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Cronaca

Ritorna il redditometro, dal 1993 uno strumento fiscale controverso

Il Redditometro rappresenta uno strumento complesso e controverso nel panorama fiscale italiano. Il suo ritorno, con le modifiche e i correttivi apportati, punta a rendere più equo il controllo delle capacità di spesa dei contribuenti, non senza sollevare dibattiti e preoccupazioni nel contesto politico e sociale italiano.

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redditometro uno strumento fiscale reintrodotto ma dopo le elezioni europee

    Innanzitutto che cos’è il Redditometro? Approvato nel 2010 dal governo Berlusconi e confermato dal Parlamento, entrato in vigore nel 2012 sarebbe lo strumento di accertamento sintetico che assegna coefficienti a beni come immobili e auto per ipotizzare il nostro reddito. Nonostante la sua imprecisione, l’obiettivo è quello di stimare se il reddito ipotizzato sia coerente con quello dichiarato.

    Un radar fiscale su auto, case, barche…

    Ma cosa prende in considerazione questo strumento per valutare la coerenza tra quello che percepiamo e quello che spendiamo? Dalle spese per l’auto a quelle per la casa, dal costo delle utenze a quelle per il possesso di barche. Da quest’anno questo strumento torna a controllare le capacità di spesa dei contribuenti per risalire ai loro redditi. Ma il Redditometro ha avuto una storia molto travagliata. Infatti era stato introdotto per la prima volta nell’ormai lontano 1993. Ma da allora non mai avuto una vita facile. Più volte è stato ritirato o non applicato, a secondo dei governi e delle strategie fiscali di controllo dei contribuenti. In pratica il Fisco mette sotto la lente di ingrandimento le capacità di spesa dei contribuenti per risalire al loro reddito. Se incontra discrepane verifica e spulcia nei nostri conti correnti.

    Il ritorno del Redditometro? Rinviato a dopo le elezioni

    Dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto che riporta in vita il Redditometro, la maggioranza di governo è entrata in fibrillazione, specialmente a tre settimane dalle elezioni europee. La premier Giorgia Meloni ha deciso per uno stop temporaneo dello strumento, rinviando l’introduzione del “radar” del Fisco sui beni nascosti degli italiani almeno fino a dopo le elezioni. A questo proposito il viceministro dell’Economia e membro di Fratelli d’Italia, Maurizio Leo, ha spiegato che il centrodestra è sempre stato contrario al meccanismo del Redditometro reintrodotto l’ultima volta dal governo Renzi nel 2015. Il nuovo decreto, secondo Leo, limita il potere discrezionale dell’Amministrazione finanziaria di attuare l’accertamento sintetico. Il nuovo Redditometro punta a correggere le storture create nel 2018 e introduce un doppio contraddittorio obbligatorio.

    La sua nuova formulazione

    Il nuovo Redditometro non si limita al possesso di beni o investimenti, ma tenta di misurare la spesa complessiva ed effettiva del contribuente in relazione a quanto dichiarato. Il calcolo parte dalle spese attribuibili al contribuente in base a campionature di nuclei familiari e aree geografiche. E anche dalle spese effettivamente sostenute risultanti dall’Anagrafe tributaria e dall’ammontare del risparmio accantonato. E quindi quali spese rientrano ora? Nel calcolo del nuovo Redditometro rientrano spese come l’acquisto di beni immobili, il possesso di autovetture, il consumo di energia elettrica domestica e altre voci che indicano una capacità di spesa. Sono introdotte anche le spese sostenute dai familiari a carico, mentre sono escluse le spese per beni e servizi legati all’attività di impresa o professionale.

    E se il contribuente contesta…?

    Il decreto introduce la “prova contraria“, permettendo ai contribuenti di dimostrare che le spese sono state finanziate da soggetti diversi o con redditi esenti o esclusi dalla formazione della base imponibile. Viene introdotto un doppio contraddittorio obbligatorio per reperire informazioni utili e per l’adesione alla procedura di accertamento.

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      Italia

      Dallo stupro di gruppo al profilo su OnlyFans: la nuova vita (e le nuove domande) di Asia Vitale

      La ragazza simbolo del caso Palermo si mostra oggi senza filtri su OnlyFans. Rivendica il controllo sul proprio corpo. Ma tra emancipazione e contraddizione, resta l’amaro dubbio: stiamo assistendo a una rinascita o a una nuova forma di esposizione?

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        Due anni fa il suo nome è diventato simbolo. Asia Vitale, la ragazza di Palermo violentata da sette ragazzi in un cantiere abbandonato, oggi riappare sotto una luce diversa: quella di una webcam. Dopo la chiusura del suo profilo Instagram e il calo dei follower, ha aperto un nuovo canale su OnlyFans. Si chiama AsiaVitale3.0 e propone contenuti sessuali a pagamento. Tutto legale, tutto consenziente, tutto rivendicato.

        “Il corpo è mio”, dice. “Chi ha problemi con questo mestiere dovrebbe cambiare mentalità”. Eppure, la sua storia personale rende difficile ignorare la frattura tra passato e presente. Dopo aver subito un’aggressione brutale e aver vissuto anni in comunità per allontanarsi da una famiglia che lei stessa definisce “tossica”, oggi Asia monetizza la propria immagine, il proprio corpo, la propria sessualità.

        Non c’è giudizio, ma c’è stupore. Non si tratta di negare la libertà di scelta, ma di registrare una contraddizione che interroga chi osserva. Come si arriva, da una violenza così feroce, a scegliere di mettersi di nuovo sotto gli occhi di tutti, stavolta per guadagnare?

        “Ho rimosso le loro facce”, dice parlando dei suoi aggressori. “Cerco solo di andare avanti”. Racconta di un rapporto con il sesso profondamente cambiato, più consapevole, più adulto. Ma confessa anche un trauma più recente: un sequestro subito a Ballarò, da parte della madre di uno degli accusati, che voleva costringerla a ritirare la denuncia.

        Oggi lavora in un hotel a Courmayeur e prova a costruirsi una nuova vita. OnlyFans la aiuta a far quadrare i conti, ma non garantisce stabilità. I video vengono pagati, ma possono anche essere rivenduti illegalmente. Un’altra forma di sfruttamento, di cui Asia è perfettamente consapevole.

        Il suo è un racconto di sopravvivenza. Ma anche una domanda aperta: dopo tutto questo dolore, davvero la libertà passa ancora per l’esposizione del corpo?

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          Italia

          Truffe ad anziani con copioni e regole scritte su cosa dire

          Questa operazione dei Carabinieri svoltasi a Napoli rappresenta un importante passo avanti nella lotta contro le truffe e le estorsioni, proteggendo le fasce più vulnerabili della popolazione. Le autorità continuano a lavorare per smantellare altre organizzazioni simili e prevenire ulteriori reati.

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            Le escogitano proprio tutte i truffatori che si accaniscono sugli anziani per estorcere loro gioielli, contanti, orologi e beni di ogni tipo. I Carabinieri di Napoli hanno disposto numerose misure cautelari contro delinquenti specializzati in questo genere di truffa. In questa operazione hanno sequestrato veri e propri copioni e testi già scritti che i telefonisti della banda dovevano recitare e ripetere in modo convincente. Dei veri e propri vademecum e regole da seguire per effettuare una truffa senza insospettire i malcapitati. Tutto partiva dalla telefonata per “agganciare” le vittime, durante la quale si dovevano dire in modo impeccabile e senza tentennamenti, poche parole decise, ben scandite e chiare. Poi l’appuntamento e quindi la visita a domicilio per ritirare denaro e gioielli e quant’altro.

            A smantellare questa ennesima truffa il comando provinciale dei Carabinieri di Roma

            Una vera e propria organizzazione criminale specializzata in truffe ed estorsioni ai danni di anziani è stata finalmente smantellata proprio in questi ultimi giorni nel capoluogo campano dai Carabinieri del comando provinciale di Roma. Le autorità hanno eseguito misure cautelari nei confronti di 17 individui. Sette sono stati incarcerati e 10 posti agli arresti domiciliari. Le vittime ignare e inconsapevoli ai quali i malviventi si rivolgevano seguendo un protocollo già rodato centinaia di volte.

            Si fingevano impiegati delle Poste, avvocati e perfino Carabinieri

            Fingendosi impiegati delle poste, assicuratori, avvocati o carabinieri, i truffatori chiamavano le vittime, informandole che un familiare doveva saldare un debito per ritirare un pacco o che aveva causato un incidente stradale. Per “risolvere” la situazione, veniva richiesto a coppie di anziani, ma soprattutto a single, senza nessuno in casa con cui potersi confrontare prima di agire, il pagamento immediato di denaro o gioielli. Successivamente, un complice si recava a casa delle vittime per riscuotere il bottino. Una sceneggiatura vista e rivista. Eppure ci sono ancora molte vittime di questo sistema estorsivo.

            Un vero e proprio manuale di istruzione per truffare gli anziani

            Le vittime venivano selezionate casualmente tramite ricerche online o sugli elenchi telefonici. Durante le perquisizioni i Carabinieri hanno trovato diversi manuali ciascuno con discorsi precompilati a secondo del tipo di truffa che stavano effettuando. Il manuale del postino, il manuale del Carabiniere, il manuale dell’avvocato o dell’assicurazione. All’interno le parole giuste e le istruzioni dettagliate, su cosa dire alle vittime per ingannarle. Sono stati sequestrati anche denaro contante, centinaia di schede telefoniche, decine di telefoni cellulari e una grande quantità di gioielli.

            Una organizzazione ramificata e ben organizzata

            Le indagini hanno rivelato che l’associazione per delinquere aveva base a Napoli, guidata dai membri di una specifica famiglia ma con ramificazioni in tutta la provincia. Sono state accertate oltre 80 truffe ed estorsioni nelle province di Roma, Napoli, Latina e Viterbo. I truffatori si spostavano a Roma e in altre città dell’Italia centrale utilizzando auto a noleggio.

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              Cronaca Nera

              Garlasco, parla il giudice che assolse Stasi: “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

              Stefano Vitelli, oggi giudice del Riesame a Torino, racconta il primo processo a Stasi nel 2009: “C’era qualcosa che non tornava, ma mancava la prova definitiva. E soprattutto mancava un movente”

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                Un’indagine complessa, una storia giudiziaria che si trascina da oltre 16 anni, un caso che continua a dividere. Oggi, mentre un nuovo nome è tornato nel registro degli indagati per l’omicidio di Chiara Poggi, a parlare è Stefano Vitelli, il magistrato che nel 2009 assolse Alberto Stasi in primo grado. All’epoca giudice per le udienze preliminari a Vigevano, oggi in forza al tribunale del Riesame di Torino, Vitelli ricorda perfettamente il processo abbreviato che lo portò a quella decisione. E lo fa con una lucidità che getta ancora più ombre sulla ricostruzione del delitto.

                “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

                “Il ragionevole dubbio è essenziale per noi magistrati e per l’opinione pubblica”, dice Vitelli. Un principio che fu il cardine della sua sentenza di assoluzione. “Non voglio giudicare le inchieste successive, non ne conosco gli atti, ma quando processai Stasi, più si andava avanti e più aumentavano le domande senza risposta”.

                Uno degli elementi chiave fu la perizia informatica: “Era una sera d’estate, me lo ricordo ancora. L’ingegnere mi chiamò e mi disse: ‘Dottore, è sul divano? Ci resti. Stasi stava lavorando al computer, sulla sua tesi’”. Un dettaglio che spiazzò gli inquirenti: il ragazzo, secondo l’accusa, avrebbe dovuto inscenare la sua attività online per crearsi un alibi, e invece risultò che stava effettivamente correggendo passaggi del suo lavoro con concentrazione e coerenza.

                “C’era qualcosa che non tornava,” spiega Vitelli. “Si parlava di scarpe pulite, eppure i test dimostrarono che a volte si sporcavano, altre no. La bicicletta? Una testimone ne descriveva una diversa. Nessuna traccia di sangue nel lavabo. Ogni elemento che avrebbe dovuto rafforzare la tesi dell’accusa, finiva per renderla più fragile”.

                Un puzzle senza pezzi combacianti

                Vitelli non nasconde che, in quella fase processuale, c’erano aspetti che lo lasciavano perplesso. “Gli indizi erano tanti, ma contraddittori e insufficienti. Abbiamo interrogato i vicini: nessuno ha sentito rumori, nessuno ha visto movimenti strani. Stasi, poi, avrebbe dovuto compiere un delitto così brutale e subito dopo mettersi a lavorare alla tesi in modo lucido? Anche il dettaglio del dispenser del sapone faceva riflettere: aveva mangiato la pizza la sera prima, lavarsi le mani era un gesto normale”.

                E poi c’era il movente. O meglio, la sua assenza. “Nei casi incerti, il movente diventa un elemento decisivo per chiudere il cerchio. Qui, un movente non c’era”.

                E Andrea Sempio?

                L’altro nome che emerge dalle carte è Andrea Sempio, oggi formalmente indagato dopo anni di voci e supposizioni. Vitelli ricorda solo un dettaglio della sua testimonianza: “Un alibi basato su uno scontrino conservato. Mi sembrò curioso”.

                Quanto all’impatto mediatico del caso, il magistrato ha sempre cercato di restarne fuori: “Ho chiuso la porta a giornalisti, pm, avvocati. Di un processo si parla solo nelle aule di giustizia. L’unica cosa che mi dava fastidio era sentire dire che ero ‘pro’ o ‘contro’. Il nostro lavoro deve essere laico”.

                Sedici anni dopo, i dubbi restano

                Vitelli ha riletto la sua sentenza proprio in questi giorni, su richiesta della rivista Giurisprudenza penale. E la sua opinione non è cambiata: “Con gli elementi che avevo, l’assoluzione di Stasi era sacrosanta”.

                Oggi, il caso Garlasco è di nuovo sotto i riflettori. Ma le stesse domande che Vitelli si pose nel 2009 rimangono senza risposta. Chi ha ucciso Chiara Poggi? E soprattutto: c’è davvero una verità che metterà fine a questa storia?

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