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Sex toys e sabotaggi: così Putin ha mandato in tilt la logistica europea con vibratori esplosivi

L’inchiesta del “Guardian” svela l’ultima follia dei servizi russi: bombe nascoste in lubrificanti, dildo e rossetti. Altro che spie con veleno al polonio: ora si combatte con l’intimo da night shop.

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    C’è stato un momento, nell’estate del 2024, in cui la sicurezza europea è stata appesa a un pacco contenente un vibratore rosa shocking. E no, non è la sinossi di un film demenziale con Jason Statham e uno strap-on esplosivo. È quanto emerge da una inchiesta del Guardian che racconta l’ennesimo colpo di genio (o di disperazione) del Cremlino: una campagna di sabotaggi internazionali orchestrata dalla Russia con l’aiuto di sex toys imbottiti di esplosivi, spediti allegramente in giro per l’Europa via DHL.

    Tre pacchi sono esplosi in centri di smistamento tra Regno Unito, Germania e Polonia. Fortunatamente, nessun ferito. Ma il rischio era di vedere volare per aria interi cargo. A scatenare la bomba: un tubetto di crema, un dildo e un po’ di nitrometano infiammabile. Tutto abilmente dissimulato in confezioni che solitamente al massimo fanno arrossire il postino, non l’intelligence militare.

    Al centro di questa spy story con inserti soft-core, un certo Alexander Bezrukavyi, 44 anni, curriculum da GTA versione slava: armi illegali, furti, spaccio e un tour europeo che parte da Rostov, passa per Donetsk, Moldova, Croazia, Spagna, e approda – per i miracoli dello Schengen – in Polonia. Qui condivide casa e crimini con Vyacheslav Chabanenko, 41 anni, con all’attivo condanne per percosse a moglie e suocera, roba che nei colloqui di lavoro in Russia probabilmente fa curriculum.

    I due, con il fiuto di chi cerca “lavoretti ben pagati”, si mettono su Telegram, versione post-sovietica di LinkedIn per sabotatori precari. È lì che trovano “VWarrior”, un tizio mascherato con fucile in foto profilo, che promette 1000 euro in cripto per trasportare pacchi. Una proposta che grida “scappa finché sei in tempo”, ma loro abboccano come stagisti al primo rimborso spese.

    E così iniziano a trasportare i pacchi della vergogna: vibratori dalla Cina, lubrificanti, trucchi al silicone… tutti modificati con esplosivi chimici nascosti in doppio fondo. Spedizione dalla Lituania, destinazione: il caos. Tre esplosioni in tre giorni. Birmingham, Lipsia, Varsavia. Scene da film, ma con il retrogusto dolciastro di un sexy shop.

    Solo un pacco si salva: quello inviato da Vilnius il 18 luglio, trovato intatto in un magazzino polacco. Dentro, la pista che porta dritta ai responsabili. Bezrukavyi viene localizzato in Slovacchia e catturato a piedi, al confine con la Bosnia, nel paesino di Bosanska Krupa, dove finisce in manette – e finalmente, fuori da ogni doppio senso.

    La rete viene smantellata, ma uno dei protagonisti, tale “Kirill”, riesce a fuggire in un “Paese terzo” (probabilmente dotato di connessione, anonimato e un forte bisogno di storie assurde). Secondo le sue dichiarazioni, nessuno sapeva di trasportare esplosivi: “Erano pacchi di sex toys… pensavamo fossero solo prodotti di merda”. Più che “corrieri del crimine”, si dicono “muli inconsapevoli”, come quelli usati per il narcotraffico. Peccato che gli inquirenti europei, privi del senso dell’umorismo, non ci credano.

    Il vero colpo di scena? Il Guardian rivela che l’amministrazione Biden, preoccupata, ha contattato direttamente il Cremlino chiedendo: “Potete smetterla con i vibratori esplosivi, per favore?”. Non è dato sapere la risposta. Ma la mossa russa segna un cambio di paradigma: niente più agenti in missione stile James Bond. Ora Mosca agisce da remoto, reclutando freelance su Telegram, pagandoli in cripto e spedendo ordigni nei rossetti.

    Un tempo erano le spie a portare valigette, oggi è il dildo che porta la rivoluzione. Mentre l’Europa smista pacchi tra sicurezza e imbarazzo, resta la consapevolezza che la guerra ibrida ha assunto nuove forme: più silenziose, più pornografiche, e sempre più assurde.

    E la prossima volta che vi arriva un ordine sospetto da Vilnius… magari lasciatelo chiuso. Per precauzione.

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      Lo zampino di Musk: Trump apre le porte agli Afrikaner bianchi con “Mission South Africa”

      È stato battezzato “Mission South Africa” e sembra fatto su misura per accontentare l’amico Elon Musk: Donald Trump ha lanciato un programma speciale che permette agli Afrikaner bianchi di ottenere lo status di rifugiati politici negli Stati Uniti. Una decisione controversa che ha scatenato reazioni durissime da Pretoria. Ma la macchina è già partita: il primo gruppo ha lasciato il Paese diretto verso Washington.

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        Donald Trump fa di nuovo parlare di sé. E questa volta il suo bersaglio non sono né i migranti del Centroamerica né i rifugiati del Medio Oriente, bensì… i bianchi del Sudafrica. O meglio: li prende sotto la sua ala. Con un ordine esecutivo, il tycoon ha infatti inaugurato “Mission South Africa”, un programma di reinsediamento dedicato agli Afrikaner, la minoranza bianca che in Sudafrica denuncia da anni persecuzioni, violenze e discriminazioni. Un gesto carico di significato politico – e culturale – che ha mandato su tutte le furie il governo di Pretoria.

        A rendere il tutto ancora più interessante è il retroscena che porta dritto a Elon Musk. Il patron di Tesla e X (ex Twitter), nato proprio in Sudafrica da famiglia Afrikaner, sarebbe stato uno dei primi a promuovere informalmente l’idea. Trump, con il suo fiuto per le battaglie simboliche, l’ha trasformata in un cavallo di Troia perfetto per la sua campagna: accoglienza selettiva, protezione della “vera civiltà”, e uno schiaffo al multiculturalismo progressista.

        Il primo gruppo di famiglie, tra cui anche bambini, è già decollato dall’aeroporto di Johannesburg sotto scorta. Nessuna dichiarazione, solo bagagli e volti tesi. A riceverli, all’aeroporto di Washington Dulles, c’erano funzionari del governo americano. Un’accoglienza da Stato amico.

        Ma l’esecutivo sudafricano non ci sta. “Una mossa politica, strumentale e dannosa per la nostra democrazia costituzionale”, ha tuonato il portavoce del ministero degli Esteri. Pretoria non riconosce la narrativa secondo cui gli Afrikaner siano vittime di persecuzioni tali da giustificare l’asilo.

        Il messaggio, però, è chiaro: Trump fa selezione. Chi fugge da guerre, fame o disastri ambientali resta fuori. Chi porta con sé l’immagine di un’“America che fu”, bianca e benestante, può entrare. Anche se proviene da un Paese democratico. Anche se non c’è alcuna guerra in corso.

        E se poi ci fosse anche l’amicizia di un certo Elon Musk, tanto meglio.

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          Mondo

          Baseball e benedizioni. Papa Leone XIV è un tifoso dei White Sox (ma i Cubs non ci stanno)

          Dopo l’elezione, Chicago si interroga: il pontefice sostiene i Cubs o i White Sox? Il fratello John svela la verità, tra maglie inviate in Vaticano e rivalità sportive che arrivano oltre Piazza San Pietro.

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            L’Illinois ha dato alla Chiesa il suo primo pontefice americano, ma a Chicago l’entusiasmo per l’elezione di Papa Leone XIV ha lasciato subito spazio a un’altra questione fondamentale. Ma per quale squadra di baseball fa il tifo? Lungo Michigan Avenue, tra chi si congratula per il nuovo papa e chi riflette sulla portata storica dell’evento, un interrogativo serpeggia tra i passanti: è un uomo da Cubs o da White Sox? La sfida è subito diventata virale. I Chicago Cubs, forse sperando di mettere subito le mani sul cuore sportivo del pontefice, hanno rivendicato sui social: “Prevost è dei nostri!“. E avevano una teoria per supportarlo: la madre del papa era una tifosa dei Cubs, cresciuta nel North Side della città.

            Ma la gioia della squadra del Wrigley Field ha avuto vita breve. A smentirli ci ha pensato John Prevost, fratello di Leone XIV, che ha rilasciato una dichiarazione chiara ai media. “Chiunque abbia parlato dei Cubs alla radio si è sbagliato. Mio fratello tifa i Sox.” Il South Side ha esultato. La risposta è diventata ufficiale e i White Sox, con la velocità di un fuoricampo, hanno subito celebrato l’accoglienza di un tifoso d’élite. “Hey Chicago, è un fan dei Sox!“, hanno scritto sui social e allo stadio, annunciando di aver già inviato una maglia e un cappello direttamente in Vaticano.

            Una benedizione sportiva

            Certo, una cosa è sicura: alcune cose sono più grandi del baseball, ma per i Sox l’idea di avere un pontefice dalla loro parte è una benedizione sportiva. Soprattutto in una stagione iniziata non nel migliore dei modi. E se il baseball è la sua passione da tifoso, Leone XIV ha anche un lato più competitivo: è un tennista dilettante, e lo ha ammesso lui stesso. “Mi considero un tennista di tutto rispetto,” ha dichiarato, aggiungendo di non vedere l’ora di tornare in campo dopo il trasferimento dal Perù. Certo, il nuovo ruolo non gli lascia molto tempo libero, ma se c’è una partita da giocare, sembra che il papa non si tiri indietro. I Cubs accetteranno questa rivelazione o tenteranno di conquistare il tifoso più influente del mondo? In ogni caso, pare che il Vaticano abbia un nuovo colore nelle sue stanze: il bianco e il nero dei Chicago White Sox.

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              Il Golfo (del Messico) conteso: Sheinbaum fa causa a Google dopo il “battesimo americano”

              Trump lo rinomina “Golfo d’America”, Google si adegua, ma il Messico non ci sta. La presidente Sheinbaum avvia una causa legale e propone di ribattezzare gli Stati Uniti “America Messicana”.

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                Il Messico ha deciso di alzare la voce contro Google e la Casa Bianca, dopo che il Golfo del Messico è stato ribattezzato per gli utenti americani “Golfo d’America”. Una questione di toponomastica? Forse. Ma anche di politica, identità e qualche rivalità storica mai del tutto sopita. Tutto ha avuto inizio il 20 gennaio, quando, al suo ritorno alla presidenza, Donald Trump ha firmato un decreto che modifica il nome del Golfo del Messico. Google Maps, seguendo la direttiva, ha aggiornato la mappa. E ora gli utenti negli Stati Uniti vedono “Golfo d’America” nella zona tra Florida, Texas, Louisiana, Messico e Cuba.

                Claudia Sheinbaum non ci sta proprio…

                Ma Claudia Sheinbaum, presidente del Messico, non ha intenzione di lasciar correre. “La causa è già stata depositata“, ha dichiarato in una conferenza stampa, annunciando un’azione legale contro il colosso tecnologico. Secondo il suo governo, il decreto di Trump si applica solo alla piattaforma continentale americana. Non all’intero Golfo, e Google non avrebbe dovuto estendere il cambio di nome a livello globale.

                Messico e nuvole

                Come se non bastasse, Sheinbaum ha rilanciato con una provocazione. “Se il Golfo è d’America, allora possiamo chiamare gli Stati Uniti ‘America Messicana’“, facendo riferimento alla mappa precedente al 1848. Quando un terzo del territorio messicano fu ceduto agli USA con il Trattato di Guadalupe Hidalgo. La disputa arriva in un momento delicato nelle relazioni tra i due paesi, con il Messico che continua a essere un attore cruciale nelle guerre commerciali avviate da Trump. Il presidente americano punta a ridisegnare gli equilibri commerciali, mentre il Messico cerca di difendere le proprie esportazioni, che hanno come destinazione principale proprio gli Stati Uniti.4

                Dove porterà questa battaglia di nomi? Forse a un compromesso, forse a qualche aggiornamento geopolitico sui GPS di mezzo mondo. Ma una cosa è certa: quando si tratta di orgoglio nazionale, nemmeno le mappe digitali possono evitare di finire nel mirino della politica.

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