Italia
Da prodigio digitale a santo millennial: ma la canonizzazione di Carlo Acutis divide fedeli e teologi
Acutis sarà canonizzato insieme a Pier Giorgio Frassati, ma l’annuncio ha scatenato un acceso dibattito. Il teologo Andrea Grillo parla di “fissazione distorta”, mentre migliaia di fedeli difendono il ragazzo e la sua devozione eucaristica.

Carlo Acutis sarà santo. Il prossimo 7 settembre, Leone XIV lo proclamerà tale nel corso di un concistoro che vedrà salire agli onori degli altari anche Pier Giorgio Frassati. La data è stata annunciata ufficialmente e segna un momento importante per la Chiesa cattolica, che si prepara a canonizzare un giovane vissuto nel pieno dell’era digitale. Ma non tutti, all’interno del mondo ecclesiale e teologico, condividono la scelta.
Nato a Londra nel 1991 e cresciuto a Milano, Acutis è morto nel 2006, a soli 15 anni, per una leucemia fulminante. Sin da piccolo aveva manifestato una devozione profonda per l’Eucaristia e la Madonna, tanto da diventare un riferimento spirituale per molti coetanei. Usando le sue competenze informatiche, creò una mostra virtuale sui miracoli eucaristici nel mondo, esposta ancora oggi in centinaia di parrocchie.
Francesco lo aveva beatificato il 10 ottobre 2020 ad Assisi, dove oggi il corpo del giovane riposa nella chiesa di Santa Maria Maggiore. La canonizzazione è stata resa possibile dal riconoscimento di un secondo miracolo, attribuito alla sua intercessione. Doveva essere il papa stesso a dichiararlo santo, ma la malattia ha costretto a rimandare: sarà il successore, Leone XIV, a concludere il processo.
Tuttavia, nelle ultime settimane, sono esplose le polemiche. Al centro del dibattito, l’intervento del teologo Andrea Grillo, docente al Pontificio Ateneo Sant’Anselmo. In un post sul suo blog e in successive dichiarazioni, Grillo ha definito “assurda” la canonizzazione di Acutis, criticando aspramente l’approccio teologico che avrebbe nutrito la spiritualità del ragazzo. “Una teologia eucaristica vecchia, ossessiva, concentrata sull’inessenziale”, ha scritto. Per il teologo, il problema non starebbe tanto nel giovane, quanto in chi – durante la sua breve vita – gli avrebbe trasmesso una “maleducazione eucaristica” basata su un’idea “distorta” e miracolistica della fede.
Grillo si è scagliato in particolare contro la mostra sui miracoli eucaristici, considerata il simbolo di quella “comprensione difettosa e unilaterale” della spiritualità. Le sue parole hanno suscitato un forte clamore. Specialmente per la durezza dei toni e per il fatto che provengano da un professore di un’università pontificia. In rete, la reazione dei fedeli non si è fatta attendere. Migliaia di persone hanno difeso Acutis, ricordandone la semplicità, la gioia e la capacità di parlare di Dio con gli strumenti del suo tempo.
A intervenire anche il vescovo spagnolo José Ignacio Munilla, che ha definito “incredibile” l’attacco di Grillo. Sottolineando come sia “impossibile per certa teologia accettare che Dio possa intervenire soprannaturalmente nella storia”.
Al di là delle polemiche, la figura di Carlo Acutis continua a esercitare un’attrazione particolare, soprattutto tra i giovani. Viene considerato il primo beato della generazione millennial, capace di testimoniare la fede non solo attraverso le opere, ma anche usando il linguaggio del web. Diceva che l’Eucaristia era “la mia autostrada per il Cielo” e si offrì a Dio con una maturità spirituale che ha colpito profondamente chi lo ha conosciuto.
Nel 2020, la salma di Acutis fu esposta alla venerazione pubblica: colpì il fatto che il corpo fosse rimasto apparentemente intatto a 14 anni dalla morte, sebbene siano stati operati trattamenti conservativi. Oggi il suo santuario ad Assisi è meta di pellegrinaggi da tutto il mondo.
Il 7 settembre, Acutis diventerà ufficialmente santo. Ma il dibattito su cosa significhi davvero la santità, su quali modelli debbano essere proposti ai fedeli del futuro e su come la teologia debba dialogare con la spiritualità popolare, è tutt’altro che chiuso.
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Italia
Meloni pronta a incontrare il professore del post shock che si è pentito
Dopo le polemiche e il tentato suicidio, il docente Stefano Addeo potrebbe avere un faccia a faccia con la premier. Da Palazzo Chigi arriva un’apertura.

Potrebbe davvero avvenire l’incontro tra Giorgia Meloni e Stefano Addeo, il professore di Marigliano finito al centro di una bufera mediatica per un post social in cui augurava la morte alla figlia della premier. Un gesto che ha scatenato indignazione trasversale e che lo stesso docente ha definito “stupido, scritto d’impulso”, chiedendo pubblicamente perdono. Travolto dalle polemiche e sospeso in via cautelare dalla scuola, Addeo ha anche tentato il suicidio. In un appello accorato, ha chiesto di poter parlare direttamente con la presidente del Consiglio: “Non cerco indulgenza, ma sento il bisogno umano di essere ascoltato”.
Un incontro che sa da fare…
Ora, da Palazzo Chigi arriva una prima apertura: “Sì, sembra che questo incontro si farà. Ma non fatemi dire altro”, ha dichiarato una fonte vicina alla premier. Nel frattempo, il professore ha ribadito le sue scuse in un’intervista al quotidiano Roma, spiegando di aver scritto il post in un momento di forte turbamento emotivo, dopo aver visto un servizio sulla guerra a Gaza. “Mi sono svegliato e ho detto: Madonna mia, cosa ho scritto. L’ho cancellato subito”, ha raccontato.
Un momento di confronto tra Meloni e il professore
Nonostante il pentimento, il governo considera il gesto incompatibile con il ruolo di educatore, e le polemiche non si placano. Il deputato di Fratelli d’Italia Alessandro Urzì ha dichiarato che Addeo “si è dimostrato inadeguato per la seconda volta”, criticando la sua scelta di legare le scuse a una rivendicazione politica. Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha espresso solidarietà a Meloni e alla figlia Ginevra, telefonando personalmente alla premier per manifestare la sua vicinanza. Meloni, in un post su X, ha parlato di “odio ideologico” e di un “clima malato” che travalica ogni limite: “Esistono confini che non devono essere superati mai”.
Italia
Spionaggio illegittimo, telefoni sorvegliati: si allarga l’inchiesta sui giornalisti intercettati
L’indagine delle Procure di Roma e Napoli coinvolge Dagospia, Fanpage e Mediterranea. Si cercano tracce del software israeliano Graphite o di altri spyware governativi. Renzi: “Se si spiano i giornalisti, non è più democrazia”

Lo scandalo sulle intercettazioni illegittime si allarga ogni giorno di più. Dopo la scoperta che il direttore di Fanpage, Francesco Cancellato, è stato spiato per oltre cinque mesi tramite il software spia Graphite, le Procure di Roma e Napoli hanno deciso di estendere le verifiche ad almeno altri sei cellulari. L’ombra del monitoraggio illegale tocca testate giornalistiche di primo piano come Fanpage e Dagospia, ma anche organizzazioni civiche e sociali.
Il sospetto è che sui dispositivi siano stati installati spyware in grado di trasformare un telefono in una videocamera e un microfono sempre attivi. Tra i coinvolti, oltre a Cancellato, ci sono anche il fondatore di Dagospia Roberto D’Agostino, i giornalisti Eva Vlaardingerbroek e Ciro Pellegrino, e tre attivisti della Ong Mediterranea Saving Humans: Luca Casarini, Giuseppe Caccia e don Mattia Ferrara.
I pubblici ministeri hanno disposto accertamenti tecnici irripetibili per stabilire se i dispositivi contengano tracce di Graphite, un software sviluppato dalla società israeliana Paragon, teoricamente destinato all’uso esclusivo da parte di enti governativi. Ma è proprio questo a sollevare interrogativi: chi avrebbe potuto utilizzarlo in Italia, e con quale autorizzazione?
L’indagine – che per ora resta formalmente contro ignoti – si concentra su reati come accesso abusivo a sistema informatico, intercettazione e installazione illecita di strumenti di spionaggio. Le accuse sono pesanti, anche perché riguardano giornalisti e attivisti civili, soggetti che godono di una tutela speciale nelle democrazie occidentali.
A sottolineare la gravità della situazione è stato anche Matteo Renzi. “Se davvero sono stati spiati i giornalisti di Dagospia, Fanpage e altri, siamo davanti a una svolta clamorosa. Io non condivido sempre le loro idee, ma se il governo italiano continua a far finta di nulla. Siamo in presenza di un fatto gravissimo”, ha dichiarato. “Nelle democrazie non si spiano i giornalisti. Se si spiano i direttori delle testate giornalistiche, non è più democrazia. Tutti zitti anche stavolta? #ItalianWatergate”.
Nel procedimento sono coinvolti anche l’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, che potranno nominare propri consulenti tecnici. L’attenzione è massima: l’indagine potrebbe scoperchiare un sistema di sorveglianza ben più vasto di quanto si immaginasse. E intanto, la libertà di stampa italiana si ritrova con un’altra ferita aperta.
Italia
In bilico tra spie, gaffe e sospetti: Pisani sempre più isolato dopo l’affaire Giambruno
Dagli attriti tra Digos e squadra mobile ai misteri irrisolti sull’auto dell’ex compagno della premier, passando per un ricettatore mai davvero identificato: il numero uno della Polizia è finito in un cono d’ombra. Gli ambienti di governo parlano ormai apertamente di un possibile avvicendamento. Anche l’intelligence prende le distanze.

Fino a pochi mesi fa sembrava l’uomo giusto al posto giusto. Oggi, invece, Vittorio Pisani, capo della Polizia, si muove su un terreno che ogni giorno diventa più scivoloso. L’affaire legato all’auto di Andrea Giambruno, con due uomini sospetti a trafficare nei pressi della vettura dell’ex compagno della premier, ha aperto una crepa che non si è più richiusa. E che, anzi, si è allargata fino a diventare una voragine nella fiducia tra Pisani e i vertici istituzionali.
A Palazzo Chigi il gelo è evidente. Le rassicurazioni iniziali hanno lasciato spazio a un sospetto costante e a una crescente insofferenza per la gestione dell’intera vicenda. Anche al Viminale, formalmente responsabile della nomina, si è raffreddata la stima nei confronti del superpoliziotto che un tempo sgominava i Casalesi. E persino Matteo Salvini, che lo aveva sostenuto con forza per il ruolo oggi ricoperto, ha smesso di fare scudo. Nessuno, ormai, è pronto a scommettere sulla sua permanenza.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la confusione investigativa. L’intervento iniziale della Digos – come da prassi – è stato presto affiancato, o meglio sovrastato, dalla squadra mobile di Roma, subentrata con il benestare degli alti ranghi del Dipartimento di pubblica sicurezza. Da lì è partita una catena di equivoci, smentite, attribuzioni vaghe, riconoscimenti mancati e versioni contraddittorie che non hanno fatto altro che peggiorare il quadro.
Uno dei due uomini visti vicino all’auto sarebbe stato identificato come agente dell’intelligence interna, ma poi scagionato sulla base dei dati delle celle telefoniche e dei pedaggi autostradali. L’altro? Un ricettatore di auto, forse. O forse no. Nessuna conferma solida. Solo l’ammissione di un «equivoco» e la sensazione, ancora oggi, che qualcosa non sia stato raccontato per intero.
A far salire la pressione su Pisani non è solo il caso Giambruno. Anche altri episodi hanno contribuito a minarne l’autorevolezza. Come la richiesta, a pochi giorni dalla nomina, del riconoscimento dello status di vittima del dovere per un infortunio risalente a quasi trent’anni fa. O la concessione del medesimo beneficio al suocero, con una relazione firmata proprio da lui. Vicende legittime, forse, ma mal digerite in un momento di forti tensioni interne.
E mentre il rapporto con alcune figure centrali dell’apparato – come l’ex dirigente dell’intelligence Giuseppe Del Deo – solleva più di una perplessità, si affaccia l’ipotesi di una “via d’uscita elegante”: un passaggio alla direzione dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Una mossa che eviterebbe il trauma politico di un terzo cambio al vertice della Polizia in poco più di due anni. Ma che certificherebbe, di fatto, la fine anticipata dell’era Pisani.
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