Cronaca
Mattarella in Vaticano: primo incontro ufficiale con papa Leone XIV, tra famiglia e fiori tricolore
Il presidente Mattarella ha incontrato papa Leone XIV al Palazzo Apostolico in Vaticano. Una visita solenne e familiare: Mattarella era con i figli, i nipoti e la delegazione istituzionale. Dopo l’udienza con il Pontefice, l’incontro con il Segretario di Stato Parolin.

È iniziata alle prime luci del mattino la prima visita ufficiale del presidente della Repubblica Sergio Mattarella a papa Leone XIV, al secolo Robert Prevost, eletto pontefice il 7 maggio scorso. L’incontro si è svolto nel Palazzo Apostolico in Vaticano, luogo simbolo del potere spirituale e politico della Chiesa. Un incontro cordiale, che rappresenta il primo passo formale nei rapporti tra il nuovo Pontefice e il Capo dello Stato italiano.
Mattarella è stato accompagnato dai figli Laura, Bernardo e Francesco, dai rispettivi consorti e da cinque nipoti. La presenza della famiglia ha conferito un tono familiare e al tempo stesso solenne all’appuntamento. Con loro, nella delegazione ufficiale, c’era anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani, in veste di vicepresidente del Consiglio, insieme all’ambasciatore italiano presso la Santa Sede Francesco Di Nitto e al segretario generale del Quirinale Ugo Zampetti.
A ricevere il presidente e i suoi cari nel cortile di San Damaso, all’interno delle mura vaticane, è stato monsignor Leonardo Sapienza, reggente della prefettura della casa pontificia. L’arrivo di Mattarella è stato salutato da una composizione di fiori tricolore collocata in una delle fontane, un omaggio sobrio ma eloquente.
Dopo un primo incontro informale il 18 maggio scorso, a conclusione della messa di inizio del pontificato, l’udienza odierna segna l’avvio ufficiale dei rapporti tra il presidente italiano e il successore di Pietro. Un’occasione di dialogo sui temi comuni, dalla pace internazionale alla giustizia sociale, che la Chiesa e lo Stato condividono come priorità.
Dopo l’udienza con papa Leone XIV, Mattarella ha incontrato il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano. Poi, poco prima delle 11, ha lasciato il Vaticano. Ma non prima di aver rinnovato il legame storico e simbolico che unisce il Quirinale alla Santa Sede.
La giornata proseguirà per Leone XIV con un altro incontro istituzionale di rilievo: il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa sarà ricevuto in Vaticano nel corso della mattinata.
Non è la prima volta che Mattarella varca i portoni del Vaticano da Capo dello Stato. Durante il pontificato di papa Francesco, lo fece in due occasioni, l’ultima nel dicembre 2021, per quello che sembrava un saluto di fine mandato. E invece, un mese dopo, sarebbe stato rieletto per un secondo settennato. Segno di un dialogo costante tra le due sponde del Tevere, nel segno della continuità istituzionale e del rispetto reciproco.
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Mondo
Trump umiliato da un giudice: la Guardia Nazionale deve tornare alla California
Gavin Newsom vince in tribunale: Trump ha superato i limiti costituzionali nel dispiegare la Guardia Nazionale. Il presidente dovrà restituire il controllo delle truppe allo Stato. La Casa Bianca grida all’abuso giudiziario, ma il danno politico è fatto.

Un altro schiaffone per Donald Trump. Non dalle urne, non dai democratici, ma direttamente da una corte federale. Il giudice Charles Breyer, togato di lungo corso a San Francisco, ha deciso che l’ex presidente ha agito in violazione della Costituzione quando ha ordinato il dispiegamento della Guardia Nazionale in California.
In particolare a Los Angeles, dove ha inviato le truppe per presidiare edifici federali e reprimere le proteste, scavalcando il governo statale.
La sentenza – 36 pagine fitte e giuridicamente inappellabili – è una vittoria fragorosa per Gavin Newsom, governatore democratico della California, che aveva citato in giudizio l’ex presidente all’inizio della settimana.
Un atto che sembrava solo politico, e invece ha trovato pieno accoglimento in tribunale. Breyer ha scritto nero su bianco che Trump ha oltrepassato i limiti del suo potere e violato il decimo emendamento, quello che garantisce agli Stati l’autonomia su tutto ciò che non è espressamente demandato al governo federale.
La sentenza è destinata a far rumore. Anche perché Trump, da comandante in capo, ha sempre rivendicato il diritto assoluto di impiegare la Guardia Nazionale come strumento d’ordine pubblico, anche contro il parere degli Stati. L’amministrazione ha già annunciato ricorso, parlando di “straordinaria intrusione nei poteri presidenziali”.
Il Dipartimento di Giustizia ha chiesto la sospensione della sentenza, sostenendo che il presidente ha il diritto, quando lo ritiene necessario, di mobilitare le truppe statali per proteggere i funzionari e gli edifici federali.
Ma il danno d’immagine è fatto. L’ex presidente si ritrova ancora una volta nell’angolo, accusato di autoritarismo, di scavalcare la democrazia locale per piegarla a fini di propaganda. Gavin Newsom lo ha scritto chiaramente su X: “Un tribunale ha confermato ciò che tutti sappiamo: l’esercito non appartiene alle strade delle nostre città. Trump deve porre fine all’inutile militarizzazione di Los Angeles. Se non lo farà, confermerà le sue tendenze autoritarie”.
Il caso politico è tutt’altro che chiuso. Trump continua a riproporsi come uomo forte, deciso, pronto a usare ogni leva del potere per mostrare muscoli e disciplina, anche se in violazione delle regole. Ma il giudice Breyer gli ha ricordato che negli Stati Uniti il potere ha un limite, e quel limite si chiama Costituzione.
Newsom, da parte sua, cavalca l’onda della vittoria: non è più solo il governatore glamour della California progressista, ma il volto di una resistenza istituzionale all’ex presidente. La sua stoccata finale: “Se Trump vuole usare i soldati, lo faccia nelle fiction di Hollywood, non nella realtà democratica americana”.
E stavolta, il giudice lo ha detto chiaro: quel potere non gli appartiene.
Mondo
Ecco chi sono i leader iraniani uccisi nell’attacco: dal capo dei pasdaran agli scienziati della bomba
Colpiti Salami, Bagheri, Shamkhani, Jafari e due scienziati nucleari. Ma i raid hanno devastato anche quartieri residenziali. E tra le vittime ci sono civili, donne, bambini. E forse pure mia nonna.

È partito come un attacco chirurgico ai siti nucleari, è finito come una decapitazione politica. Nell’operazione “Rising Lion”, Israele ha colpito dritto al cuore del potere iraniano. Non solo centrifughe e missili, ma nomi e volti che rappresentavano il pugno di ferro del regime.
Il più noto: Hossein Salami, comandante dei pasdaran, l’uomo che ad aprile aveva lanciato 300 droni su Israele e minacciato “l’inferno”. Ce l’ha trovato, dentro una palazzina ridotta in macerie. A capo della Guardia rivoluzionaria dal 2019, Salami era il simbolo del potere militare duro e puro, quello che non arretra, non media, non si scusa.
Ucciso anche Mohammad Hossein Bagheri, capo di Stato maggiore dell’esercito, teorico della riorganizzazione bellica del regime. Dal 2016 controllava le forze armate, dal 2022 era sotto sanzioni USA e Canada per la repressione interna. Al suo posto ora c’è Mousavi, ma il colpo è pesantissimo.
Ma la lista è lunga: Ali Shamkhani, consigliere personale della Guida suprema Khamenei. Mohammad Ali Jafari, ex capo dei pasdaran durante le operazioni in Siria e in Iraq. E poi due scienziati: Tehranchi, fisico teorico e stratega nucleare, e Abbasi, ex direttore dell’agenzia atomica.
I luoghi colpiti? Tutti: il sito di Natanz, scavato 50 metri sotto terra; l’Organizzazione per le industrie aerospaziali in piazza Nobonyad; il quartiere di Lazivan (presunto sito nucleare mai verificato); il distretto di Amir Abad e la società Pars Garna, legata alla costruzione di bunker per arricchire uranio.
Ma c’è anche l’altra faccia della guerra: i civili morti. Perché i missili hanno colpito anche quartieri abitati, distruggendo case, scuole, vite. Le stime parlano di decine di vittime non militari.
Il regime iraniano è in silenzio apparente. Ma la risposta potrebbe arrivare. E non sarà gentile.
Politica
Meloni show a Libero: baci a Trump, schiaffi alla sinistra

Giorgia Meloni si collega da remoto, ma conquista il palco come se fosse in prima fila. Venti minuti in videocollegamento per celebrare i 25 anni di Libero, ma sembrava un comizio con microfono aperto. Il pubblico in sala applaude, Mario Sechi sorride, Vittorio Feltri si dichiara “innamorato” della premier. Lei ringrazia e parte col repertorio.
Il pezzo forte? Il solito vecchio Donald. “Trump è un leader coraggioso, schietto, determinato. Ci capiamo bene anche quando non siamo d’accordo”, dichiara fiera. Dazi, guerre commerciali e instabilità globale passano in secondo piano: quello che conta è l’intesa tra sovranisti. “Difende i suoi interessi nazionali, io faccio lo stesso”, rivendica, come se il mondo fosse diviso tra chi “tiene famiglia” e chi no.
Poi il colpo basso sul referendum. Altro che test per il governo: “Era un referendum sulle opposizioni, e il risultato è chiaro”, dice. Traduzione: ha perso la sinistra, non io. “Se vincono, è un trionfo della democrazia. Se perdono, c’è un problema di democrazia. È sempre la stessa storia”, attacca, liquidando critiche e dubbi come capricci da salotto.
E infatti a quelli che nei salotti ci vivono, riserva la stoccata finale. Il quesito per la cittadinanza dopo cinque anni? “Una sciocchezza”, sentenzia. “Solo chi frequenta club esclusivi può pensarlo. La legge attuale va benissimo. Ed è quella che vuole la stragrande maggioranza degli italiani”. Argomento chiuso.
In mezzo, il solito omaggio a Berlusconi, “fiero di noi per il milione di posti di lavoro”, e l’ennesima autoassoluzione: “Noi andiamo avanti con il nostro lavoro”. Il copione non cambia. Ma ogni volta è più rodato.
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