Cronaca
Il principe, il guappo e il ritorno dei gioielli a Napoli
La storia del ritorno del Tesoro di San Gennaro è un intreccio di coraggio, ingegno e devozione. Il principe e il guappo, con la loro incredibile avventura, hanno garantito che uno dei più grandi tesori del mondo tornasse al suo legittimo posto, arricchendo ulteriormente la leggenda e la storia di Napoli.

Il Tesoro di San Gennaro, considerato il primo tesoro al mondo per valore, supera persino quello della corona inglese. Un esempio straordinario è la mitra, ornata con 3694 pietre preziose tra diamanti, rubini e smeraldi. Ma come è tornato questo tesoro a Napoli? Scopriamo insieme l’affascinante storia del principe e del guappo che, sull’ex auto di Mussolini, riportarono i gioielli nella città partenopea.
Il tesoro di San Gennaro durante la guerra
Il 26 maggio 1943, in piena Seconda Guerra Mondiale, il principe Stefano Colonna di Paliano arrivò a Montecassino con una missione segreta: consegnare tre casse di legno sigillate con piombo all’abate Gregorio Diamare. Il principe, rappresentante della Deputazione di San Gennaro, sperava che Montecassino, ritenuta inaccessibile, fosse un rifugio sicuro per il tesoro, lontano dai bombardamenti che devastavano Napoli.
La minaccia ai tesori di Montecassino
Contrariamente alle aspettative, Montecassino divenne un bersaglio centrale negli scontri tra Alleati e tedeschi. Il 14 ottobre 1943, due ufficiali della Wehrmacht si presentarono con tre camion della divisione Göring per trasportare preziosi libri e documenti della biblioteca a Roma. Tra questi, nascosti abilmente, c’erano i gioielli del Tesoro di San Gennaro.

La custodia vaticana e il richiamo del tesoro
Le casse arrivarono alla Biblioteca Vaticana, dove furono custodite fino alla liberazione di Roma il 4 giugno 1944. I Benedettini e il Vaticano chiesero alla Deputazione di riprendersi il tesoro, ma le condizioni economiche e la situazione instabile ritardarono il trasferimento. Si giunse così a marzo 1947, quando il guappo napoletano Giuseppe Navarra, detto “il re di Poggioreale”, si offrì per la missione.
Il guappo Navarra e la missione di ritorno
Giuseppe Navarra, famoso a Napoli e rispettato dagli americani, possedeva una Lancia Dilambda 12 cilindri appartenuta a Mussolini. Insieme al principe Stefano Colonna di Paliano, ormai quasi novantenne, si preparò per riportare il tesoro a Napoli. Il cardinale Ascalesi fornì un lasciapassare e, con la garanzia del principe, il Vaticano consegnò le casse.


Il ritorno a Napoli
Secondo fonti ufficiali, il tesoro tornò a Napoli il 5 marzo 1947. Altri sostengono fosse il 5 gennaio. Indipendentemente dalla data esatta, il principe e il guappo viaggiarono senza scorta, attraversando pericoli come ponti crollati, posti di blocco e banditi. La leggenda narra che Navarra ingannò i banditi dicendo che trasportava cravatte e calzini e mostrando il principe svenuto per paura.
Accoglienza e riconoscimenti
Il tesoro arrivò a Napoli tra l’entusiasmo della folla, in una scena che ricorda il film “Operazione San Gennaro” con Nino Manfredi. Per il suo coraggio, il cardinale Ascalesi inviò a Navarra una lettera di ringraziamento con centomila lire, che Navarra restituì con duecentomila lire, destinati ai poveri.
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Cronaca Nera
La madre di Andrea Sempio rompe il silenzio: «Non ha ucciso Chiara Poggi, sta pagando un’accusa ingiusta»
Dopo mesi di sospetti, microfoni e titoli urlati, la madre di Andrea Sempio racconta l’angoscia di una famiglia nell’occhio del ciclone. Dallo «scontrino del parcheggio» al peso dei giudizi mediatici, l’appello è uno solo: «Chiarite tutto, mio figlio non ha mai fatto del male a Chiara».

Stamattina, davanti al cancello di casa, Daniela Ferrari ha deciso di parlare. «Basta con le bugie in tv e sui giornali», ha detto affrontando le telecamere di Morning News. Lo ha fatto con la voce ferma di chi da 151 giorni vede la faccia del proprio figlio passare da un talk show all’altro come quella di un assassino annunciato. Eppure, giura, Andrea Sempio non ha ucciso Chiara Poggi.
Il nuovo capitolo del giallo di Garlasco ha travolto ancora una volta la sua famiglia. Da quando la Procura ha riaperto l’inchiesta puntando i riflettori sul ragazzo, la vita nella villetta di provincia è diventata un inferno di chiamate, sguardi e sospetti. «Non ha ammazzato Chiara e lo ripeterò fino alla morte», ha detto la madre davanti ai microfoni, ripercorrendo punto per punto i tasselli di una vicenda che non sembra finire mai.
Ferrari ha parlato dell’alibi di Andrea, legato a un dettaglio minuscolo ma diventato simbolico: uno scontrino del parcheggio di Vigevano. «Quel pezzo di carta l’ho conservato su consiglio delle detenute del carcere dove ho lavorato negli anni Ottanta», ha spiegato. «Mi dicevano: qualsiasi cosa succeda, tieni le prove. E così ho fatto». Secondo lei, quello scontrino dimostra che Andrea era altrove, lontano dalla casa dei Poggi.
Poi ha ricordato l’interrogatorio che l’ha vista protagonista, quando ha scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere. «Mi sentivo già male prima, avevo capogiri. Non sono mai svenuta, ma la pressione di quei momenti è stata devastante», ha raccontato. Intorno, il clima familiare è fatto di ansia costante e sospetti che corrono più veloci della giustizia.
Daniela ripercorre con precisione la mattina del 13 agosto 2007. «Io ero in auto a Gambolò, mio marito a casa con Andrea. Quando sono tornata, lui è andato a Vigevano e poi dalla nonna. È rientrato con gli stessi vestiti, puliti, senza una macchia. Se fosse stato nella casa di Chiara, come dicono, come avrebbe fatto a non sporcarsi di sangue?»
Il punto cruciale, per lei, resta uno: «Non esiste impronta che possa cambiare la verità. Mio figlio non è entrato in quella casa per uccidere Chiara». E aggiunge: «Credo che i Poggi sappiano che Andrea non c’entra nulla. Non aveva motivi, lei era solo la sorella di un suo amico».
La madre non nasconde la paura di un processo che potrebbe trascinarsi per anni. «E se lo arrestassero? Sarebbe arrestato da innocente», sospira. «Noi stiamo vivendo nell’angoscia dalla mattina alla sera. La nostra salute si sta rovinando sul nulla».
E c’è spazio anche per l’amarezza verso l’eco mediatica: «Gli imbecilli che pensano che sia colpevole ci saranno sempre. Si sta puntando a mio figlio per ripulire la faccia di qualcun altro», un riferimento chiaro, seppur mai nominato, ad Alberto Stasi, il primo imputato del caso.
Il suo appello finale è un misto di speranza e stanchezza: «Spero che la Procura chiarisca tutto il prima possibile. Noi viviamo con la sensazione di essere già stati condannati senza processo».
Cronaca
A Treviso scatta la guerra ai ratti: trappole al prosecco per debellare 800mila roditori
L’idea arriva dalla Mayer Braun, azienda trevigiana che ha già ripulito metropoli come Londra e New York. La Ceo Barbara Donadon racconta il progetto: «Il ratto ama ciò che mangiamo noi. A Treviso lo attiriamo col prosecco, in autunno useremo le nuove uve». Il piano prevede anche rapaci, monitoraggi e campagne di sensibilizzazione per ristoratori e cittadini.

Treviso ha deciso di dichiarare guerra ai suoi abitanti più indesiderati: circa 800mila ratti, dieci per ogni residente. Per farlo, ha scelto una strategia che sembra uscita da un racconto surreale, ma che ha basi scientifiche ben solide: trappole al prosecco. A idearle è la Mayer Braun, società con sede a Carbonera, che da decenni esporta la sua arte della derattizzazione nelle grandi capitali mondiali, da Londra a New York, fino a Dubai. «Il nostro approccio – spiega Barbara Donadon, Ceo dell’azienda – nasce da un’idea semplice: il topo è attratto da ciò che piace all’uomo e si nutre degli scarti che lasciamo. Per catturarlo bisogna parlargli con i nostri stessi sapori».
La “cucina stellata del ratto”, come la chiamano ironicamente in azienda, ha già collezionato un menu di esche gourmet degno di un ristorante internazionale: aromi di pop corn negli Stati Uniti, strutto a Londra, carne speziata a Dubai e pastasciutta in Italia. Ora, per la campagna trevigiana, arriva la novità più iconica: il prosecco. «Abbiamo testato l’aroma delle uve della prossima vendemmia e i roditori ne sono irresistibilmente attratti – racconta Donadon –. L’effetto è duplice: li attira e, grazie alla componente alcolica, li stordisce prima della fine. È un modo ironico di dire che muoiono… allegri».
Il piano cittadino non si ferma però alle esche profumate di bollicine. L’amministrazione ha predisposto un rafforzamento del monitoraggio, unito a una campagna di sensibilizzazione per residenti e ristoratori. Una brochure spiega come gestire al meglio i rifiuti domestici e l’umido, evitare ciotole di cibo all’aperto e proteggere le aree dei locali che servono tavoli esterni, riducendo al minimo la disponibilità di cibo per i roditori. A completare la strategia, entra in scena anche la natura: i rapaci notturni, in particolare l’allocco, saranno incoraggiati a nidificare in città come alleati silenziosi nella battaglia.
Così Treviso si prepara a una vendemmia speciale: non solo calici di prosecco per gli umani, ma anche trappole profumate per i topi, nella speranza che la città delle bollicine diventi presto off‑limits per gli ospiti più sgraditi.
Mondo
Elon Musk: “Hanno provato a uccidermi due volte. Costruirò un’armatura da Iron Man”
Elon Musk, patron di Tesla e SpaceX, rivela su Twitter di essere stato bersaglio di due tentativi di omicidio negli ultimi otto mesi, suggerendo ironicamente la costruzione di un’armatura alla Iron Man per proteggersi.

La foto iconica di Donald Trump che alza il pugno al cielo, circondato dagli agenti del Secret Service, rappresenta l’attentato sventato contro l’ex presidente. In questo clima di tensione, Elon Musk ha preso la parola sul suo social, X (ex Twitter), per rispondere ai commenti che lo coinvolgevano direttamente.
Ian Miles Cheong, amico di Musk, ha scritto: «Se arrivano a Trump, verranno anche per te». Musk ha risposto rivelando che due persone hanno già cercato di ucciderlo negli ultimi otto mesi, aggiungendo che sono stati arrestati con delle pistole vicino al quartier generale di Tesla in Texas.
L’idea dell’armatura di metallo
In seguito a un altro tweet, Musk ha accennato ironicamente alla possibilità di costruire un’armatura volante di metallo per proteggersi, ispirata a quella indossata da Tony Stark, il miliardario protagonista del fumetto Iron Man. Questo personaggio della Marvel Comics è noto per aver costruito un’avanzatissima armatura tecnologica che gli conferisce superpoteri. Musk, noto per le sue visioni futuristiche e audaci, ha fatto questa dichiarazione in risposta a un suggerimento su come rafforzare la sua sicurezza personale.
Una nuova sfida per Musk?
Elon Musk non è estraneo alle idee visionarie e ai progetti audaci. Che si tratti di viaggi nello spazio con SpaceX, di rivoluzionare il settore automobilistico con Tesla, o di sviluppare l’Hyperloop, Musk ha sempre spinto i confini dell’innovazione. L’idea di un’armatura alla Iron Man potrebbe sembrare uscita da un fumetto, ma con Musk alla guida, nulla sembra impossibile. I suoi progetti spesso combinano tecnologia avanzata e immaginazione senza limiti, rendendo plausibile che possa effettivamente lavorare su una protezione personale ispirata ai supereroi.
Protezione e sicurezza ai massimi livelli
Con due tentativi di omicidio alle spalle, Musk ha tutte le ragioni per prendere sul serio la sua sicurezza personale. La creazione di un’armatura avanzata, sebbene al momento sia solo un’idea ironica, potrebbe rappresentare un passo verso nuove frontiere nella protezione personale. E chi meglio di Musk potrebbe trasformare un’idea apparentemente fantastica in realtà?
Come Iron Man
Mentre il mondo osserva e commenta, Elon Musk continua a sfidare le convenzioni e a immaginare un futuro che sembra uscito direttamente dalle pagine di un fumetto. Che l’armatura alla Iron Man diventi realtà o rimanga un’ironica suggestione, una cosa è certa: Musk non smetterà mai di sorprenderci con le sue trovate fuori dagli schemi.
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