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Anfore di oltre 3,4 mila anni ritrovate in Israele

Il ritrovamento non solo riscrive la storia della navigazione, ma offre anche una finestra unica sul passato, dimostrando l’esistenza di scambi commerciali vivaci nel Mediterraneo orientale durante la tarda età del Bronzo.

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    Pur impegnato su due fronti di guerra in Israele, a circa 90 chilometri dalla costa di Haifa a una profondità di 1.800 metri, è stato rinvenuto il relitto di una nave mercantile risalente a 3.400 anni fa. Questa scoperta davvero straordinaria potrebbe riscrivere la storia della navigazione nell’età del Bronzo.

    Navigare lontano dalla costa

    Il ritrovamento, annunciato dall’Autorità per le antichità di Israele è avvenuto grazie a Energean, compagnia di gas naturale. Durante l’esplorazione del fondale marino, ha individuato una pila di anfore sul fondo. Storicamente si tratta di un ritrovamento molto importante e significativo. Perché? Perché rivela l’abilità dei marinai dell’età del Bronzo di navigare lontano dalla vista della costa. Ribaltando le ipotesi accademiche precedenti che suggerivano per quel periodo storico una navigazione esclusivamente costiera.

    Ben conservati grazie allo strato di fango che ricopriva il relitto

    La nave, lunga tra i 12 e i 16 metri, sembra essere affondata improvvisamente, forse a causa di una tempesta o di un attacco pirata. Il carico di anfore, tipiche della tarda età del Bronzo e utilizzate per trasportare olio, vino e frutta, è stato trovato intatto grazie al fango che ha contribuito a preservare i reperti per millenni. Il ritrovamento di questo relitto offre agli scienziati una preziosa opportunità per comprendere meglio gli scambi commerciali e la vita nell’età del Bronzo.

    Età del Bronzo senza più segreti

    L’utilizzo di un robot subacqueo ad alta tecnologia è stato fondamentale per recuperare i primi reperti senza danneggiarli. Gli archeologi sperano di trovare ulteriori tracce all’interno delle stesse anfore che possano rivelare maggiori dettagli sui prodotti trasportati e sul commercio dell’epoca.

    Un florido commercio in epoche lontane

    Questo ritrovamento non solo riscrive la storia della navigazione, ma offre anche una finestra unica sul passato, dimostrando l’esistenza di scambi commerciali vivaci nel Mediterraneo orientale durante la tarda età del Bronzo.

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      Il nipote rompe il silenzio: “Zio Trump ha i segni dell’Alzheimer”

      “Riconosco quei segnali”: il nipote dell’ex presidente rompe il silenzio e chiede trasparenza. Sintomi, storia familiare e un memoir che riaccende il dibattito. Intanto la politica americana si interroga sull’età dei suoi leader

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        La domanda che aleggia da mesi nei corridoi della politica americana ora arriva da dentro casa: Donald Trump sta mostrando i primi segni dell’Alzheimer? A rompere il muro di silenzio non sono avversari politici o analisti, ma un parente diretto. Fred Trump III, figlio del fratello maggiore dell’ex presidente, ha parlato apertamente della sua preoccupazione per lo zio, evocando ricordi dolorosi legati alla lunga malattia del nonno Fred Trump Sr., morto nel 1999 dopo otto anni di lotta contro l’Alzheimer.

        «Non sono un medico, ma riconosco quei segnali», ha detto il nipote in un’intervista a SiriusXM. Il riferimento è a momenti di incoerenza nei discorsi pubblici di Donald Trump, pause sospette, divagazioni improvvise, che – a suo dire – ricordano il declino cognitivo già vissuto all’interno della famiglia. Nessuna accusa, precisa Fred Trump III, ma un invito alla trasparenza. «Chi guida una nazione ha il dovere di essere lucido. E se ci sono dubbi, vanno chiariti. Anche per rispetto del ruolo».

        Il caso non arriva a caso. Il nipote ha appena pubblicato il libro “All in the Family: The Trumps and How We Got This Way”, un memoir che racconta luci e ombre della dinastia Trump. Tra le pagine, si parla della disabilità del figlio William, di conflitti familiari mai sopiti e di un isolamento che avrebbe colpito i Trump “di serie B”, esclusi dal cuore del potere. Ma il passaggio che ha fatto più rumore è proprio quello sulla salute dell’ex presidente: una possibile ereditarietà genetica e il timore che i primi sintomi vengano ignorati o sottovalutati.

        Nel 2020, fu lo stesso Donald Trump a vantarsi dei risultati ottenuti nel Montreal Cognitive Assessment, una sorta di test per verificare le funzioni cognitive di base. Lo usò come clava politica contro Joe Biden. Oggi, però, la parte si inverte: Fred Trump III chiede che sia lo zio a sottoporsi a un nuovo test, per dissipare ogni dubbio. «Non è una questione di parte», ha detto. «È un tema di salute pubblica».

        I segnali a cui il nipote fa riferimento sono quelli noti agli esperti: dimenticanze ripetute, discorsi sconnessi, calo del linguaggio fluido, cambiamenti d’umore, disorientamento. Presi da soli potrebbero sembrare normali segni dell’invecchiamento. Ma quando si presentano insieme e con frequenza, è bene non ignorarli. Tanto più se riguardano un leader globale.

        Trump ha oggi 77 anni ed è, con Biden, uno dei candidati più anziani alla Casa Bianca nella storia americana. La questione dell’età e della lucidità mentale è ormai parte integrante del dibattito elettorale, e non senza motivo: nel luglio 2024 Joe Biden ha annunciato il proprio ritiro dalla corsa alla rielezione, lasciando il testimone a Kamala Harris. Le pressioni sul suo stato mentale erano diventate insostenibili.

        Nessuna replica ufficiale finora da parte di Trump o del suo staff alle dichiarazioni del nipote. Ma la sensazione, a Washington e dintorni, è che il tema sia destinato a esplodere, in un’America sempre più spaccata, dove anche la salute diventa arma politica.

        E quando la battaglia si combatte in famiglia, diventa ancora più difficile ignorarla.

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          Mondo

          Vaccini in calo, l’infanzia torna a morire: decuplicati i casi di morbillo in Europa

          Colpa della pandemia, delle guerre e della disinformazione: l’immunizzazione infantile arretra ovunque e le malattie considerate debellate tornano a colpire. Nel 2024 l’Unione europea ha registrato dieci volte più casi di morbillo rispetto all’anno precedente. L’Oms teme una nuova ondata di morti evitabili

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            C’è un segnale che si sta facendo largo nei silenzi delle agende politiche e nei reparti pediatrici del mondo: i bambini stanno tornando a morire per malattie che si pensavano sconfitte da decenni. Il dato più allarmante arriva dall’Unione europea: nel 2024 i casi di morbillo sono aumentati di dieci volte rispetto all’anno precedente. Negli Stati Uniti, solo nel mese di maggio 2025, sono stati registrati più di mille nuovi contagi, superando l’intero bilancio del 2024. La causa? Un crollo della copertura vaccinale, che non riguarda soltanto i Paesi poveri, ma anche quelli più industrializzati.

            A lanciare l’allarme è uno studio pubblicato dalla rivista scientifica The Lancet, che analizza la situazione in 204 Paesi e territori. Secondo il rapporto, l’immunizzazione infantile è in calo in tutto il pianeta: la pandemia ha rotto il ritmo delle campagne vaccinali, le guerre hanno sfollato milioni di persone e la disinformazione ha fatto il resto. Una combinazione micidiale, che rischia di far saltare decenni di progressi.

            Il quadro tracciato dallo studio è sconfortante. Dal 2020 al 2023, quasi 13 milioni di bambini in più rispetto agli anni precedenti non hanno ricevuto nemmeno una dose di vaccino, mentre oltre 15 milioni non hanno completato il ciclo per difterite, tetano, pertosse o morbillo. Paesi interi hanno perso terreno: in America Latina e nei Caraibi, la copertura contro il morbillo si è dimezzata tra il 2010 e il 2019. E il trend non si è fermato.

            Nemmeno l’Europa è immune. Negli ultimi due anni, anche nei Paesi ad alto reddito, si è registrato un calo nell’immunizzazione di base, con un progressivo indebolimento della protezione collettiva. La ripresa è lenta, frammentaria, e i segnali di allarme spesso ignorati. In Africa subsahariana e Asia meridionale, la situazione è ancora più grave: oltre la metà dei 15,7 milioni di bambini non vaccinati nel 2023 vive in appena otto Paesi, dove mancano strutture, farmaci, medici e – troppo spesso – anche la volontà politica di intervenire.

            Eppure, i numeri del passato dovrebbero bastare a ricordare quanto siano state determinanti le vaccinazioni: più di 150 milioni di vite salvate negli ultimi quarant’anni secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, con una copertura raddoppiata tra il 1980 e il 2023. Un successo che oggi appare fragile, persino reversibile.

            «È la prima volta da decenni che il numero di bambini che muoiono nel mondo rischia di aumentare invece di diminuire», ha dichiarato Bill Gates, finanziatore della ricerca attraverso la sua fondazione. «È una tragedia». E se oggi il traguardo di vaccinare il 90% dei bambini del mondo sembra lontanissimo, lo è ancora di più l’obiettivo di dimezzare, entro il 2030, la quota di bambini che non ricevono nemmeno una dose entro l’anno di età. Ad oggi, solo 18 Paesi su 204 hanno raggiunto questo obiettivo.

            A perdere tempo, adesso, è l’intera umanità. Ma a pagare il prezzo più alto, ancora una volta, saranno i più piccoli.

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              L’amore sotto il sole d’Africa: il Masai che ha spezzato una famiglia

              Una vacanza in Kenya, un incontro travolgente con un guerriero Masai e la scelta di seguire il cuore: la storia di Cheryl, che ha lasciato tutto per amore, e di suo figlio Stevie, che ha pagato il prezzo più alto.

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                Nel marzo del 1994, Cheryl Thomasgood partì per una vacanza in Kenya che avrebbe cambiato per sempre il destino della sua famiglia. In un villaggio vicino a Mombasa, tra danze tribali e paesaggi mozzafiato, conobbe un guerriero Masai. Fu un colpo di fulmine. Nel giro di poche settimane, lasciò il marito, i figli e la sua casa sull’Isola di Wight per trasferirsi in una capanna di fango nel cuore dell’Africa con il guerriero Masai.

                Il figlio dodicenne aspettò la madre a casa studiando l’Africa

                Ma se per Cheryl quella scelta rappresentava una fuga verso la libertà e la passione, per suo figlio Stevie fu l’inizio di un incubo. Aveva solo 12 anni quando ricevette quella telefonata: la madre non sarebbe più tornata. La sua infanzia, già segnata dall’abbandono del padre e da un’infanzia difficile a Londra, si sgretolò del tutto. “Mi ha rovinato la vita. Mi vergogno di chiamarla madre”, ha raccontato Stevie, oggi 43enne.

                Un pentimento tardivo

                Nonostante Cheryl, oggi 65enne, abbia dichiarato di essersi pentita e di essere stata perdonata dai figli, Stevie smentisce con forza: “Non ha mai incontrato i suoi nipoti. Non le parlo da anni. Mio fratello è andato in Canada, io in Corea, per starle il più lontano possibile”. La storia di Cheryl e Stevie è un intreccio di amore, fuga, dolore e incomprensioni. Un racconto che ci ricorda quanto le scelte del cuore possano lasciare cicatrici profonde, soprattutto quando a pagarne il prezzo sono i figli, ovvero i legami più fragili.

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