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Abusi nella Chiesa in Alto Adige: il dossier di Bolzano sui preti pedofili svela 67 casi di violenze insabbiate
Un’indagine indipendente scoperchia decenni di silenzi e coperture. «Ogni caso è un caso di troppo», afferma il vescovo Muser.

La Diocesi di Bolzano-Bressanone ha pubblicato il primo rapporto indipendente sugli abusi sessuali commessi dal clero locale tra il 1964 e il 2023. Il dossier, commissionato allo studio legale tedesco Westpfahl-Spilker-Wastl, ha portato alla luce 67 casi di abusi sessuali su minori. 59 le vittime accertate e 29 sacerdoti riconosciuti colpevoli. I dettagli emersi dipingono un quadro inquietante di violenze protratte per decenni, coperture sistematiche e trasferimenti sospetti all’interno delle parrocchie.
I numeri della vergogna
Secondo il rapporto, la maggior parte delle vittime (51%) sono bambine e ragazze. Un dato in controtendenza rispetto ad altre inchieste europee, dove le vittime sono in prevalenza di sesso maschile. L’età media delle vittime è compresa tra 8 e 14 anni, mentre quella dei sacerdoti abusatori tra 28 e 35 anni. L’indagine ha esaminato circa 1.000 fascicoli. Ha rivelato come, fino al 2010, la diocesi abbia sistematicamente ignorato o minimizzato le denunce. Ha adottato la pratica di spostare i preti accusati da una parrocchia all’altra, anziché rimuoverli o segnalarli alle autorità. Emblematico è il caso di un sacerdote che, nonostante fosse stato denunciato più volte, ha continuato ad abusare per quasi 50 anni, cambiando ripetutamente incarico.
Gli abusi e l’omertà ecclesiastica
Il rapporto contiene testimonianze scioccanti. Come quella di una vittima che ha raccontato di essere stata abusata per cinque anni negli anni ’80 da un sacerdote, poi arrestato e condannato. Ma lo stesso dopo aver scontato la pena è stato trasferito in un’altra comunità. Un caso particolarmente drammatico è quello di un giovane insegnante suicida, il cui funerale fu celebrato dallo stesso sacerdote accusato di averlo molestato da bambino, suscitando l’indignazione della comunità. Molti sacerdoti coinvolti, anziché essere allontanati, venivano inviati in altre parrocchie o addirittura promossi a incarichi prestigiosi. In un episodio riportato nel dossier, un prete accusato di molestie a minori venne assegnato alla preparazione alla Cresima in una scuola, nonostante le segnalazioni.
Il confronto con gli scandali internazionali
Il rapporto di Bolzano si inserisce in un contesto più ampio di scandali che hanno colpito la Chiesa in tutto il mondo. In Germania, nel 2018 un’indagine della Conferenza episcopale rivelò 3.677 vittime di abusi da parte di 1.670 sacerdoti tra il 1946 e il 2014. La diocesi di Monaco fu coinvolta in episodi che videro implicato anche l’allora cardinale Joseph Ratzinger. In Francia, nel 2021, l’inchiesta indipendente della Commissione Sauvé ha stimato 330.000 vittime di abusi commessi da sacerdoti dal 1950 a oggi. Negli Stati Uniti, lo scandalo del 2002, esploso a Boston, ha portato alla luce migliaia di casi e risarcimenti milionari. Con la conseguente rimozione di numerosi prelati e una profonda crisi di fiducia nella Chiesa cattolica americana.
Abusi: la reazione della CEI e del Vaticano
La Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ha avviato la sua prima indagine nazionale nel 2022, affidandola all’Istituto degli Innocenti di Firenze e all’Università di Bologna. Ma i risultati riguardano solo i casi già denunciati tra il 2001 e il 2021, suscitando critiche per la mancanza di trasparenza e indipendenza dell’inchiesta. Il Vaticano, da parte sua, ha emanato negli ultimi anni normative più stringenti sulla gestione degli abusi, con Papa Francesco che ha istituito nuove regole per la tutela dei minori e sanzioni più severe per i responsabili. Tuttavia, molte diocesi italiane faticano ancora ad attuare concretamente tali misure.
Le ripercussioni sociali e la richiesta di giustizia
Le rivelazioni contenute nel dossier di Bolzano hanno sollevato un’ondata di indignazione e richieste di maggiore trasparenza. Le vittime e le associazioni che le rappresentano chiedono giustizia e azioni concrete per evitare che simili orrori possano ripetersi. Il vescovo Ivo Muser ha dichiarato che il rapporto rappresenta «un punto di partenza e non di arrivo» e ha promesso maggiore attenzione nella prevenzione e ascolto delle vittime. «La Chiesa deve cambiare mentalità e mettere al centro le vittime», ha affermato l’avvocato Ulrich Wastl, curatore del dossier, sottolineando l’importanza di un’indagine estesa a tutto il territorio nazionale. Il rapporto di Bolzano-Bressanone segna un precedente importante per la Chiesa italiana, che finora ha evitato di affrontare apertamente la questione con analisi indipendenti. Gli esperti sottolineano che i casi accertati rappresentano solo «la punta dell’iceberg» di un fenomeno ancora in gran parte sommerso.
Il silenzio della Chiesa sugli abusi
In Italia uno scandalo sistemico non è mai esploso. Le denunce hanno riguardato singoli sacerdoti o istituti religiosi, ma non sono emerse inchieste indipendenti di vasta portata. Tuttavia, nel 2024, un gruppo di giornalisti ha tentato di rompere il silenzio con il podcast “La Confessione”, curato da Federica Tourn, Stefano Feltri e Giorgio Meletti. Il podcast ricostruisce la vicenda di Antonio Messina, abusato dal prete siciliano Giuseppe Rugolo, e coperto dal vescovo di Piazza Armerina, Rosario Gisana. Il vescovo tentò di comprare il silenzio della vittima con 25mila euro, usando fondi della Caritas e dell’8 per mille. Le intercettazioni rivelano frasi scioccanti come «Ho insabbiato io questa storia», pronunciata dallo stesso Gisana. E inoltre l’uso sistematico della rete ecclesiastica per coprire gli abusi. Papa Francesco, nel 2023, ha pubblicamente lodato Gisana definendolo «un uomo giusto» mentre era in corso il processo contro Rugolo, condannato poi a 4 anni e 6 mesi.
L’effetto domino: dagli Stati Uniti all’Europa
L’emersione degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica è un processo relativamente recente, ma ha avuto una svolta decisiva con Joseph Ratzinger, prima da cardinale e poi da papa Benedetto XVI. Nel Venerdì Santo del 2005, a pochi giorni dall’elezione al soglio pontificio, denunciò la “sporcizia nella Chiesa”, riferendosi allo scandalo del fondatore dei Legionari di Cristo, Marcial Maciel, responsabile di oltre 170 abusi. Il primo Paese travolto fu l’Irlanda, dove il Rapporto Murphy del 2009 rivelò decine di migliaia di casi di abusi, insabbiamenti e coperture sistematiche da parte di quattro ex arcivescovi di Dublino. Il cardinale Dermot Martin raccontò di aver pianto disperatamente leggendo le testimonianze delle vittime.
A livello globale, le inchieste indipendenti hanno portato a risultati devastanti
Negli Stati Uniti, il lavoro investigativo del Boston Globe (raccontato nel film Il Caso Spotlight) portò alla luce centinaia di casi nella diocesi di Boston. Indagine come già scritto che costrinse alle dimissioni il cardinale Bernard Law, poi “protetto” dal Vaticano. Gli scandali costarono alla Chiesa americana miliardi di dollari in risarcimenti. Nel 2018, la Chiesa cilena si dimise in blocco dopo un’inchiesta sugli insabbiamenti, mentre il 2010 è ricordato come l’annus horribilis, con le chiese di Belgio, Olanda, Inghilterra e Austria travolte da scandali. Ma non basta. Dopo Irlanda, Usa, Francia e Germania anche in Spagna (2023) il governo ha stimato oltre 440mila casi di abusi da parte del clero.
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Melania Trumpenko, l’eroina di Kiev: “Lavora sotto copertura per l’Ucraina”
Dopo le parole di Donald Trump che rivelano il ruolo della moglie nel condannare gli attacchi russi, i social ucraini si scatenano. Melania viene celebrata come un’agente segreta pro-Kiev, tra fotomontaggi, citazioni da “Dune” e applausi digitali per la sua freddezza slava.

Incredibile ma vero: Melania Trump è diventata l’idolo degli ucraini. E no, non si tratta di un colpo di scena geopolitico né di una mossa diplomatica ufficiale. È bastata una frase di Donald Trump – e qualche battuta sulla freddezza della consorte – per accendere i social media dell’Ucraina, che ora la ritraggono come una sorta di agente segreto infiltrato nella Casa Bianca a favore di Kiev.

Il tutto nasce da una confidenza dell’ex presidente americano – anzi, presidente in carica, purtroppo – che ha raccontato di come Melania gli abbia fatto notare più volte le incongruenze tra i toni accomodanti del Cremlino e la brutalità degli attacchi contro le città ucraine. “Ho parlato con Vladimir oggi, è stata un’ottima conversazione”, avrebbe detto lui una sera. E lei, glaciale: “Davvero? Perché nel frattempo ha bombardato una casa di cura”.
Un commento asciutto, tagliente. E, come spesso accade nell’epoca dei meme, destinato a diventare virale. Su X (ex Twitter), Telegram e Instagram, la fantasia degli utenti ucraini si è scatenata. C’è chi l’ha ribattezzata “Melania Trumpenko”, agente speciale al servizio della libertà. Chi la ritrae con un cappotto blu e giallo e il tridente ucraino sul petto, in pose da spia sotto copertura. E chi, con più cultura pop, la paragona addirittura alle sorelle Bene Gesserit di Dune, potenti e misteriose manipolatrici del destino politico.
“Non è lui che comanda: è lei che lo guida”, scrive un utente, accostando una foto della ex modella slovena al classico sguardo da femme fatale degli 007. “Melania è una di noi”, dice un altro, condividendo un’immagine della first lady che osserva Trump firmare un decreto con aria di chi, in cuor suo, sa già che sarà lei a cambiare le carte in tavola.
La rivista Business in Ukraine ha registrato il fenomeno con un certo stupore: “Sui social c’è amore per Melania. Silenziosa, enigmatica, ma evidentemente molto più influente di quanto si credesse”.
La verità, come sempre, sta nel mezzo. Forse Melania non ha davvero una linea diretta con Zelensky. Ma la sua capacità di mettere in crisi il marito con una sola frase ben piazzata le ha valso qualcosa di più raro di una nomina ufficiale: l’affetto del popolo social ucraino. E la consacrazione a icona postmoderna della resistenza, suo malgrado.
Mondo
Il fantasma di Epstein perseguita ancora Trump: «Aveva foto con ragazze giovanissime sulle ginocchia»
Tra accuse di riciclaggio, gelosie immobiliari, ragazze dall’età incerta e una cassaforte piena di Polaroid compromettenti, l’ombra di Epstein torna a perseguitare Trump. E stavolta a suonare l’allarme sono proprio i suoi ex fedelissimi, inferociti per l’improvviso dietrofront sulla pubblicazione dei file del caso.

Jeffrey Epstein è morto, sì. Ma non ha mai smesso di tormentare il presidente Donald Trump. Secondo Michael Wolff, giornalista e biografo del tycoon, i due “sono stati migliori amici per quasi quindici anni”, un sodalizio basato su affari, feste e donne molto, molto giovani. La rottura? Una questione immobiliare a Palm Beach. Trump avrebbe soffiato una villa al finanziere, che reagì accusandolo di riciclare soldi per conto dei russi. E, soprattutto, minacciò vendetta.
Wolff racconta di aver visto con i propri occhi delle foto compromettenti nella villa di Epstein: Polaroid dove si vede il presidente con “ragazze dall’età incerta, due a seno nudo sedute sulle sue ginocchia”. In una terza immagine, Trump sorride con i pantaloni macchiati mentre le giovani ridono e lo indicano. Tutto questo nel cuore della famigerata residenza di Palm Beach, la stessa in cui Epstein organizzava i suoi “appuntamenti”.
Le immagini, secondo Wolff, erano custodite nella cassaforte che l’FBI svuotò durante il blitz del 2019, poco prima che Epstein venisse trovato impiccato in carcere. E proprio da lì partono nuove teorie: c’è chi, nel fronte pro-Trump, accusa il suo entourage di nascondere quei file. Il giornalista e attivista Mike Cernovich ha scritto: “Nessuno crede alla copertura. Questo farà parte della tua eredità, Donald”. Anche tra i fedelissimi MAGA cresce la frustrazione: se il presidente prometteva trasparenza, perché i file Epstein non sono mai stati resi pubblici?
E mentre Pam Bondi, ex procuratrice e oggi alleata di Trump, ha detto di “averli sulla scrivania” ma di non volerli più mostrare, la base si spacca. Il caso Epstein, che per anni è stato usato dai trumpiani contro i democratici, ora torna indietro come un boomerang. E colpisce dritto nella cassaforte del presidente.
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Trump contro Rosie O’Donnell: “Le revocherò la cittadinanza”. Ma lei replica: “È un vecchio pericoloso e senza anima”
Rosie O’Donnell, in esilio volontario in Irlanda dopo la seconda elezione di Trump, è finita nel mirino del presidente che ora vuole toglierle la cittadinanza. La replica dell’attrice è durissima: “Ha la demenza, è un truffatore senza empatia”

Donald Trump non dimentica e, soprattutto, non perdona. Nel mirino del presidente Usa finisce ancora una volta Rosie O’Donnell, attrice e comica americana che da oltre vent’anni lo attacca pubblicamente. Questa volta, però, l’ex conduttrice di “The View” è diventata bersaglio di una minaccia senza precedenti: la revoca della cittadinanza.
“Dal momento che Rosie O’Donnell non è nel migliore interesse del nostro Grande Paese – ha scritto Trump su Truth Social – sto seriamente prendendo in considerazione l’idea di toglierle la cittadinanza. È una minaccia per l’umanità e dovrebbe restare nella meravigliosa Irlanda, se la vogliono. Dio benedica l’America!”.
L’affondo arriva a pochi mesi dall’insediamento per il secondo mandato alla Casa Bianca. La faida tra Trump e O’Donnell, una delle più note e longeve della cultura pop americana, risale al 2006. All’epoca Rosie lo aveva attaccato in diretta tv per la sua “mancanza di bussola morale”, dando inizio a un botta e risposta feroce e mai sopito.
Dopo la seconda elezione di Trump, O’Donnell si è trasferita in Irlanda, dove vive oggi, lontana dai riflettori politici statunitensi ma sempre pronta a commentare. E infatti non ha perso tempo nel rispondere: “Trump è un truffatore, un criminale e un bugiardo che danneggia la nostra nazione per servire se stesso – ha scritto sui social –. È un vecchio pericoloso, senz’anima, con la demenza, privo di empatia e compassione. Per questo ho lasciato l’America. Sono in opposizione diretta a tutto ciò che rappresenta”.
La minaccia di revocare la cittadinanza, però, sembra destinata a rimanere solo uno sfogo social. Come ricordano diversi giuristi americani, la cittadinanza per nascita è protetta dal XIV emendamento della Costituzione e non può essere revocata arbitrariamente, a meno di rinuncia volontaria o frode documentale comprovata.
Eppure l’episodio alimenta le crescenti tensioni tra politica e libertà di espressione negli Stati Uniti. Trump, più che punire un’avversaria, sembra voler lanciare un messaggio: chi lo ostacola pubblicamente, anche dall’estero, rischia di finire nel tritacarne mediatico e istituzionale. Rosie, come sempre, incassa e rilancia.
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