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Cronaca Nera

Sequestrato e torturato a Soho: l’incubo newyorkese del designer torinese Michael Carturan

Un italiano di 28 anni è stato tenuto prigioniero per due settimane in una casa di lusso nel cuore di Manhattan da un presunto imprenditore della criptovaluta. Arrestata anche una connazionale complice. Le indagini non escludono altri coinvolti

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    Alle 9.37 di un venerdì mattina qualsiasi, nel cuore patinato di Soho, Manhattan, l’agente di polizia addetto al traffico all’incrocio tra Mulberry e Prince Street è stato avvicinato da un ragazzo italiano. Era scalzo, visibilmente provato, e ha raccontato un incubo che sembrava uscito dalla sceneggiatura di un thriller. Il suo nome è Michael Valentino Teofrasto Carturan, ha 28 anni, è un designer torinese e ha detto di essere appena scappato da una casa dove era stato sequestrato e torturato per due settimane.

    Un racconto surreale, che però ha trovato subito conferma. Pochi minuti dopo, un camion dei pompieri e tre volanti della polizia hanno raggiunto il civico 38 di Prince Street. Dietro il cancelletto in ferro battuto, una lussuosa townhouse di quattro piani, valutata 25 milioni di dollari e affittata per 75mila al mese, era diventata teatro di sevizie da film horror.

    All’interno, gli agenti hanno arrestato John Woeltz, 37 anni, originario del Kentucky, noto nel mondo della finanza alternativa come imprenditore e influencer della comunità crypto. Al momento dell’irruzione, tentava la fuga: piedi scalzi, accappatoio bianco, mani ammanettate dietro la schiena. In casa, gli inquirenti hanno trovato foto Polaroid di Carturan legato a una sedia, i piedi immersi in una bacinella d’acqua, il volto terrorizzato mentre una pistola gli viene puntata alla tempia. In un’altra immagine, compare un taser. Gli strumenti di tortura erano ancora lì, insieme a una pistola e a sostanze stupefacenti.

    Il motivo? Le password del portafoglio digitale di Carturan, che Woeltz avrebbe voluto estorcergli. Per costringerlo, gli aveva messo al collo un Apple Tag, il dispositivo usato per localizzare oggetti smarriti. Lo aveva minacciato di amputargli mani e piedi con una motosega. L’italiano ha raccontato di aver tentato più volte la fuga, convinto che quel venerdì sarebbe stato il suo ultimo giorno di vita.

    Con Woeltz è stata arrestata anche una connazionale: Beatrice Folchi, 24 anni, trasferita negli Stati Uniti da bambina. Lavorava per l’americano, ed è accusata di sequestro di persona. Secondo la famiglia, sarebbe stata già rilasciata, ma le indagini vanno avanti: non si esclude la presenza di un terzo complice.

    I due italiani si conoscevano da tempo. Carturan era in affari con Woeltz, almeno così risulta alle autorità. Ma la famiglia del giovane torinese era all’oscuro di tutto: delle criptovalute, delle sue attività a New York, persino del fatto che fosse negli Stati Uniti. Il 6 maggio, giorno del suo arrivo a Manhattan con un visto turistico, era stato accolto proprio da Woeltz nella lussuosa townhouse che avrebbe dovuto essere una base di lavoro. È lì che il presunto imprenditore lo ha imprigionato, strappandogli il passaporto e lasciandolo isolato dal mondo.

    Misterioso, Carturan non ha profili social né presenza digitale. Ha studiato al liceo artistico Cottini di Torino, si è formato nell’ambito dell’orticoltura e del design di giardini, ha vinto concorsi. Poi un buco nero. Le forze dell’ordine stanno cercando di ricostruire i suoi ultimi spostamenti e le reali motivazioni del viaggio.

    Un frammento inquietante arriva da una vicina, Jennifer Crawford, che ha raccontato a la Repubblica di un party sfarzoso tenutosi proprio nei giorni precedenti all’irruzione: “Ho visto portare fiori per centinaia di dollari. Non avrei mai immaginato un epilogo simile”.

    Il console italiano a New York, Fabrizio Di Michele, si è recato in ospedale per incontrare Carturan, ma il giovane era già stato dimesso. La famiglia, al momento, non ha richiesto assistenza consolare.

    Mentre le indagini vanno avanti e Woeltz viene formalmente incriminato per aggressione, sequestro di persona e possesso d’arma per scopi criminali, resta da chiarire l’esatto ruolo della rete di persone coinvolte. Il confine tra business e minaccia, tra crypto e crimine, in questa storia è diventato troppo sottile. E per Michael Carturan, l’unico obiettivo ora sembra essere ricominciare a vivere.

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      Cronaca Nera

      Risponde alla chiamata dei carabinieri e perde 39.000 euro: ecco come funziona la truffa dei numeri clonati

      Un sessantenne di Genova è stato truffato con la tecnica dello spoofing, un attacco sofisticato che replica numeri telefonici ufficiali, rendendo difficile distinguere la truffa dalla realtà. Con un finto maresciallo dei carabinieri e un “operatore” della banca, i truffatori hanno svuotato il suo conto. Ecco i dettagli di questo inganno e come difendersi.

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        Tutto inizia con una chiamata apparentemente da parte di un maresciallo dei carabinieri: avverte la vittima di una frode sul suo conto bancario. Poco dopo, segue una telefonata da un operatore della banca che conferma l’allarme e consiglia di trasferire i risparmi su un nuovo conto “sicuro”. La vittima, un sessantenne di Genova, esegue l’operazione tramite home banking e solo dopo scopre l’amara realtà: quei soldi, circa 39.000 euro, sono spariti per sempre.

        Spoofing: una truffa sempre più sofisticata
        Questo tipo di truffa, noto come spoofing, sfrutta la falsificazione dell’identità per ingannare le vittime. I truffatori possono clonare numeri telefonici di carabinieri, banche o altri enti, così da sembrare affidabili e mettere a segno il colpo. Nel caso del sessantenne, persino una verifica online non ha aiutato, poiché i numeri corrispondevano effettivamente a quelli reali delle forze dell’ordine e della banca.

        Come difendersi dallo spoofing
        Per evitare di cadere in trappola, è fondamentale non condividere mai dati personali o bancari via telefono e non avviare operazioni durante una chiamata, anche se la fonte sembra affidabile. In caso di dubbio, è sempre meglio chiamare direttamente la propria banca o l’ente coinvolto, usando numeri verificati. Chi sospetta di essere stato vittima di uno spoofing dovrebbe denunciare il fatto alla polizia postale o ai carabinieri per aiutare a fermare questi truffatori.

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          Garlasco, parla il giudice che assolse Stasi: “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

          Stefano Vitelli, oggi giudice del Riesame a Torino, racconta il primo processo a Stasi nel 2009: “C’era qualcosa che non tornava, ma mancava la prova definitiva. E soprattutto mancava un movente”

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            Un’indagine complessa, una storia giudiziaria che si trascina da oltre 16 anni, un caso che continua a dividere. Oggi, mentre un nuovo nome è tornato nel registro degli indagati per l’omicidio di Chiara Poggi, a parlare è Stefano Vitelli, il magistrato che nel 2009 assolse Alberto Stasi in primo grado. All’epoca giudice per le udienze preliminari a Vigevano, oggi in forza al tribunale del Riesame di Torino, Vitelli ricorda perfettamente il processo abbreviato che lo portò a quella decisione. E lo fa con una lucidità che getta ancora più ombre sulla ricostruzione del delitto.

            “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

            “Il ragionevole dubbio è essenziale per noi magistrati e per l’opinione pubblica”, dice Vitelli. Un principio che fu il cardine della sua sentenza di assoluzione. “Non voglio giudicare le inchieste successive, non ne conosco gli atti, ma quando processai Stasi, più si andava avanti e più aumentavano le domande senza risposta”.

            Uno degli elementi chiave fu la perizia informatica: “Era una sera d’estate, me lo ricordo ancora. L’ingegnere mi chiamò e mi disse: ‘Dottore, è sul divano? Ci resti. Stasi stava lavorando al computer, sulla sua tesi’”. Un dettaglio che spiazzò gli inquirenti: il ragazzo, secondo l’accusa, avrebbe dovuto inscenare la sua attività online per crearsi un alibi, e invece risultò che stava effettivamente correggendo passaggi del suo lavoro con concentrazione e coerenza.

            “C’era qualcosa che non tornava,” spiega Vitelli. “Si parlava di scarpe pulite, eppure i test dimostrarono che a volte si sporcavano, altre no. La bicicletta? Una testimone ne descriveva una diversa. Nessuna traccia di sangue nel lavabo. Ogni elemento che avrebbe dovuto rafforzare la tesi dell’accusa, finiva per renderla più fragile”.

            Un puzzle senza pezzi combacianti

            Vitelli non nasconde che, in quella fase processuale, c’erano aspetti che lo lasciavano perplesso. “Gli indizi erano tanti, ma contraddittori e insufficienti. Abbiamo interrogato i vicini: nessuno ha sentito rumori, nessuno ha visto movimenti strani. Stasi, poi, avrebbe dovuto compiere un delitto così brutale e subito dopo mettersi a lavorare alla tesi in modo lucido? Anche il dettaglio del dispenser del sapone faceva riflettere: aveva mangiato la pizza la sera prima, lavarsi le mani era un gesto normale”.

            E poi c’era il movente. O meglio, la sua assenza. “Nei casi incerti, il movente diventa un elemento decisivo per chiudere il cerchio. Qui, un movente non c’era”.

            E Andrea Sempio?

            L’altro nome che emerge dalle carte è Andrea Sempio, oggi formalmente indagato dopo anni di voci e supposizioni. Vitelli ricorda solo un dettaglio della sua testimonianza: “Un alibi basato su uno scontrino conservato. Mi sembrò curioso”.

            Quanto all’impatto mediatico del caso, il magistrato ha sempre cercato di restarne fuori: “Ho chiuso la porta a giornalisti, pm, avvocati. Di un processo si parla solo nelle aule di giustizia. L’unica cosa che mi dava fastidio era sentire dire che ero ‘pro’ o ‘contro’. Il nostro lavoro deve essere laico”.

            Sedici anni dopo, i dubbi restano

            Vitelli ha riletto la sua sentenza proprio in questi giorni, su richiesta della rivista Giurisprudenza penale. E la sua opinione non è cambiata: “Con gli elementi che avevo, l’assoluzione di Stasi era sacrosanta”.

            Oggi, il caso Garlasco è di nuovo sotto i riflettori. Ma le stesse domande che Vitelli si pose nel 2009 rimangono senza risposta. Chi ha ucciso Chiara Poggi? E soprattutto: c’è davvero una verità che metterà fine a questa storia?

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              Delitto di Garlasco, l’avvocato Lovati contro Corona: «Mi ha tradito, mi ha fatto bere per farmi parlare»

              Il difensore, già indagato per diffamazione aggravata per le sue dichiarazioni sul caso Poggi, ora accusa l’ex re dei paparazzi di averlo manipolato: «Avevo bevuto, pensavo fosse una chiacchierata privata. Mi piacerebbe sapere a chi ha mandato quelle immagini».

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                Per la serie c’è ancora chi si fida di Fabrizio Corona?. L’ultimo a pentirsene è Massimo Lovati. l’avvocato di Andrea Sempio, il giovane tornato nel mirino dell’inchiesta sull’omicidio di Chiara Poggi, la ragazza di Garlasco uccisa nel 2007.

                Lovati, che aveva fatto discutere per le sue uscite sopra le righe sul caso, si è scagliato contro l’ex re dei paparazzi accusandolo di averlo “tradito”. «Mi ha ripreso mentre bevevo, chiedendomi di parlare a ruota libera e di fare affermazioni volgari», ha dichiarato il legale. Spiegando che quella conversazione — poi diventata un video pubblicato sul canale YouTube di Corona — non era destinata alla diffusione pubblica.

                Secondo il suo racconto, l’ex fotografo gli avrebbe promesso una chiacchierata informale, una sorta di “fuori onda” tra conoscenti. «Mi piacerebbe capire a chi ha mandato quel video», ha aggiunto l’avvocato. Sostenendo di essere stato “incastrato” in un momento di fragilità: «Avevo bevuto, non mi aspettavo che quelle parole venissero registrate».

                Il filmato in questione, diffuso nel corso di una puntata di Falsissimo, la serie che Corona pubblica online, ha suscitato scalpore per il linguaggio crudo. E per le frasi contro alcuni protagonisti della vicenda giudiziaria di Garlasco. Proprio per quelle dichiarazioni, Lovati è oggi indagato per diffamazione aggravata. A denunciarlo sono stati gli avvocati Enrico e Fabio Giarda, figli del defunto professor Angelo Giarda, storico difensore di Alberto Stasi, condannato in via definitiva a 16 anni di carcere per l’omicidio di Chiara Poggi.

                Il legale di Sempio sostiene di essere stato manipolato: «Corona ha usato le mie parole per farsi pubblicità. Io non gli ho mai dato il consenso alla diffusione del video».

                Un’accusa che riapre vecchie polemiche attorno a Fabrizio Corona e al suo modo di fare informazione-spettacolo. Dove la linea tra confessione privata e show mediatico sembra svanire.

                Intanto l’inchiesta di Latina prosegue e Lovati dovrà spiegare ai magistrati non solo le sue frasi, ma anche il ruolo che attribuisce a chi — con una telecamera nascosta e un bicchiere di troppo — gli ha rovinato la reputazione.

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