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Musk e il super stipendio da 56 miliardi: il giudice lo blocca e lui non la prende bene

La corte del Delaware conferma l’eccesso del premio votato dagli azionisti di Tesla: “Un procedimento viziato e ingiusto”. Musk reagisce su X, ma il suo patrimonio resta astronomico

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    Una decisione clamorosa scuote Tesla e il suo carismatico Ceo Elon Musk. La giudice Kathaleen McCormick, 45 anni, esperta in diritto societario e laureata ad Harvard, ha bloccato definitivamente il super bonus da 56 miliardi di dollari che Musk avrebbe dovuto ricevere per il suo ruolo nella compagnia. Un pacchetto che, secondo la sentenza della Court of Chancery del Delaware, rappresenta una “retribuzione eccessiva e ingiusta” per gli azionisti.

    Una vicenda iniziata nel 2018

    Il premio da record era stato introdotto nel 2018, quando il consiglio di amministrazione di Tesla, fortemente influenzato da Musk, aveva approvato un pacchetto bonus basato sul raggiungimento di determinati obiettivi aziendali. Tuttavia, alcuni azionisti avevano portato il caso in tribunale, denunciando la scarsa imparzialità del board e il peso eccessivo del magnate sudafricano nelle decisioni.

    Nel gennaio scorso, McCormick aveva definito il bonus “frutto di un procedimento viziato”, bloccandolo e ordinando una nuova votazione. Spaventati dalla possibilità che Musk lasciasse Tesla, gli azionisti avevano approvato a stragrande maggioranza il pacchetto, questa volta con il pagamento in azioni. A giugno, Musk aveva celebrato la vittoria, ma il suo entusiasmo si è infranto contro la sentenza definitiva della stessa giudice, che ha confermato il blocco del compenso.

    La reazione di Musk: “Decidono gli azionisti, non i giudici”

    Elon Musk non ha nascosto la sua delusione, esprimendola su X, la piattaforma da lui acquistata e ribrandizzata. “Sono gli azionisti a decidere, non i giudici”, ha scritto, rilanciando un post di Tesla che ribadiva come il premio fosse stato approvato due volte dai titolari di azioni. L’azienda ha annunciato che farà appello contro la decisione, definita “sbagliata”.

    Il post è stato visualizzato da milioni di utenti, scatenando la reazione dei fan del magnate, che hanno attaccato la magistratura e la giudice McCormick con commenti al vetriolo. “I giudici prevenuti sono la piaga della società”, ha scritto un utente, mentre altri l’hanno definita “corrotta” e “usurpatrice”.

    Musk, patrimonio stellare ma non immune a critiche

    Nonostante lo stop al bonus, Elon Musk rimane saldamente l’uomo più ricco del mondo. Il suo patrimonio, secondo Forbes, si attesta a 336,8 miliardi di dollari, grazie al valore azionario di Tesla e alle sue altre imprese, tra cui SpaceX. Se avesse incassato il premio da 56 miliardi, Musk si sarebbe avvicinato alla soglia record dei 400 miliardi.

    Tesla, intanto, ha registrato una perdita dell’1,2% nel mercato post-chiusura, chiudendo la giornata a 357 dollari per azione. Tuttavia, la compagnia resta tra le più influenti nel settore dei veicoli elettrici, con Musk al centro della strategia e dell’immagine aziendale.

    Un caso destinato a lasciare il segno

    Il blocco del super bonus di Musk rappresenta un precedente importante nel mondo del diritto societario e della governance aziendale. La sentenza mette in discussione l’equilibrio tra i diritti degli azionisti e il potere dei dirigenti, sollevando interrogativi sulla trasparenza e sull’equità nei processi decisionali delle grandi compagnie.

    Per Elon Musk, invece, è un capitolo amaro di una carriera segnata da trionfi e controversie. E mentre Tesla si prepara a un nuovo round giudiziario, il dibattito sulla giustizia e sull’etica nella gestione delle imprese continua a far discutere.

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      Mondo

      Giovani donne e il “sogno americano” in fuga: perché il 40% vorrebbe lasciare gli Stati Uniti

      Tra clima politico, diritti riproduttivi e sfiducia nelle istituzioni, cresce il numero di giovani donne che non si riconoscono più nell’immagine degli Stati Uniti come terra di opportunità. Canada, Nuova Zelanda, Italia e Giappone le mete più ambite.

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      sogno americano

        Un mito che si incrina

        Per generazioni il “sogno americano” ha rappresentato l’idea di un Paese in cui chiunque potesse aspirare a una vita migliore. Oggi, però, sempre più giovani donne non lo percepiscono più come tale. L’ultimo sondaggio Gallup indica che il 40% delle statunitensi tra i 15 e i 44 anni lascerebbe definitivamente gli USA, se ne avesse la possibilità: un dato mai raggiunto prima e quattro volte superiore rispetto al 2014.

        La tendenza non è improvvisa. Già nel 2016 si registra un rialzo significativo nelle aspirazioni migratorie femminili, in un contesto politico polarizzato e dopo la definizione dei candidati alle presidenziali poi vinte da Donald Trump. Negli anni successivi la percentuale ha continuato a salire, fino a raggiungere il 44% alla fine dell’amministrazione Biden e stabilizzarsi su valori simili nel 2025.

        Politica e identità: un distacco crescente

        Il desiderio di trasferirsi non riguarda in modo uniforme tutta la popolazione. Il divario di genere è il più ampio mai rilevato da Gallup: 21 punti separano uomini (19%) e donne (40%) nella stessa fascia d’età.
        Gli analisti sottolineano che si tratta di aspirazioni, non di intenzioni concrete, ma la dimensione del fenomeno — parliamo di milioni di giovani — resta indicativa.

        La frattura politica pesa molto. Nel 2025, il gap nel desiderio di emigrare tra chi approva e chi disapprova la leadership nazionale raggiunge 25 punti percentuali, il valore più alto osservato negli ultimi quindici anni. Prima del 2016, differenze di questo tipo non erano rilevanti. Con Trump il divario ha iniziato a crescere, si è temporaneamente ridotto sotto Biden e poi è tornato ad ampliarsi.

        Una scelta che supera età, matrimonio e figli

        Un altro aspetto significativo è che questa spinta migratoria riguarda allo stesso modo donne sposate, single e neomamme. Tra le 18-44enni, il 41% delle sposate e il 45% delle single vorrebbe trasferirsi in modo permanente all’estero.
        Perfino la presenza di figli piccoli non sembra frenare il desiderio di partire: il 40% delle madri recenti condivide questa prospettiva, una percentuale in linea con quella delle coetanee senza figli.

        Canada in testa, Italia tra le destinazioni più citate

        Tra le mete più desiderate emerge il Canada, indicato dall’11% delle giovani intervistate. Seguono Nuova Zelanda, Italia e Giappone, tutte al 5%.
        Questo dato contrasta con la situazione nei Paesi dell’Ocse, dove le aspirazioni migratorie delle giovani donne sono rimaste stabili — mediamente tra il 20% e il 30% — senza aumenti paragonabili a quelli degli Stati Uniti.

        Diritti e fiducia nelle istituzioni: un legame che si spezza

        A spiegare questa disaffezione contribuisce anche il crollo della fiducia nelle istituzioni. Secondo il National Institutions Index di Gallup, tra il 2015 e il 2025 le donne tra i 15 e i 44 anni hanno perso 17 punti di fiducia complessiva.

        Un momento cruciale è stato il ribaltamento nel 2022 della sentenza Roe v. Wade, che per mezzo secolo aveva garantito il diritto costituzionale all’aborto. Dopo la decisione della Corte Suprema, la fiducia delle giovani donne nelle istituzioni è scesa dal 55% del 2015 al 32% nel 2025. Tuttavia, Gallup osserva che il trend di crescente desiderio migratorio era iniziato già anni prima, segno di un malessere più ampio.

        Un Paese che rischia di perdere una generazione

        Il quadro tracciato dal sondaggio rivela più di un disagio passeggero: racconta una generazione che percepisce gli Stati Uniti come un luogo meno capace di garantire diritti, sicurezza e opportunità reali.
        Se anche solo una parte di queste aspirazioni dovesse concretizzarsi, gli effetti demografici e culturali sarebbero notevoli. Per molte giovani donne, il “sogno americano” non si è infranto: semplicemente, oggi lo stanno cercando altrove.

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          Mondo

          I diari di Comey riaprono il caso Trump–Russia: tra “pioggia dorata”, richieste di lealtà e vanti di Putin sulle “migliori prostitute del mondo”

          Dai colloqui descritti nei diari di James Comey emergono dettagli esplosivi: Trump che nega prostitute e molestie, Putin che gli vanta “le migliori prostitute del mondo”, le richieste di “lealtà” alla Casa Bianca, la “roba della pioggia dorata” e le pressioni per indagare sul dossier Steele. Appunti che riaprono il nodo: il presidente ostacolò la giustizia?

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            Il materiale pubblicato nei diari di James Comey è di quelli destinati a riscrivere la narrativa del Russiagate. Non solo retroscena, ma frammenti di conversazioni tra l’allora direttore dell’Fbi e Donald Trump che riportano alla luce uno dei periodi più tesi e surreali della Casa Bianca. E tra i passaggi più incredibili, c’è perfino Vladimir Putin che si vantava col presidente americano di avere “le migliori prostitute del mondo”. Una frase che da sola basterebbe a spiegare perché, ancora oggi, quei dossier fanno tremare Washington.

            Il primo incontro: il dossier Steele e la smentita di Trump
            Il primo colloquio avviene a New York, poco dopo le elezioni. Comey informa Trump delle accuse contenute nel rapporto Steele: presunti incontri con prostitute al Ritz Carlton di Mosca nel 2013. Trump lo interrompe: «Non c’erano prostitute, non ci sono mai state». Ride, lasciando intendere di non aver bisogno di pagare per il sesso. Poi smentisce anche le accuse di molestie da parte di una stripper. Nessuna incertezza, nessun tentennamento: solo negazioni.

            La cena nella Green Room e la richiesta che spiazza Comey
            Il 28 gennaio 2017, nella Green Room della Casa Bianca, tutto si fa ancora più incandescente. «Mi serve lealtà, mi aspetto lealtà», dice Trump. Comey tace, lui se ne accorge. La conversazione è caotica: mail di Hillary Clinton, soffiate, sospetti sul vice McCabe. Finché non riaffiora la questione più delicata: la “pioggia dorata”. Trump ribadisce che era una fake news e confida di essere infastidito dal fatto che la moglie possa crederci. Poi insiste: vuole che l’Fbi indaghi per dimostrare che la storia è falsa. Comey gli spiega che così sembrerebbe sotto inchiesta. Trump torna alla carica: «Ho bisogno di lealtà». Lui concede solo “onestà”. Trump replica: «Lealtà onesta». Un compromesso che sembra uscito da un dialogo teatrale.

            Priebus, Flynn e il mosaico dell’inchiesta
            L’8 febbraio Comey incontra il capo di gabinetto Reince Priebus. Gli spiega che alcune parti del dossier Steele sono state corroborate da altra intelligence. Priebus vuole sapere se esiste un ordine per spiare Michael Flynn. Poi cerca di capire perché Hillary Clinton non sia stata incriminata. Poco dopo, Trump appare e ripete la sua posizione: la storia è falsa. Ma aggiunge un dettaglio che gela la stanza: «Putin mi ha detto che in Russia hanno alcune delle migliori prostitute del mondo». Un’affermazione che pare più una vanteria che una difesa.

            Il nodo politico e giudiziario: ostacolo alla giustizia?
            I memo riportano non solo scene imbarazzanti, ma anche pressioni che potrebbero essere interpretate come tentativi di influenzare l’operato dell’Fbi. Richieste di lealtà personale, pressioni sulle indagini, sospetti interni, tentativi di indirizzare la narrativa pubblica. Tutto questo mentre l’ombra del Russiagate si allungava sulla presidenza.

            Un caso che continua a parlare
            A distanza di anni, le parole annotate da Comey restano uno degli strumenti più preziosi per capire la tensione di quei mesi. Un racconto fatto di frasi scomposte, richieste sibilline e dettagli imbarazzanti, in cui la politica si mescola allo show. E ogni memo diventa un tassello che riporta al centro una domanda sospesa: quanto lontano si spinse davvero la Casa Bianca?

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              Papa Leone tra Chicago e i Blues Brothers: il documentario che svela il lato pop, americano e sorprendente del Pontefice

              Il nuovo documentario prodotto dal Dicastero della Comunicazione mostra un Leone XIV inedito: un ragazzo del South Side che parlava con le gang, amava le Ford e cantava Elton John. Una storia pop e profondamente spirituale che cambia il modo di immaginare un Papa.

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                Il Vaticano che incontra i Blues Brothers. È questa la sensazione guardando Leo from Chicago, il documentario che racconta il passato americano di Leone XIV e che, per molti, è già un piccolo cult. La skyline della Windy City, le highway illuminate, la prima pagina del Chicago Sun Times con il titolo «Da Pope!» e un ragazzino del South Side che nessuno avrebbe mai immaginato sul trono di Pietro.

                Il film parte da lì, da Dolton, sobborgo operaio in cui il futuro Papa cresceva tra biciclette, partite di baseball e l’odore della pizza ai peperoni. Il fratello Louis ricorda ancora quando una gang provò a portargli via le bici. «Lascia parlare me», disse Rob, come lo chiamavano allora. Bastarono due parole e finirono tutti amici. Era già un mediatore nato.

                Un Papa con le scarpe sporche di terra americana
                Il documentario mescola immagini d’archivio e aneddoti familiari che trasformano Leone XIV in un protagonista da cinema indipendente: la madre che recita il rosario all’alba, il seminterrato trasformato dai fratelli in una “chiesa fai da te”, lui che preparava l’altare sopra l’asse da stiro e conosceva già le preghiere in latino. A scuola una suora gli disse: «Diventerai Papa». Risero tutti. Non lei.

                C’è poi il lato pop: le Ford aggiustate a mano, il tifo sfegatato per i White Sox, la passione per The Blues Brothers, tanto che c’è una foto in cui indossa gli stessi occhiali scuri di Belushi e Aykroyd. E i panini giganti, la pizza “poperoni”, le canzoni di Neil Diamond cantate al seminario come in un musical improvvisato.

                Dal South Side al mondo
                Il ritratto che emerge è quello di un uomo normale e fuori dal comune allo stesso tempo. Un giovane che avrebbe potuto fare carriera nell’accademia, e che invece scelse la missione. «Volevo stare con gli ultimi», raccontano gli amici. Così partì per il Perù, vivendo per decenni tra le comunità più povere.

                Poi Roma, il Dicastero dei vescovi, il cardinalato e infine la Sistina. Una scalata inattesa per un uomo che non ha mai cercato il centro della scena. Proprio per questo, forse, ci è finito.

                Un Papa che parla la lingua del popolo
                Il documentario riesce a far convivere due anime: quella spirituale e quella quotidiana, quella intellettuale e quella pop, quella del pastore e quella del ragazzo americano che guidava attraverso Chicago cantando Elton John.

                È questo contrasto, così cinematografico e vero, a rendere Leone XIV il Papa più pop degli ultimi anni: uno che potrebbe benissimo entrare in scena dicendo “Siamo in missione per conto di Dio”, e nessuno si stupirebbe.

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