Cronaca
“Quanti voti servono per fare un Papa?” – Piccola guida (frizzante) alle maratone cardinalizie nella Cappella Sistina
Mai una fumata bianca al primo colpo, ma spesso bastano poche votazioni per eleggere il nuovo Pontefice. Un viaggio leggero tra i conclavi più rapidi, quelli infiniti e quelli che hanno fatto la storia del Novecento e oltre.

Quante votazioni ci vogliono per eleggere un Papa? Spoiler: sempre più di una. Nemmeno lo Spirito Santo, dicono i più ironici tra i vaticanisti, riesce a farsi ascoltare al primo scrutinio. Però, sebbene la suspense sia garantita a ogni conclave, la verità è che spesso tutto si risolve in meno di una decina di votazioni. Certo, con qualche eccezione. E qualche storia da raccontare.
Partiamo da Leone XIII, un tipo sveglio. Correva l’anno 1878, e dopo il lunghissimo regno di Pio IX, il suo conclave fu più sprint di una puntata di Don Matteo: tre votazioni e via, Papa fatto. D’altronde, serviva uno che sapesse gestire il post “fine del potere temporale”. Ci riuscì, e in più è passato alla storia per essere il primo Papa immortalato in video. Come dire: un pontificato social ante litteram.
Pio X, invece, ci mise sette voti. Santo subito, ma al tempo non così scontato da scegliere. Anzi, ci fu persino un veto (pratica abolita subito dopo) che fece slittare tutto. Morale: anche i santi devono saper aspettare.
Nel 1914, in pieno fermento pre-bellico, arrivò Benedetto XV: dieci votazioni, un Papa pacifista che chiese invano di fermare quella che definì “un’inutile strage”. Troppo avanti per i tempi, forse.
Il vero maratoneta del conclave fu però Pio XI: nel 1922 servì quattordici scrutini per farlo uscire Papa. Una vera odissea cardinalizia, che produsse però un pontefice che fece la pace con lo Stato italiano (vedi alla voce Patti Lateranensi). Non male, considerato il via crucis iniziale.
Ma se parliamo di velocità, nessuno batte Pio XII, alias Eugenio Pacelli: nel 1939 venne eletto alla terza votazione. Un blitz. C’era da affrontare il nazismo, il fascismo, una guerra mondiale in arrivo… meglio non perdere tempo.
Giovanni XXIII, il Papa buono, quello del Concilio Vaticano II, uscì dalla Sistina all’undicesima. Una scelta che sembrava “di transizione” e si rivelò epocale.
Poi arrivò Paolo VI, che completò il Concilio: sei votazioni, sufficiente tempo per mettersi d’accordo senza farsi troppi nemici.
Nel 1978, l’anno dei tre Papi, ci fu Giovanni Paolo I, eletto con quattro votazioni e morto dopo soli 33 giorni. Un dolore per tutti, anche per i cardinali che si rimisero subito al lavoro. Dopo altri otto scrutini, uscì fumo bianco per Karol Wojtyla, il primo Papa polacco della storia. E anche uno dei più amati, lunghi e determinanti.
Nel 2005, dopo la morte di Giovanni Paolo II, tutti gli occhi erano sulla Cappella Sistina. Ma Joseph Ratzinger non li fece attendere troppo: quattro votazioni, e il mondo aveva Papa Benedetto XVI.
Ultimo ma non ultimo, Papa Francesco. Dopo il clamoroso colpo di scena delle dimissioni di Ratzinger (evento che nella Chiesa ha il sapore dell’asteroide), Jorge Mario Bergoglio fu eletto al quinto scrutinio. Non il favorito, ma quello che ha messo d’accordo tutti, alla fine.
Morale della favola? Di solito bastano tra tre e otto votazioni per trovare la famosa “fumata bianca”. Ma a volte servono due giorni, altre una settimana. Dipende dal clima, dai nomi, dalle alleanze e, ovviamente, dalle preghiere.
Intanto, fuori da San Pietro, si scrutano i camini e si scommette sulla durata del conclave. Perché se i cardinali votano, noi… fumiamo. Ma solo metaforicamente.
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Italia
Arriva il bonus donne 2025: un incentivo per favorire l’occupazione femminile
Fino a 650 euro di agevolazioni e contributi mirati per le aziende che assumono forza lavoro femminile.

Nel panorama delle agevolazioni per il mercato del lavoro, il bonus donne 2025 è un incentivo significativo per promuovere l’occupazione femminile e incentivare le imprese a puntare su lavoratrici in condizioni di svantaggio. Dopo un periodo di incertezze e ritardi burocratici, il Ministero del Lavoro e il Mef hanno finalmente firmato i decreti attuativi. Via libera quindi all’esonero contributivo destinato ai datori di lavoro che assumono donne e giovani under 35.
Come funziona e chi può beneficiare del bonus
L’agevolazione riguarda le imprese private che, entro il 31 dicembre 2025, assumono donne con contratti a tempo indeterminato. Per queste assunzioni, le aziende potranno beneficiare di un esonero totale dal versamento dei contributi previdenziali per un massimo di 24 mesi. Il suo valore può arrivare fino a 650 euro al mese per ogni lavoratrice assunta. L’incentivo si applica esclusivamente agli oneri previdenziali e non comprende i premi e i contributi destinati all’Inail. Tuttavia, l’aliquota utilizzata per calcolare le prestazioni pensionistiche della lavoratrice rimane invariata, garantendo così la continuità nei diritti previdenziali. Per poter accedere al bonus, le assunzioni devono determinare un incremento occupazionale netto, ovvero un effettivo aumento del numero di lavoratori rispetto alla media dei 12 mesi precedenti. Anche nel caso di contratti part-time, il calcolo tiene conto delle ore lavorate rispetto al tempo pieno.
La novità del “doppio binario”
Uno degli aspetti più innovativi dell’incentivo è l’introduzione del cosiddetto “doppio binario”, ovvero un sistema differenziato che distingue le imprese. Quelle situate nel resto d’Italia possono usufruire dell’agevolazione per assunzioni effettuate dal 1° settembre 2024 fino al 31 dicembre 2025. Le imprese operanti nelle regioni della Zona Economica Speciale (ZES) (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna), invece, stanno facendo domanda già dal 31 gennaio 2025.
Nelle regioni del Mezzogiorno, inoltre, l’esonero contributivo è riconosciuto anche per l’assunzione di donne disoccupate da almeno 6 mesi, ampliando così la platea di beneficiarie rispetto al requisito generale di 24 mesi di disoccupazione valido per il resto del Paese. Ci sono alcune esclusioni importanti. L’incentivo non si applica ai contratti di lavoro domestico, quindi a colf, badanti e baby sitter, né ai contratti di apprendistato. Inoltre, l’agevolazione non è cumulabile con altri esoneri contributivi. E’ compatibile, invece, con la maxi-deduzione fiscale del 120% sulle nuove assunzioni, permettendo alle imprese di ottenere un doppio vantaggio economico.
L’obiettivo del bonus
Questo incentivo all’assunzione nasce con l’intento di incentivare l’ingresso e la stabilizzazione delle donne nel mondo del lavoro, contrastando la disoccupazione femminile e favorendo una maggiore equità occupazionale. Le risorse stanziate dal governo evidenziano l’importanza strategica della misura. Sono stanziati 7,1 milioni di euro per il 2024, 107,3 milioni di euro per il 2025, 208,2 milioni di euro per il 2026, e 115,7 milioni di euro per il 2027. L’investimento è significativo e punta a sostenere la crescita economica attraverso un maggiore coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro.
In attesa della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale
Sebbene i decreti attuativi siano stati firmati, per l’operatività effettiva dell’incentivo è ancora necessario il parere della Corte dei Conti, a cui seguirà la pubblicazione ufficiale in Gazzetta Ufficiale. Solo allora le imprese potranno iniziare a presentare le domande per ottenere l’esonero contributivo.
Mondo
I dazi di Trump fanno scappare i coniglietti Lindt: la cioccolata svizzera rischia di diventare americana
La minaccia dei dazi fino al 39% costringe Lindt a studiare un piano da 10 milioni di dollari per spostare la fabbricazione dei suoi simboli pasquali oltreoceano. L’annuncio scuote la Svizzera e alimenta i timori che la tradizione dei dolci di stagione perda la sua anima europea.

I coniglietti dorati con il fiocco rosso, icona della Pasqua svizzera, potrebbero presto avere un passaporto americano. Colpa della politica commerciale del presidente Usa Donald Trump, che minaccia di innalzare i dazi sull’importazione dei prodotti europei fino al 39%. Una mossa che mette in seria difficoltà Lindt & Sprüngli, il colosso del cioccolato. Che da decenni lega la propria immagine al coniglietto di cioccolato più famoso al mondo.
Secondo quanto riportato da Bloomberg, l’azienda starebbe valutando di spostare la produzione dei suoi prodotti stagionali. Non solo i coniglietti pasquali ma anche i Babbo Natale di cioccolato, dagli stabilimenti tedeschi a impianti situati direttamente negli Stati Uniti. Un investimento stimato in circa 10 milioni di dollari, che servirebbe ad aggirare le tariffe punitive e a mantenere competitivo il prezzo al consumo.
Lindt, da parte sua, non ha confermato apertamente il progetto. Ma un portavoce ha spiegato: «Stiamo lavorando costantemente per rendere la nostra produzione e le nostre catene di approvvigionamento più efficienti, tenendo conto dell’attuale situazione tariffaria. Questo include la verifica di quali prodotti vengono fabbricati, in quali siti produttivi e per quali mercati».
Il problema è duplice. Da un lato i dazi del 15% già imposti all’Unione Europea, che rischiano di salire vertiginosamente. Dall’altro il rincaro del cacao, che nei primi sei mesi del 2025 ha registrato un +16%. Una combinazione esplosiva che potrebbe far lievitare i prezzi al dettaglio e rendere proibitivi i dolci pasquali per milioni di consumatori.
Eppure, il mercato americano è troppo importante per essere messo a rischio. Negli Stati Uniti, primo consumatore mondiale di cioccolato, Lindt ha registrato un giro d’affari da 843 milioni di dollari nel 2024, con una crescita annua del 4,9%. Un successo che l’azienda non intende perdere a causa delle tensioni commerciali.
Non solo: nei piani di riorganizzazione c’è anche lo spostamento della produzione destinata al Canada da Boston a stabilimenti europei, per schivare i dazi di ritorsione decisi da Ottawa contro Washington.
Un puzzle globale che rischia di trasformare la geografia del cioccolato: le tavolette Lindor resteranno prodotte solo in Svizzera, la Francia continuerà a ospitare il polo dell’Excellence, e l’Italia conserverà il primato delle creazioni alla nocciola. Ma i coniglietti pasquali, per sopravvivere, potrebbero dover attraversare l’Atlantico. Con buona pace della tradizione elvetica.
Mondo
Germania, cala la sete di birra: consumi giù del 35% in trent’anni
Dai 126 litri a persona nel 2000 agli 88 di oggi: la bevanda simbolo del Paese non è più un rito quotidiano. La spinta delle analcoliche non basta a compensare il calo.

La Germania, patria per eccellenza della birra, sta vivendo un cambiamento epocale nei consumi. Negli ultimi trent’anni il consumo pro capite è crollato del 35% e nei primi mesi del 2025 la produzione ha registrato un ulteriore calo del 6,3%. Numeri che fotografano una crisi strutturale per un settore che da secoli rappresenta un pilastro dell’identità culturale ed economica del Paese.
Il caso del birrificio Lang-Bräu, costretto a chiudere nel 2025 dopo 172 anni di attività nel nord della Baviera, è solo uno degli esempi più simbolici. Secondo Bloomberg, solo tra il 2023 e il 2024 hanno abbassato la saracinesca 52 aziende brassicole, su un totale di circa 1.500 attive in Germania. A incidere sono soprattutto i costi di produzione, cresciuti in media del 6% all’anno, come calcolato dalla società di consulenza Roland Berger. Spese che i produttori non riescono a ribaltare interamente sul prezzo finale, vedendo così erodere progressivamente i margini di guadagno.
Se nel 2000 un cittadino tedesco beveva in media 126 litri di birra all’anno, oggi la cifra è scesa a 88. Un calo che non dipende soltanto dai rincari, ma anche da un mutamento culturale. Le nuove generazioni, in particolare la Gen Z, consumano meno alcol, spinti da una maggiore attenzione alla salute e da disponibilità economiche più limitate. Così la birra non è più la compagna quotidiana delle serate, ma diventa piuttosto un consumo occasionale.
Per rispondere a questa trasformazione, molti produttori hanno puntato sulle birre analcoliche. Un segmento in forte crescita, ma che al momento resta marginale e accessibile soprattutto ai grandi marchi capaci di investire in nuove linee produttive. Secondo i dati Eurostat, nel 2024 i Paesi dell’Unione europea hanno prodotto complessivamente 34,7 miliardi di litri di birra. 32,7 miliardi con più dello 0,5% di alcol e circa 2 miliardi tra birre analcoliche o a bassissimo tenore alcolico. La Germania rimane al primo posto in Europa, con oltre il 22% della produzione totale: circa 7,2 miliardi di litri, in larghissima parte di tipo tradizionale.
La sfida per il settore è chiara: rinnovarsi senza tradire la propria storia. Per i piccoli birrifici indipendenti, però, la strada appare sempre più in salita. La bevanda simbolo dell’Oktoberfest continua a resistere nei numeri assoluti, ma l’epoca d’oro in cui la birra scandiva la vita quotidiana dei tedeschi sembra ormai alle spalle.
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