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Cronaca

Il cane allerta i soccorsi e salva il suo padrone

Brandon Garrett, residente nell’Oregon, perde il controllo del suo veicolo e finisce giù da una scapata fino a finire dentro a un torrente. Con lui ci sono i suoi quattro cani e proprio uno di loro sarà decisivo per salvargli la vita.

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Il cane che ha salvato il suo padrone

    Non si è saputo il suo nome perché i media americani, dove si è svolta questa storia, non lo hanno riportato. Sta di fatto che ancora una volta un cane ha contribuito a salvare la vita al suo padrone. Che poi sentirci padrone dei nostri cani sembra proprio brutto, brutto. Per prima cosa perché a volte sentiamo che sono loro i veri padroni. Noi possiamo essere solo dei buoni amici. E poi perché se c’è un padrone significa che c’è qualcuno che dipende dallo stesso. Ma chi dipende da chi?… Ma vediamo la cronaca.

    E’ inutile ogni volta stupirsi della sintonia tra uomo e cane

    Questa avventura è accaduta al signor Brandon Garrett, residente nell’Oregon, ospite in un campeggio insieme alla sua famiglia. Brandon il 2 giugno era uscito nella contea di Baker con la sua Jeep in compagnia dei suoi quattro cani. Guidando all’improvviso perde il controllo del veicolo e finisce in una scapata dritto in un torrente. Uno dei quattro pelosetti a bordo ha la prontezza di uscire dall’abitacolo e mettersi a correre verso il campeggio da dove erano partiti. Nel frattempo allo sceriffo della contea era arrivata una chiamata che segnalava la scomparsa dell’uomo. La sua famiglia era preoccupata. Garret infatti era atteso al campeggio. Ma al suo posto si sono visti arrivare trafelato uno dei loro cani. che ha percorso un tratto lungo circa 6 chilometri che separa il torrente dal campeggio. Sapeva che il suo compagno umano e gli altri quattrozampe di famiglia erano in difficoltà e avevano bisogno di aiuto. E al campeggio lo hanno capito subito. Insieme allo sceriffo hanno iniziato a perlustrare la zona puntando verso il torrente sull’unica strada percorribile nei paraggi.

    Il salvataggio di Garret mentre il suo amico visionava dall’alto

    Ma una volta arrivati sul torrente e rintracciata la Jeep non è stato facile riportare Garret in superficie. E mentre il suo amico, che potremmo chiamare in qualsiasi modo, osservava le operazioni dall’alto abbaiando per attirare l’attenzione, grazie a una barella collegato con un sistema di corde a carrucola, i soccorritori prima sono scesi e poi hanno riportato sulla collina il malcapitato campeggiatore. Anche gli altri tre cani che sono stati trovati in salute e non lontani dal luogo dell’incidente. Un cane eroe? No non chiamiamolo eroe. Un cane determinato, consapevole, intelligente con nel cuore e nella mente l’amore reciproco che lo lega al suo “padrone”.

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      Italia

      L’Oca trionfa nel Palio di Siena: Tittia su Diodoro doma la mossa e vince tra passione, storia e leggenda

      Con una corsa mozzafiato, la contrada dell’Oca ha vinto il Palio 2025 grazie alla maestria di Tittia e al cuore di Diodoro. Dietro la vittoria, mesi di preparazione, antichi riti, tensioni e sogni condivisi. È il trionfo di una comunità, di un’identità. Il Palio non è solo una corsa. È un destino.

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        Alla fine ha vinto l’Oca. Giovanni Atzeni, detto Tittia, ha portato Diodoro al trionfo nel Palio di Siena del 3 luglio 2025. Una gara serrata, corsa con il cuore in gola, vinta all’ultimo respiro davanti a una Piazza del Campo gremita e palpitante.

        Dopo il rinvio per maltempo, l’attesa è stata ripagata da una corsa intensa, avvincente, che ha tenuto tutti col fiato sospeso fino all’ultimo metro. Tre giri furiosi di tufo e adrenalina, un boato che ha scosso la città, e poi la gioia esplosiva della contrada dell’Oca, che ha visto il proprio cavallo tagliare per primo il traguardo.

        Il Palio non è solo una corsa di cavalli. È una religione civile, un rito antico che trasforma Siena due volte l’anno in un teatro epico, dove ogni contrada diventa un popolo, ogni fantino un eroe, ogni cavallo un simbolo. Si corre per onore, per identità, per passione. E chi vince non alza solo un drappellone: alza un pezzo d’eternità.

        Quest’anno, ancora una volta, il fantino più titolato della piazza ha fatto la differenza. Tittia ha dimostrato sangue freddo, strategia e un legame perfetto con Diodoro. Dopo una mossa lunga e tesa, con i cavalli nervosi e la tensione alle stelle, è scattato al momento giusto, ha tenuto la testa della corsa e non l’ha più mollata. Una vittoria costruita con mestiere e cuore.

        Dietro a quei tre giri c’è molto di più. Ci sono mesi di preparazione, cene nelle contrade, alleanze segrete, benedizioni solenni, accordi, strategie. Ogni scelta pesa, ogni dettaglio conta. Ma poi, quando il canapo si abbassa, tutto si annulla. Contano solo il coraggio, l’istinto e la capacità di leggere la piazza come un libro aperto.

        La contrada dell’Oca ora festeggia, con il Drappellone firmato dall’artista in trionfo tra le vie, i canti, le bandiere, i botti. È un momento che resterà impresso nella memoria collettiva, nei racconti, nelle foto, nei sogni dei bambini che oggi hanno imparato che vincere il Palio è il massimo che un senese possa desiderare.

        Ma il Palio, alla fine, appartiene a tutta Siena. Anche a chi ha perso, a chi ha lottato, a chi ci ha creduto fino all’ultimo. Perché a Siena non si corre per lo spettacolo: si corre per il sangue, per l’identità, per sentirsi vivi. E per sapere che, in fondo, qui la storia non è mai finita. Sta solo aspettando il prossimo giro.

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          Cose dell'altro mondo

          Dalle torte di compleanno ad Arcore agli esorcismi col demonio: l’ex modella racconta “Lucifero era lì”

          Non era coinvolta nel bunga bunga, ma racconta di essere stata “posseduta” dopo aver frequentato le cene di Silvio Berlusconi – “Mi rivolsi a un esorcista: mi scagliai contro di lui con violenza, come nel film” – E non è l’unica a parlare di presenze oscure: anche Imane Fadil vide “Lucifero”

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            Una testa che ruota di 180 gradi, sei persone che cercano invano di fermarla, e lei che si scaglia con una forza “sovrumana” contro un prete. No, non è la trama del nuovo horror su Netflix, ma il racconto – vero o presunto – di Ania Goledzinowska, ex modella polacca, ex fidanzata del nipote di Silvio Berlusconi e presenza nota nei salotti del Cavaliere, ai tempi delle famigerate cene ad Arcore.

            La sua intervista a La Stampa ha riaperto un vaso di Pandora che molti avevano sigillato con cura. «Quando scoppiò lo scandalo, mi crollò il mondo addosso. Non ero indagata né testimone, ma vivevo nel terrore delle intercettazioni» confessa. E fin qui, il trauma mediatico. Ma poi arriva il colpo di scena degno di L’Esorcista: secondo Ania, dopo essersi ritirata a vita più sobria, iniziò a sentire dentro di sé qualcosa di oscuro.

            Si rivolse allora a padre Cipriano De Meo, decano degli esorcisti e uomo stimato da Padre Pio. All’inizio, il prete la indirizzò da uno psichiatra, ma poi – parole sue – cambiò tutto. «Mi impose le mani e successe il caos. C’era altra gente nella stanza, ma non riuscivano a trattenermi. La mia testa si girò, mi scagliai contro il sacerdote con una rabbia che non era mia».

            Non è la prima a raccontare esperienze “diaboliche” legate ad Arcore. Imane Fadil, modella marocchina coinvolta nel caso Ruby, aveva dichiarato: «Là dentro c’è il Male, io l’ho visto. C’è Lucifero». Frase che oggi, riletta alla luce delle parole di Ania, suona come un inquietante déjà vu.

            Ora, che si tratti di suggestione, crisi mistica o verità soprannaturale, la questione fa discutere. Una cosa è certa: le cene eleganti continuano a far tremare i polsi. Altro che torta e prosecco.

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              Italia

              “Anto’, fa caldo, meglio non lavorare”: scatta lo stop al lavoro all’aperto per 3 milioni di italiani (e forse per una volta ha ragione pure il governo)

              Dalle 12.30 alle 16 si fermano cantieri, magazzini e campi: si teme per la salute dei lavoratori, dopo diversi malori e un operaio in coma a Vicenza. Intanto la ministra Calderone riscopre la cassa integrazione anti-afa e promette un protocollo tra imprese e sindacati

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                “Anto’, fa caldo, meglio non lavorare”. E per una volta non è solo un meme o un modo per svicolare da un trasloco. È diventata realtà: in 15 regioni italiane sono scattate ordinanze che vietano o limitano il lavoro all’aperto nelle ore più roventi della giornata, tra mezzogiorno e le 16. Una pausa forzata che interessa oltre tre milioni di persone e che, dati alla mano, potrebbe perfino salvare qualche vita. Perché con 40 gradi percepiti e l’asfalto che scotta più di un barbecue ferragostano, parlare di “emergenza climatica” non è più un esercizio accademico, ma una questione di sopravvivenza.

                Il primo a muoversi è stato il Piemonte: ordinanza firmata, valida fino al 31 agosto. Seguono a ruota Lazio, Emilia-Romagna, Campania, Sardegna, Sicilia, Toscana, Puglia e via dicendo. Mancano all’appello solo Valle d’Aosta (dove evidentemente resistono al sole armati di stambecchi), Molise (che ci sarà, ma non si vede) e Trentino Alto Adige, dove la brezza montana mitiga. Il Friuli Venezia Giulia e le Marche sono in dirittura d’arrivo.

                A essere coinvolti dallo stop sono soprattutto lavoratori dell’edilizia, della logistica, dell’agricoltura e del florovivaismo. Insomma, chi la fatica la conosce per davvero. Le costruzioni impiegano 1,7 milioni di persone, la logistica oltre un milione, l’agricoltura circa mezzo milione. A questi si sommano gli addetti ai lavori stagionali, bersagliati dai 40 gradi tanto quanto dalle paghe da fame.

                Secondo uno studio pubblicato su “Environmental Research”, e citato da Collettiva-Cgil, ogni estate l’Italia conta almeno 4mila infortuni da caldo. E non sempre si tratta di giramenti di testa o colpi di sole risolti con un ghiacciolo. A Vicenza, pochi giorni fa, due operai si sono sentiti male mentre lavoravano all’interno di una cisterna d’alluminio: uno dei due è ora in coma, ricoverato in rianimazione. A Bagheria, nel Palermitano, una donna cardiopatica è morta dopo essere svenuta in strada.

                Così, sotto la pressione sindacale e davanti ai numeri inaccettabili, anche il governo ha fatto qualcosa di sensato (sì, hai letto bene). La ministra del Lavoro Marina Calderone ha annunciato la firma imminente di un protocollo con imprese e sindacati: prevede il ricorso facilitato alla cassa integrazione per chi deve sospendere l’attività a causa del caldo, anche nel lavoro stagionale. Un paracadute che sarà attivabile anche con semplice ordinanza locale. Non è la rivoluzione francese, ma è un inizio.

                Le linee guida recepite dalle Regioni fissano parametri internazionali per stabilire le fasce orarie da evitare e invitano a ridurre al minimo l’esposizione diretta al sole. Raccomandate anche le rotazioni dei turni, per non mandare al collasso gli operai nei cantieri o nei magazzini, dove il calore si somma all’umidità come in una sauna finlandese ma senza idromassaggio.

                Francesca Re David, della Cgil, chiede però una soglia fissa per legge, così da rendere automatica l’attivazione delle misure. E la deputata dem Chiara Gribaudo rilancia: “Non servono interventi spot, ma una risposta strutturale. I cambiamenti climatici non sono più emergenze, sono la nuova normalità”.

                Nel frattempo, tra un decreto e una raffica di bollini rossi su mezza penisola, si scopre che anche un paese come il nostro – che si muove di solito solo dopo la tragedia – può imparare a fermarsi prima che sia troppo tardi. E se per una volta l’afa diventa più forte del precariato, c’è quasi da ringraziare il termometro.

                Perché il diritto a non morire di caldo sul lavoro dovrebbe essere scontato. Invece, serve un’ondata bollente e un operaio in coma per ricordarcelo.

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