perché l’ho fatto, non avrei mai pensato o voluto succedesse niente del genere. Io non sono cattivo, lo giuro… Vorrei tutto tornasse indietro e non fosse successo niente”.
Il dolore dei genitori e l’attesa della sentenza
Non ci saranno testimoni durante il processo, ma questa lettera sarà uno degli elementi centrali del dibattimento. Il prossimo 25 ottobre, Filippo Turetta verrà interrogato in aula dai giudici della Corte d’Assise di Venezia. Seguiranno altre quattro udienze prima della sentenza, attesa per il 3 dicembre. Intanto, il padre di Giulia, Gino Cecchettin, continua a battersi perché la storia della figlia non venga dimenticata e diventi un simbolo di lotta contro la violenza sulle donne.
“Non sapevo e non avrei immaginato che sarei diventato così famoso e questo mi fa tanta paura. Ho generato tanto odio e tanta rabbia. E me lo merito”, scrive ancora Filippo ai suoi genitori. Un riconoscimento di colpa che, però, non attenua il dolore di una famiglia e di una comunità intera devastata dalla perdita di Giulia.
“Mi merito tutto questo dopo quello che ho fatto. Non sono neanche riuscito a uccidermi… vivrò la mia intera vita in carcere… non potrò più laurearmi, conoscere persone, avere una famiglia e godere di quello che ho già…”, conclude Filippo. Parole che non lasciano spazio a giustificazioni, ma che segnano l’inizio di un percorso giudiziario destinato a concludersi con una sentenza che sarà, inevitabilmente, una condanna per un gesto che ha tolto la vita a una giovane ragazza e distrutto molte altre esistenze.
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Cronaca Nera
Emanuela Orlandi e l’inquietante telefonata dell’Amerikano: depistaggio o verità nascosta?
Un misterioso interlocutore, soprannominato “l’Amerikano”, svela un’informazione sorprendentemente precisa durante la telefonata a casa Orlandi il 7 luglio 1983: Emanuela, scomparsa da poco, era innamorata di un ragazzo di nome Alberto, un militare. Ma chi era questo “Amerikano” e come sapeva di Alberto? E soprattutto, perché ha tentato di depistare le indagini?
Nel caso di Emanuela Orlandi, scomparsa il 22 giugno 1983, emerge un nuovo dettaglio inquietante: un uomo, soprannominato “l’Amerikano”, aveva chiamato la famiglia Orlandi il 7 luglio 1983, dichiarandosi il rapitore e fornendo un indizio molto personale. L’uomo affermava che Emanuela era innamorata di un certo Alberto, un giovane di 19 anni che stava prestando servizio militare a Orvieto.
Questo particolare, confermato dai familiari e dagli amici più intimi, aveva trovato un riscontro veritiero: Emanuela aveva realmente una cotta per un ragazzo di nome Alberto, il quale ricambiava il sentimento.
L’indizio dell’Amerikano e le indagini
Alberto, interrogato dai carabinieri il 20 luglio, confermò di trovarsi effettivamente a militare a Orvieto, ma quella sera si trovava in licenza a Roma. Era partito alle 17:30 da Orvieto per tornare a casa a Ostia e, più tardi, era stato ricoverato all’ospedale militare Celio per due notti.
Questo particolare, pur confermando la sua presenza a Roma il giorno della scomparsa, non risultò incriminante. Ma la vera domanda rimane: come faceva l’Amerikano a conoscere dettagli così personali sulla vita di Emanuela? Chi era davvero? Un amico, un conoscente, un familiare? Non è mai stato identificato come il vero rapitore, ma la sua telefonata rimane un tentativo di depistaggio misterioso e oscuro.
Cronaca Nera
Mostro di Firenze, nuova svolta nelle indagini: richiesta di una seconda autopsia su Stefania Pettini
A cinquant’anni dal delitto, i legali delle vittime insistono per un’autopsia bis su Stefania Pettini, sperando di trovare tracce biologiche del Mostro di Firenze. Le famiglie delle vittime sono divise, mentre si apre un altro capitolo nella richiesta di revisione del processo sul delitto di Scopeti.
Alla vigilia del cinquantesimo anniversario del tragico omicidio di Stefania Pettini e del suo fidanzato Pasquale Gentilcore, avvenuto nel settembre 1974, una nuova svolta nelle indagini sul Mostro di Firenze scuote ancora una volta la serenità dei familiari delle vittime. L’avvocato Vieri Adriani, rappresentante dei familiari delle vittime francesi uccise nel 1985 a Scopeti, sta preparando un’importante mossa legale: chiede infatti al sindaco di Borgo San Lorenzo di non trasferire i resti di Stefania, come previsto alla scadenza del termine dei cinquant’anni, al fine di permettere un’eventuale seconda autopsia.
Individuato un DNA?
Questa richiesta arriva dopo la consulenza dell’ematologo Lorenzo Iovino, il quale sostiene di aver individuato una sequenza di DNA sconosciuto impressa su un’ogiva esplosa durante il delitto di Scopeti, che potrebbe essere collegata anche ad altri due duplici omicidi. Adriani intende presentare questa scoperta all’autorità giudiziaria, accompagnata da una formale richiesta di esame autoptico. L’obiettivo è chiaro: trovare tracce biologiche che possano far luce sull’identità del misterioso assassino, noto come il Mostro di Firenze.
Aveva solo 18 anni
Stefania Pettini, appena 18enne al momento della sua morte, fu brutalmente uccisa insieme a Pasquale, 19 anni, in località Rabatta, nel comune di Borgo San Lorenzo. Il Mostro colpì Pasquale con cinque colpi di pistola e poi si accanì su Stefania con una pioggia di fendenti, infliggendole un destino crudele che ha lasciato cicatrici indelebili nei cuori dei suoi familiari. Il suo corpo, oltraggiato con un tralcio di vite, fu sepolto in un loculo offerto dal Comune come gesto di solidarietà.
Nonostante il passare del tempo, il dramma di Stefania continua a tormentare i suoi cari. Una delle cugine ha recentemente espresso il suo consenso per un’eventuale seconda autopsia, ma non tutte le parenti condividono questa opinione. Anche tra i familiari di Jean Michel, ucciso a Scopeti nel 1985, ci sono divisioni: Adriani aveva suggerito la riesumazione del corpo per ulteriori indagini, ma l’opposizione di uno dei tre fratelli ha fatto cadere questa ipotesi, a meno di una rogatoria internazionale che appare complessa.
Nel frattempo, un altro capitolo di questo giallo senza fine si apre con la richiesta di revisione del processo sul delitto di Scopeti. Gli avvocati del nipote di Mario Vanni, uno dei presunti “compagni di merende”, intendono presentare nuovi elementi, basati su un esperimento che suggerisce che l’omicidio potrebbe essere avvenuto prima dell’8 settembre 1985, contraddicendo la testimonianza di Giancarlo Lotti. Questo ulteriore sviluppo getta ancora più ombre su un caso che continua a tenere con il fiato sospeso non solo i familiari delle vittime, ma anche un’intera nazione.
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Cronaca Nera
Massimo Bossetti, una battaglia infinita: la difesa insiste sui reperti del caso Yara mentre lui si ricostruisce una vita in carcere
Dal DNA trovato sul corpo di Yara Gambirasio alla vita dietro le sbarre, la vicenda giudiziaria di Massimo Bossetti continua a far discutere. La difesa punta tutto su nuovi esami, ma per ora la verità giudiziaria resta immutata
Il caso Yara Gambirasio, conclusosi nel 2018 con la condanna definitiva di Massimo Bossetti all’ergastolo, sembra non trovare pace. Gli avvocati del carpentiere di Mapello continuano a muoversi con determinazione per aprire spiragli di revisione del processo, puntando questa volta sull’accesso ai reperti custoditi all’Istituto di Medicina Legale di Milano e in altri luoghi.
La richiesta è chiara: verificare quali campioni siano ancora disponibili e in che condizioni si trovino. Per la difesa, il DNA prelevato dal tassello femorale e dagli indumenti di Yara potrebbe contenere la chiave per ribaltare una verità giudiziaria che Bossetti ha sempre contestato.
Un responso è atteso per l’udienza fissata il prossimo 13 gennaio.
Il tribunale di Bergamo ha dato tempo fino al 15 dicembre agli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini per produrre i verbali di sequestro relativi ai reperti. Solo dopo aver esaminato questi documenti, la Corte deciderà se accogliere o meno la richiesta, e un responso è atteso per l’udienza fissata il prossimo 13 gennaio.
La situazione potrebbe cambiare
L’avvocato Salvagni ha ribadito: «Vogliamo capire quali reperti sono utilizzabili. Se le analisi aggiuntive confermeranno i risultati, ne prenderemo atto; ma se emergessero nuovi elementi, la situazione potrebbe cambiare».
Parallelamente alla battaglia legale, Bossetti conduce una vita intensa nel carcere di Bollate, dove è detenuto dal 2019 dopo essere stato trasferito dalla struttura di Bergamo. Qui è diventato uno dei protagonisti del Progetto 2121, una partnership tra pubblico e privato che punta al reinserimento lavorativo dei detenuti attraverso la formazione professionale.
Bossetti lavora in carcere
Dopo aver lavorato come tecnico rigeneratore di macchine per caffè espresso, Bossetti è stato assunto dalla Coimec, un’azienda specializzata in coibentazioni termoacustiche che opera all’interno del carcere.
Oltre al lavoro, la quotidianità del detenuto è arricchita dalla partecipazione a concorsi di cucina, gare letterarie e progetti artistici. Secondo le sue stesse dichiarazioni, ogni attività è un modo per rendere il tempo più costruttivo e per continuare a sostenere economicamente la sua famiglia. Ma questa nuova routine non cancella il peso del passato.
La moglie di Bossetti, Marita Comi, e i tre figli continuano a vivere un’esistenza segnata dalla vicenda giudiziaria. Nonostante la condanna definitiva, Marita non ha mai smesso di credere nell’innocenza del marito. A dar voce alla sua sofferenza è il fratello Agostino, che ha raccontato: «Mia sorella cerca di andare avanti, ma sa che la sua vita non tornerà mai normale. Quel fatto ha cambiato tutto».
Intanto, la famiglia Gambirasio osserva con compostezza gli sviluppi legali. Il ricordo di Yara, 13enne trovata senza vita in un campo a Chignolo d’Isola, resta una ferita aperta. La battaglia legale sugli stessi reperti che hanno portato alla condanna di Bossetti riaccende inevitabilmente le emozioni legate a un caso che ha sconvolto l’Italia.
Nonostante i tentativi della difesa, la giustizia sembra aver già parlato con chiarezza. Il DNA ritrovato sul corpo di Yara è stato considerato dalla Corte di Cassazione una prova schiacciante della colpevolezza di Bossetti. Tuttavia, l’accesso ai reperti potrebbe aprire nuovi scenari, e le aule di tribunale restano il teatro di una battaglia senza fine.
La vicenda del carpentiere di Mapello è ormai un capitolo complesso della storia giudiziaria italiana, intrecciando prove scientifiche, indagini controverse e una lotta incessante per la verità. Ma tra le mura di Bollate, Bossetti si reinventa ogni giorno, tra il lavoro e una routine che cerca di trasformare il tempo vuoto in qualcosa di utile.
Resta da vedere se il caso Yara conoscerà mai una conclusione definitiva, o se continuerà a essere un simbolo delle contraddizioni del sistema giudiziario.
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