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Cronaca

Fumo: una battaglia a tutto campo

La Gran Bretagna dichiara guerra totale al fumo. Lo mette al bando definitivamente per le generazioni nate dal 2009 che non potranno più acquistare sigarette.

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    La Gran Bretagna dichiara guerra totale al fumo. Lo mette al bando definitivamente per le generazioni nate dal 2009 che non potranno più acquistare sigarette. Brexit ci ha insegnato che i britannici fanno le cose a loro modo. Spesso le imbroccano, come sembrerebbe anche questa volta. Ma ci sono voci contrarie alla scelta sul divieto di fumo. Una scelta tacciata come neo-proibizionista e illiberale. Il provvedimento voluto dal governo introduce il divieto di acquistare sigari o sigarette, per sempre, per chi sia nato dopo il 2008. Un meccanismo semplice. L’età legale per fumare si alzerà di un anno ogni dodici mesi, fino all’estinzione dei fumatori nel giro di un paio di generazioni. Così nelle intenzioni britanniche.

    London Fog

    Una scelta radicale, un lascito che il Governo Sunak vuole garantire ai posteri. Come ha sottolineato il professor Chris Whitty, il capo ufficiale medico nazionale che ha condotto una campagna pubblica a sostegno della legislazione, in una intervista “l’intenzione di proteggere i bambini è un valore molto conservatore. Dobbiamo proteggere le generazioni future dalla dipendenza dalla nicotina”. A questo parere si è aggiunto quello del segretario di Stato alla Salute, Victoria Atkinsessere a favore delle scelte individuali dovrebbe significare essere contro la deliberata dipendenza di bambini, giovani e giovani adulti da qualcosa che li danneggerà, potenzialmente in maniera fatale” . Ogni anno in Gran Bretagna muoiono per problemi riferiti al fumo oltre 76 mila. A queste si aggiungono le decine di migliaia di persone che accusano malattie legate causa al fumo. Malattie che come in ogni Paese gravano sulle casse della sanità pubblica.

    C’è voglia di aria pulita

    Parigi e Barcellona sono diventate in pochi anni città “smoke free” , cosi come dal 2011 a New York è stato imposto il divieto di fumo all’aperto. Dal 2016 Melbourne detiene il primato della prima città completamente smoke free al mondo. Infine la Svezia dal 2019 ha esteso il divieto di fumo praticato in bar e ristoranti anche alle aree all’aperto. Obiettivo: diventare entro il 2025 un Paese smoke free.

    E in Italia? La rivoluzione parte da Torino

    Il capoluogo piemontese, infatti, ha vietato di fumare anche all’aperto se ci sono persone vicine nel raggio di cinque metri incluse. Un divieto che include anche le sigarette elettroniche. Chi non rispetta la regola rischia una multa di 100 euro.

    Città “smoke free”

    Il divieto obbliga di non fumare all’aperto o almeno di non fumare ad una distanza inferiore ai 5 metri l’uno dall’altro. Non si potrà fumare alla fermata dell’autobus, ai tavolini dei bar e ristoranti, durante le manifestazioni come concerti o eventi, nei parchi. Naturalmente solo se ci sono persone accanto. Ma se accanto c’è qualcuno a cui non da fastidio il fumo, allora via libera. Un escamotage quasi ‘inaccettabile’ per certi versi. Un esplicito consenso da parte di tutti i presenti farà si che il fumo collettivo sia ancora possibile.

    Come fare a rispettare le distanze e applicare le multe?

    In fondo si tratta i una misura sanitaria, ma soprattutto una questione di rispetto dei non fumatori e di buona educazione. Molti hanno seri dubbi sulla difficoltà di garantire il rispetto del divieto ma infondo da qualche arte bisogna pur iniziare. L’educazione personale e il rispetto delle norme è un termometro del grado di civiltà dei cittadini.

    Cosa dice la Polizia Urbana

    All’articolo 7 del Regolamento di Polizia Urbana del capoluogo piemontese si mette in evidenza che è vietato “fumare in ogni caso in presenza di bambini o di donne in gravidanza e in ogni luogo all’aperto a una distanza inferiore a cinque metri da altre persone, senza il loro esplicito consenso“. E per fortuna il provvedimento è esteso anche a “sigarette, sigari, pipe, tabacco riscaldato, ogni prodotto a combustione e le sigarette elettroniche”. A Milano un simile regolamento era stato introdotto nel 2021. Prevede il divieto di fumare all’aperto nei parchi, nelle pensiline dei mezzi pubblici, allo stadio o nei cimiteri ma nel raggio di 10 metri dalle altre persone. Stessa cosa per la città di Modena. A Napoli dal 2007 non si potrebbe fumare nei parchi e durante le manifestazioni pubbliche.

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      Storie vere

      Marito e amante filmati per errore dal ristorante: quando una pubblicità su TikTok diventa un caso di privacy

      Un ristorante pubblica su TikTok una pubblicità con clienti ignari e una donna scopre così il tradimento del marito. Il caso, segnalato dal Codacons, riporta al centro il tema delle violazioni della privacy nei locali pubblici e delle possibili sanzioni, anche pesanti, per chi diffonde immagini senza consenso.

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        Una cena “di lavoro”, un ristorante affollato e un video promozionale caricato con leggerezza su TikTok. Tanto basta per far saltare un matrimonio e trasformare una trovata social in un problema legale serio. È successo in Sicilia, dove un ristoratore ha ripreso alcuni clienti per una pubblicità online senza chiederne il consenso. Tra quei clienti c’erano un uomo e la sua amante. A scoprire tutto è stata la moglie, che li ha riconosciuti nel video. Fine della relazione, marito cacciato di casa e una valanga di conseguenze.

        La vicenda, resa pubblica dal Codacons, non è solo una storia di tradimenti scoperti nel modo peggiore possibile. È soprattutto un esempio concreto di quanto una violazione della privacy possa avere effetti devastanti sulla vita privata delle persone coinvolte. E di quanto chi gestisce un locale rischi, anche quando pensa di fare “solo pubblicità”.

        Dal TikTok al tribunale
        Secondo quanto ricostruito, il protagonista è un 42enne catanese che aveva raccontato alla moglie di dover partecipare a una cena di lavoro. In realtà era al ristorante con l’amante. La scena, però, è finita in un video promozionale pubblicato su TikTok dal locale. Nessuna liberatoria firmata, nessun consenso chiaro. Il risultato è stato immediato: la moglie ha riconosciuto il marito, il matrimonio è finito e ora il ristoratore rischia sanzioni e una possibile causa civile.

        Il Codacons sta valutando azioni legali per conto del cliente. “È inammissibile che un ristorante riprenda i clienti senza un consenso chiaro e diffonda le immagini sui social, esponendo le persone a conseguenze imprevedibili”, ha dichiarato Francesco Tanasi, giurista e segretario nazionale dell’associazione. La pubblicazione del video, secondo il Codacons, ha prodotto una frattura familiare e un grave pregiudizio alla vita privata.

        Cosa dice la legge sulla privacy
        Sul piano giuridico la questione è meno ambigua di quanto molti credano. A chiarirlo sono anche due esperti di diritto della privacy, Fulvio Sarzana e Silvia Stefanelli. “Scattare foto o video in luoghi aperti al pubblico è consentito; non lo è divulgare le immagini senza il consenso degli interessati”, spiega Sarzana. Le eccezioni sono poche e ben definite: notorietà della persona ripresa o finalità giornalistiche. Di certo non una pubblicità commerciale.

        Il punto chiave è proprio lo scopo: se il video serve a promuovere un’attività, il consenso è indispensabile. E se dalla pubblicazione deriva un danno, chi ha diffuso le immagini può essere obbligato a risarcire. Non solo multe del Garante della privacy, quindi, ma anche un’azione civile per i danni subiti. In casi come questo, spiega Sarzana, potrebbe persino essere chiesto un risarcimento collegato alla fine del matrimonio, se viene dimostrato il nesso di causa.

        Il problema della “videocamera selvaggia”
        Il caso si inserisce in un contesto più ampio. Solo la scorsa estate il Garante della privacy aveva avviato una campagna di ispezioni contro il fenomeno della “videocamera selvaggia” nei negozi e nei locali. Le violazioni sono sempre le stesse: assenza di cartelli informativi, telecamere puntate su aree pubbliche, registrazioni audio non autorizzate, immagini conservate oltre i limiti consentiti.

        Una pubblicità social con persone chiaramente riconoscibili e ignare di essere riprese rappresenta un passo ulteriore, ancora più rischioso. Non solo controllo, ma esposizione pubblica. E quando il video finisce online, le conseguenze sfuggono di mano.

        Quando il marketing ignora i limiti
        Molti locali inseguono la visibilità facile dei social, convinti che basti uno smartphone per fare marketing. Ma questo caso dimostra che improvvisare può costare caro. Una ripresa fatta senza pensarci troppo può trasformarsi in un boomerang legale ed economico, oltre che umano.

        La privacy non è un dettaglio burocratico. È un confine che, se superato, può travolgere vite, relazioni e attività. E a volte basta un video di pochi secondi per accorgersene.

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          Politica

          Meloni chiede l’applauso per Salvini assolto: in Senato la premier rivendica la linea dura sui confini

          La Cassazione chiude il caso Open Arms confermando l’assoluzione di Matteo Salvini. Meloni ne fa un passaggio centrale del suo intervento in Aula, mentre restano le critiche politiche dell’opposizione.

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            L’assoluzione definitiva di Matteo Salvini diventa un passaggio politico dentro l’Aula del Senato. Giorgia Meloni apre così la sua replica al termine del dibattito sulle comunicazioni in vista del Consiglio europeo, chiedendo ai parlamentari un applauso per il vicepremier e ministro delle Infrastrutture, prosciolto in via definitiva dalle accuse legate alla vicenda Open Arms. «Chiedo un applauso per l’assoluzione del vicepremier Matteo Salvini dall’accusa infondata di sequestro di persona», afferma la presidente del Consiglio, rivendicando il principio secondo cui «un ministro dell’Interno che difende i confini italiani fa il suo lavoro, niente di più».

            La pronuncia della Corte di Cassazione chiude una vicenda giudiziaria iniziata cinque anni fa. I giudici della quinta sezione hanno rigettato il ricorso per saltum presentato dalla Procura di Palermo contro l’assoluzione di primo grado, rendendo definitiva la decisione del Tribunale di Palermo che, il 20 dicembre 2024, aveva assolto Salvini «perché il fatto non sussiste». Le accuse di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio riguardavano il mancato sbarco, nell’agosto del 2019, dei 147 migranti a bordo della nave della ong spagnola Open Arms, rimasta in mare per diciannove giorni al largo delle coste italiane.

            La Procura generale della Cassazione aveva chiesto di rigettare il ricorso dei pm siciliani. I sostituti procuratori generali Antonietta Picardi e Luigi Giordano, al termine della requisitoria, avevano concluso per la conferma dell’assoluzione. Una linea fatta propria anche dalla Suprema Corte, che ha così messo fine al procedimento.

            Immediata la reazione di Salvini, che sui social ha commentato con una frase già usata durante il processo: «Cinque anni di processo: difendere i confini non è reato». Un messaggio accompagnato da una sua foto con la scritta “assolto”. In Aula, Meloni ha trasformato la decisione giudiziaria in un passaggio identitario per la maggioranza, parlando di «solidarietà e gioia» e di «definitiva affermazione di un principio».

            Soddisfatta anche la difesa. L’avvocata Giulia Bongiorno, legale di Salvini, ha definito il ricorso della Procura «generico» e «fuori dal mondo», sottolineando come chiedesse «un processo completamente diverso». Dopo la decisione della Cassazione, Bongiorno ha parlato di un procedimento «che non doveva nemmeno iniziare» e di una conferma della «correttezza dell’operato» dell’allora ministro dell’Interno.

            Di segno opposto le valutazioni delle parti civili, che avevano chiesto l’annullamento dell’assoluzione di primo grado sostenendo l’esistenza del dolo e richiamando il mancato rispetto, a loro giudizio, delle norme internazionali e costituzionali e della dignità delle persone a bordo della nave. Argomentazioni che non hanno trovato accoglimento né in primo grado né davanti alla Suprema Corte.

            Sul piano politico, la chiusura del caso Open Arms riapre però lo scontro tra governo e opposizioni. Angelo Bonelli, deputato di Alleanza Verdi e Sinistra e co-portavoce di Europa Verde, ha dichiarato che «le sentenze vanno sempre rispettate», aggiungendo che ora «la destra non potrà più sostenere l’esistenza di una magistratura politicizzata». Bonelli ha però ribadito il giudizio negativo sull’azione politica di Salvini, accusandolo di aver «usato i migranti come strumento di propaganda e di consenso elettorale».

            Nel frattempo, tra i partiti di centrodestra e tra i ministri del governo, si moltiplicano le attestazioni di solidarietà al leader della Lega per la chiusura definitiva della vicenda giudiziaria. Per Meloni, la sentenza diventa anche un elemento di legittimazione politica della linea sull’immigrazione portata avanti negli anni dal centrodestra. Una lettura che segna il confine netto tra il giudizio penale, ormai chiuso, e una valutazione politica che continua a dividere profondamente maggioranza e opposizioni.

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              Cronaca Nera

              Doppia curva, nelle motivazioni spunta il “progetto economico” tra Luca Lucci e Fedez: cosa scrive la giudice

              Non è una trama da serie tv, ma un passaggio nero su bianco nelle motivazioni della sentenza sul caso “doppia curva”. La gup di Milano Rossana Mongiardo descrive un sistema di affari, violenze e collegamenti: tra “progetti economici”, bodyguard e la vicenda Iovino, con i distinguo sulle posizioni giudiziarie.

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                A volte basta una riga in una motivazione per far esplodere una storia fuori dal tribunale, dritta nella conversazione pubblica. Nel caso “doppia curva”, la gup di Milano Rossana Mongiardo mette in fila un quadro che non parla solo di tifo organizzato, ma di “strategie” del gruppo ultrà, business e una “inquietante vocazione all’aggressione”. E in quel quadro compaiono anche nomi che con lo stadio, almeno in apparenza, c’entrano poco: Fedez, Emis Killa, Cristian Rosiello, Cristiano Iovino.

                Dalle curve allo showbusiness: il “progetto economico”

                Secondo quanto riportato nelle motivazioni, tra l’ormai ex capo della Curva Sud milanista, Luca Lucci, e il rapper Fedez ci sarebbe stato un “legame” legato a un “progetto economico”, descritto come parte di una strategia del gruppo. Nello stesso contesto si parla di collegamenti con “persone del mondo dello spettacolo”, anche attraverso servizi da guardia del corpo offerti a personaggi noti.

                Il nodo Iovino e il ruolo dell’ex bodyguard

                La giudice cita anche la vicenda, contenuta nelle imputazioni, della “spedizione punitiva” e del pestaggio del 22 aprile 2024 ai danni del personal trainer Cristiano Iovino, a cui “partecipavano” Fedez e Cristian Rosiello, ultrà rossonero indicato “in veste di suo bodyguard”. Fedez, viene ricordato, non è indagato nell’inchiesta “doppia curva” e ha ottenuto l’archiviazione nel procedimento per rissa. In aula, inoltre, Lucci avrebbe riconosciuto di intrattenere affari con Fedez anche in relazione alla discoteca Old Fashion di Milano e di aver favorito una soluzione transattiva sull’episodio Iovino, che non denunciò.

                Barberie, affari e infiltrazioni: la cornice più ampia

                Nel racconto delle motivazioni, il “prestigio” conquistato con la violenza da Lucci, detto “Il Toro”, avrebbe potuto favorire gli affari suoi e del gruppo. Tra i tasselli compare anche la catena di barberia Italian Ink: uno dei negozi, viene riportato, era gestito da Emiliano Giambelli, in arte Emis Killa, indicato come indagato in un filone ancora aperto. Sullo sfondo, nelle quasi 300 pagine citate, c’è il capitolo più pesante: le “infiltrazioni della ’ndrangheta” nel tifo organizzato, visto come terreno fertile per produrre introiti, con business che vanno dal bagarinaggio ai parcheggi, fino a merchandising e altre attività.

                Il risultato è un mosaico in cui i confini tra curva, affari e notorietà vengono descritti come molto più porosi di quanto piaccia pensare. E, una volta che i nomi finiscono su carta, smettono di essere solo chiacchiera da bar: diventano materia da leggere riga per riga.

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