Cronaca
L’Alta Corte britannica dà ragione a Julian Assange
Julian Assange ha ottenuto il permesso di ricorrere in appello contro l’estradizione negli Stati Uniti. La decisione arriva dopo che i giudici dell’Alta Corte di Londra hanno concesso il permesso. L’udienza odierna ha visto diverse possibilità, compresa una discussione su un nuovo appello nei prossimi mesi. Assange è incriminato con 17 accuse di spionaggio e un’accusa di uso improprio del computer, rischiando fino a 175 anni di prigione.
Julian Assange ha ottenuto una vittoria significativa nella sua battaglia contro l’estradizione dal Regno Unito. I giudici dell’Alta Corte di Londra gli hanno concesso il permesso di ricorrere in appello. A marzo, due giudici avevano rinviato la decisione sulla possibilità che Assange, che sta cercando di evitare il processo negli Stati Uniti con l’accusa di spionaggio per la pubblicazione di migliaia di documenti riservati e diplomatici, potesse portare il suo caso a un’altra udienza di appello. Ad Assange era stato concesso il permesso di ricorrere in appello solo se l’amministrazione Biden non fosse stata in grado di fornire alla corte adeguate garanzie.
Invocato il primo emendamento
La discussione legale si è concentrata sulla questione delle protezioni del primo emendamento per Assange. Il team di Assange non ha contestato le garanzie sulla pena di morte, ma l’Alta Corte ha comunque stabilito che potrà ricorrere in appello. Assange è stato incriminato con 17 accuse di spionaggio e un’accusa di uso improprio del computer, rischiando fino a 175 anni di prigione per la pubblicazione sul suo sito web di una serie di documenti riservati statunitensi quasi 15 anni fa. I pubblici ministeri americani sostengono che Assange, 52 anni, abbia incoraggiato e aiutato l’analista dell’intelligence dell’esercito americano Chelsea Manning a rubare dispacci diplomatici e file militari pubblicati da WikiLeaks, mettendo a rischio vite umane.
Nuovo appello nei prossimi mesi
Nell’udienza odierna si sarebbero potuti verificare tre scenari diversi: l’Alta Corte accogliendo in pieno le garanzie Usa avrebbe potuto dare il via libera all’estradizione a stretto giro, salvo i tempi di un ricorso d’urgenza da parte del team legale di Assange alla Corte di Strasburgo; in una seconda ipotesi improbabile, si sarebbero potute accogliere immediatamente le ragioni della difesa, con la scarcerazione del giornalista e la sua eventuale partenza per l’Australia; infine, si è aperta la possibilità di una discussione di un nuovo appello nei prossimi mesi.
Diverse decine di manifestanti si sono radunati davanti alla Royal Courts of Justice di Londra, dove hanno sede la High Court e la Court of Appeal, in attesa della sentenza dei giudici. La scorsa settimana, nonostante le condizioni di salute di Assange dovute ai più di cinque anni trascorsi nel carcere londinese di massima sicurezza di Belmarsh e al periodo da rifugiato politico nell’ambasciata dell’Ecuador, sua moglie Stella Morris aveva aperto alla possibilità di una sua partecipazione all’udienza.
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Cronaca
Attentato a Ranucci, la pista albanese prende corpo: il nome di Artur Shehu entra nell’inchiesta e apre scenari internazionali
Secondo gli inquirenti il movente potrebbe essere collegato al servizio dedicato agli hotspot per migranti: una pista complessa che coinvolge rapporti economici, territori sensibili e figure vicine alla criminalità internazionale.
Nell’indagine sull’attentato contro Sigfrido Ranucci emerge un nome che porta lontano da Roma e conduce in Albania: Artur Shehu, 58 anni, imprenditore da tempo negli Stati Uniti e considerato dagli investigatori figura di peso della criminalità del suo Paese. Una presenza che torna ogni volta che si citano traffici internazionali e ambienti mafiosi. Secondo fonti giudiziarie, la sua posizione sarebbe stata segnalata anche alla Direzione investigativa antimafia, sulla base di rapporti arrivati da Valona.
L’inchiesta in TV
A indirizzare gli investigatori verso il fronte albanese è stata la puntata di Report del 21 aprile scorso, dedicata al progetto degli hotspot per migranti previsto dall’accordo Italia–Albania. Nel servizio, intitolato “(Hot) Spot Albanese”, il nome di Shehu compare più volte, associato a inchieste internazionali e presunti legami con Cosa Nostra e Sacra Corona Unita. Un elemento che, oggi, viene valutato come possibile nodo d’interesse per individuare un movente. Il programma raccontava inoltre la donazione di 30 mila metri quadrati di terreno vicino Valona a una fondazione italiana, mediata da figure vicine al governo albanese.
Una scia di ombre
La Direzione distrettuale antimafia di Roma lavora insieme ai carabinieri per chiarire se l’attentato sia la risposta a quel servizio o se si tratti di una ritorsione legata a fronti documentati in altre inchieste. Parallelamente si verifica la dinamica materiale dell’esplosione: chi ha collocato l’ordigno, se siano stati effettuati sopralluoghi, se esista un coordinamento all’estero. A inquietare ulteriormente è un precedente: la scorsa estate sarebbe stato tentato l’ingresso nella seconda casa del conduttore, episodio oggi valutato come possibile segnale d’allarme.
Dicono gli investigatori
Il quadro investigativo si muove su un terreno complesso, dove piste giudiziarie, politica internazionale e criminalità organizzata rischiano di sovrapporsi. L’ombra che attraversa l’Adriatico è ancora densa di punti oscuri, ma per gli inquirenti non è affatto marginale. La trasmissione di Ranucci, negli ultimi anni, ha più volte raccontato vicende capaci di toccare interessi economici enormi, società di mezzi e figure pubbliche di primo piano.
Per questo motivo, spiegano fonti interne, ogni collegamento viene vagliato con estrema cautela. Intorno al giornalista cresce intanto un clima di solidarietà istituzionale, con un livello di attenzione che gli investigatori definiscono «molto alto». Saranno i prossimi accertamenti a stabilire se la pista albanese supera lo stadio preliminare e diventa una direttrice concreta dell’inchiesta.
Mistero
Marilyn Monroe, mistero infinito: James Patterson rilancia l’ombra dei Kennedy, di Sinatra e della Mafia
Marilyn Monroe non smette di far parlare di sé, nemmeno 63 anni dopo la morte. Nel suo nuovo libro The Last Days of Marilyn Monroe: A True Crime Thriller, James Patterson — uno degli autori più letti al mondo — rimette in scena la teoria più inquietante: la diva sarebbe morta non per un gesto volontario, ma per le informazioni che custodiva. «Navigava in acque molto pericolose», ha detto al Hollywood Reporter. Le sue frequentazioni? John e Robert Kennedy, Frank Sinatra, figure legate alla Mafia. «Gente che le confidava cose. E lei ne teneva traccia».
Un’indagine mai chiusa, tra autopsie incomplete e detective dubbiosi
Il corpo di Marilyn fu trovato nella sua casa di Brentwood: barbiturici sul comodino, una bottiglia di Nembutal, la tesi del suicidio archivata in poche ore. Ma, ricorda Patterson, l’autopsia «non fu completa come avrebbe dovuto». Non tutti i dettagli tornarono. E uno dei detective arrivati sul posto si convinse “di trovarsi davanti a una messa in scena”. Elementi che alimentano un alone di sospetto mai dissolto, alimentato dalle tantissime versioni circolate negli anni.
Una vita romanzo, tra dodici famiglie affidatarie e un talento che travolge
Il libro scritto con Imogen Edwards-Jones si muove tra fatti, ricostruzioni e dialoghi immaginati — dichiarati come tali — ripercorrendo anche l’infanzia drammatica della diva, cresciuta in undici famiglie affidatarie e segnata da una balbuzie che solo anni dopo riuscì a controllare. Patterson sostiene che il pubblico non conosca davvero la sua storia e che, dietro ogni fotografia patinata, ci fosse un percorso pieno di crepe e fragilità.
Oggi Marilyn è ancora al centro della cultura pop come simbolo, ossessione e mito irrisolto. Patterson spera ora che il libro diventi una serie tv. Per Hollywood, un altro tassello nell’eterno ritorno della sua stella più luminosa — e più controversa.
Mondo
I diari di Comey riaprono il caso Trump–Russia: tra “pioggia dorata”, richieste di lealtà e vanti di Putin sulle “migliori prostitute del mondo”
Dai colloqui descritti nei diari di James Comey emergono dettagli esplosivi: Trump che nega prostitute e molestie, Putin che gli vanta “le migliori prostitute del mondo”, le richieste di “lealtà” alla Casa Bianca, la “roba della pioggia dorata” e le pressioni per indagare sul dossier Steele. Appunti che riaprono il nodo: il presidente ostacolò la giustizia?
Il materiale pubblicato nei diari di James Comey è di quelli destinati a riscrivere la narrativa del Russiagate. Non solo retroscena, ma frammenti di conversazioni tra l’allora direttore dell’Fbi e Donald Trump che riportano alla luce uno dei periodi più tesi e surreali della Casa Bianca. E tra i passaggi più incredibili, c’è perfino Vladimir Putin che si vantava col presidente americano di avere “le migliori prostitute del mondo”. Una frase che da sola basterebbe a spiegare perché, ancora oggi, quei dossier fanno tremare Washington.
Il primo incontro: il dossier Steele e la smentita di Trump
Il primo colloquio avviene a New York, poco dopo le elezioni. Comey informa Trump delle accuse contenute nel rapporto Steele: presunti incontri con prostitute al Ritz Carlton di Mosca nel 2013. Trump lo interrompe: «Non c’erano prostitute, non ci sono mai state». Ride, lasciando intendere di non aver bisogno di pagare per il sesso. Poi smentisce anche le accuse di molestie da parte di una stripper. Nessuna incertezza, nessun tentennamento: solo negazioni.
La cena nella Green Room e la richiesta che spiazza Comey
Il 28 gennaio 2017, nella Green Room della Casa Bianca, tutto si fa ancora più incandescente. «Mi serve lealtà, mi aspetto lealtà», dice Trump. Comey tace, lui se ne accorge. La conversazione è caotica: mail di Hillary Clinton, soffiate, sospetti sul vice McCabe. Finché non riaffiora la questione più delicata: la “pioggia dorata”. Trump ribadisce che era una fake news e confida di essere infastidito dal fatto che la moglie possa crederci. Poi insiste: vuole che l’Fbi indaghi per dimostrare che la storia è falsa. Comey gli spiega che così sembrerebbe sotto inchiesta. Trump torna alla carica: «Ho bisogno di lealtà». Lui concede solo “onestà”. Trump replica: «Lealtà onesta». Un compromesso che sembra uscito da un dialogo teatrale.
Priebus, Flynn e il mosaico dell’inchiesta
L’8 febbraio Comey incontra il capo di gabinetto Reince Priebus. Gli spiega che alcune parti del dossier Steele sono state corroborate da altra intelligence. Priebus vuole sapere se esiste un ordine per spiare Michael Flynn. Poi cerca di capire perché Hillary Clinton non sia stata incriminata. Poco dopo, Trump appare e ripete la sua posizione: la storia è falsa. Ma aggiunge un dettaglio che gela la stanza: «Putin mi ha detto che in Russia hanno alcune delle migliori prostitute del mondo». Un’affermazione che pare più una vanteria che una difesa.
Il nodo politico e giudiziario: ostacolo alla giustizia?
I memo riportano non solo scene imbarazzanti, ma anche pressioni che potrebbero essere interpretate come tentativi di influenzare l’operato dell’Fbi. Richieste di lealtà personale, pressioni sulle indagini, sospetti interni, tentativi di indirizzare la narrativa pubblica. Tutto questo mentre l’ombra del Russiagate si allungava sulla presidenza.
Un caso che continua a parlare
A distanza di anni, le parole annotate da Comey restano uno degli strumenti più preziosi per capire la tensione di quei mesi. Un racconto fatto di frasi scomposte, richieste sibilline e dettagli imbarazzanti, in cui la politica si mescola allo show. E ogni memo diventa un tassello che riporta al centro una domanda sospesa: quanto lontano si spinse davvero la Casa Bianca?
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