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Storie vere

Che ci faccio io qui? Monica Zanetti, la donna che ha sfidato la Ferrari

Prima meccanico donna alla Ferrari, ha contribuito alla costruzione della mitica F40 inseguendo con determinazione il suo amore per i motori.

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    Nel mondo dei motori, tradizionalmente dominato dagli uomini, Monica Zanetti ha saputo rompere gli schemi e scrivere la propria storia con volontà e determinazione. La sua carriera è stata una sfida continua, dalla scuola professionale fino alla Ferrari, dove ha lavorato nel reparto meccanico contribuendo alla realizzazione della leggendaria F40. Del resto Monica è cresciuta a Maranello, dove il nome Ferrari risuona ovunque fin dalle prime poppate. Già da bambina, ascoltava affascinata i racconti dello zio, meccanico della scuderia e presente nei circuiti di gara. “Mamma mia io vorrei fare queste cose”, pensava, e quel sogno non l’ha mai abbandonata. Ma negli anni ‘70, entrare nel mondo della meccanica da donna era quasi impossibile. E quando scoprì che c’era un corso professionale per tecnici a Maranello, fece di tutto per iscriversi, sfidando i pregiudizi. “Ce l’ho fatta: torneria, saldatura, lavoro con le frese”, racconta con orgoglio ripensando a quei suoi inizi.

    Monica lancia la sfida alla Ferrari

    Grazie alla sua manualità e alla passione dimostrata, nel 1979 venne chiamata dalla Ferrari. Monica era la più felice del mondo: stava per lavorare nella fabbrica che aveva sempre sognato. I primi passi li mosse nel reparto carrozzeria, unica donna tra uomini. I colleghi non credevano che avrebbe resistito, convinti che prima o poi avrebbe mollato per la fatica. Ma Monica non si è mai tirata indietro. “Io sto male se non sto tra le macchine e in pista”, dice. La sua determinazione l’ha portata a guidare un reparto meccanico, diventando la prima donna in quel ruolo. E proprio in quegli anni contribuì alla costruzione della Ferrari F40, ancora oggi considerata un’icona della casa di Maranello.

    La maternità? Tra ruote e alettoni

    Monica ha vissuto anche la maternità in fabbrica, dimostrando che essere donna e meccanico si può. Quando rimase incinta, avvisò il team per non creare disagi. L’azienda apprezzò il suo gesto e le affidò un nuovo ruolo, seguendo i fornitori. Ma l’officina le mancava troppo e ci tornò appena possibile. Doveva ancora incontrare l'”Ingegnere”. Un momento che descrive come il più emozionanti della sua carriera. Enzo Ferrari, il fondatore della Scuderia la ricevette nel suo ufficio. “Aveva gli occhiali scuri, ma mentre parlava con me li ha cambiati con quelli chiari”, racconta. “Era il suo modo di capire se una persona era autentica. Mi vennero i brividi”. Ferrari credeva in lei, e non l’aveva scelta per un mero simbolo. Monica rappresentava l’eccellenza della meccanica, a prescindere dal genere.

    Che eredità lascia?

    Oggi ci sono più donne nel settore automotive, ma secondo Monica la strada è ancora lunga. Spesso, le ragazze non provano nemmeno a intraprendere una carriera tecnica, perché sanno che a parità di competenze verrà scelto un uomo. “Non bisogna arrendersi prima ancora di iniziare. Insistete, studiate, preparatevi. Noi siamo qui per sostenervi”, dice, spiegando il lavoro dell’Automotive Women Association, che aiuta le donne ad inserirsi in questo settore. In Formula 1, poi, le pilote sono quasi assenti. “Gli sponsor per le donne sono pochi. Non serve un campionato femminile, bisogna garantire le stesse opportunità”, afferma con convinzione. Oggi Monica guida una Cinquecento, ma ha avuto il privilegio di provare la F40 in pista nel 1988. Nella sua piccola officina, che gestisce insieme ad alcuni pensionati della Ferrari, continua ancora a trasmettere ai giovani il suo entusiasmo.

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      Lana arcobaleno: una moda sostenibile e inclusiva grazie a ovini “gay”

      La collezione “Rainbow Wool” è un tentativo di unire moda, sostenibilità e inclusione. Utilizzando filati provenienti da lana ricavata da montoni scartati dagli allevamenti perché non più riproduttivi, si rivolge alle comunità Queer e LGBTQ+.

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        Al centro di una nuova e controversa tendenza nel mondo della moda c’è un’idea semplice ma a dir poco assai provocatoria. La lana creata grazie a ovini “gay.” Ovvero? Ovvero utilizzare la lana di ovini che, per scelta naturale o genetica, non si riproducono. Si tratta di ovini, spesso scartati dagli allevamenti tradizionali, che grazie a questa trovata diventano i protagonisti della collezione “Rainbow Wool“, un progetto che si propone di unire moda e sostenibilità, sostenendo al contempo le comunità LGBTQ+. Ma sarà etico attribuire un’orientamento sessuale umano agli animali? L’etichetta di “montoni gay” è stata oggetto di molte critiche, in quanto considera un comportamento naturale degli animali sotto una lente antropocentrica e riduttiva.

        Un filato speciale per un progetto inclusivo

        La lana di questi montoni, considerata un prodotto di nicchia e di alta qualità, viene utilizzata per creare una linea di abbigliamento che va dai cappelli alle toppe per le scarpe. Dietro questa iniziativa c’è l’idea di dare una nuova vita a questi animali, spesso destinati al macello, e di creare un prodotto esclusivo e sostenibile. Il ricavato della vendita della collezione sarà devoluto alla Lsdv+, la Federazione Queer Diversity in Germania, a sostegno dei progetti per l’uguaglianza e l’inclusione delle persone LGBTQ+. Ma sarà per davvero una moda sostenibile? La produzione di abbigliamento, anche se realizzato con materiali naturali e etici, comporta sempre un impatto ambientale. In questo come in casi analoghi sarebbe necessario valutare attentamente l’intero ciclo di produzione per garantire che questa iniziativa sia davvero sostenibile.

        Un testimonial d’eccezione e un’adozione da remoto

        Per lanciare la collezione “Rainbow Wool”, è stato scelto come testimonial Bill Kaulitz, frontman dei Tokio Hotel e noto influencer nel mondo della moda. Kaulitz, da sempre impegnato nella difesa dei diritti LGBTQ+, ha adottato due montoni della fattoria, sottolineando così il valore simbolico di questo progetto. L’adozione a distanza dei montoni è un’altra delle iniziative promosse dai creatori della collezione, con l’obiettivo di sostenere l’allevamento e garantire una vita dignitosa a questi animali.

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          Storie vere

          Bodybuilding pensaci tu. Claudia depressa e sovrappeso, ha trovato la forza per cambiare la sua vita grazie a questa pratica

          Lo sport può essere una potente forma di terapia. E così lo è stato per Claudia Oliveira 52enne brasiliana che con la pratica del bodybuilding ha trasformato la sua vita in meglio.

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            Claudia oggi ha 52 anni e vive felice e contenta. Ma solo 5 anni fa non era così. Depressa e sovrappeso si sentiva una donna inutile, problematica sull’orlo di crisi di nervi continue. Insomma era infelice e non si piaceva per nulla. Poi è successo qualcosa che ha trasformato completamente la sua esistenza: ha iniziato a praticare il bodybuilding. Piano, piano giorno dopo giorno ha capito che quella pratica stava influenzando positivamente il suo umore. Ma soprattutto la sua autostima oltre naturalmente migliorare il suo corpo sia da punto di vista estetico sia dal punto di vista di resistenza neuromuscolare.

            La passione per il bodybuilding e la voglia di trasmetterla

            Dopo i primi positivi cambiamenti Claudia Oliveira ha deciso di raccontare quella sua avventura e pratica anche sui social. E così in poco tempo è diventata un punto di rifermento di quanti, nelle sue stesse condizioni, cercavano qualche idea e aiuto per migliorare il proprio benessere psico fisico. Poi man mano che i suoi follower crescevano di numero e le restituivano feedback positivi ha deciso di impegnarsi nel promuovere e divulgare i benefici di questa pratica corporea. Fino a diventare un vero e proprio punto di rifermento del settore. Insomma un testimonial dei benefici del bodybuilding.

            La sua esperienza e motivazione come ispirazione per chi vuole cambiare

            Claudia ci tiene proprio a fare conoscere la sua esperienza. “Il bodybuilding mi ha salvata. Credevo di meritare qualcosa di meglio, e ho iniziato a cambiare le mie abitudini alimentari e ad allenarmi,” scrive sui social. Il suo percorso non è solo fisico: oggi si sente più forte, sicura e realizzata, e spera che la sua storia possa ispirare chiunque lotti con problemi simili a trovare la forza per trasformare la propria vita. Si sente talmente coinvolta che dalla depressione di cinque anni fa si è aggiudicata il premio Fitness Newcomer in Brasile, mostrando che l’impegno e la passione possono rivoluzionare anche le sfide più difficili. “Sto vivendo la mia fase migliore: del mio corpo, della mia mente, della mia autostima e della mia forza,” racconta, spronando i suoi follower a credere in loro stessi. “Se ci sono riuscita io, puoi farcela anche tu,” aggiunge. Equesto è il messaggio che più conta.

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              Storie vere

              Il microchip ha salvato il gatto Shoto, misteriosamente lontano da casa a 3000 km di distanza

              Un gatto texano ritrova la sua famiglia dopo 2 anni ad una distanza di oltre 3.000 km. Grazie al microchip il felino è stato ritrovato e riconosciuto, con enorme felicità da parte dei proprietari.

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                Un vecchio proverbio popolare sostiene che i gatti abbiano 7 vite. Se la cosa fosse vera – anche se sappiamo tutti che non lo è – il felino texano Shoto ne ha sicuramente spesa una in un’avventura ai limiti del credibile. La ragione per cui i gatti sembrano in grado di sopravvivere a situazioni pericolose è legata alla loro agilità e alla loro capacità di cadere sempre in piedi grazie alla flessibilità della loro colonna vertebrale.

                Senza sue notizie da ben due anni

                I proprietari del gatto protagonista di questa storia lo avevano perso più di due anni fa, in un freddo giorno di gennaio. I loro sforzi per ritrovare il proprio pelosetto si erano rivelati del tutto inutili e la preoccupazione di saperlo fuori casa, da solo con quelle temperature così fredde aveva fatto loro stringere il cuore. Le speranze di ritrovarlo si stavano via via spegnendo, dopo tante ricerche nessun successo… finché non hanno ricevuto una telefonata che, inaspettatamente, ha riacceso quella fiamma.

                Il chip col quale si è risalito ai proprietari

                Shoto era stato ritrovato e riconosciuto grazie al suo microchip. A quel punto è iniziato il viaggio dei proprietari per percorrere migliaia di km e riportarlo a casa. Ventisei ore di trasferta per ricongiungersi con l’amato felino.

                Sui social la storia del ritrovamento di Shoto

                Sui social la notizia è stata data in questo modo

                «Più di due anni fa, a Karla e alla sua famiglia è accaduto l’impensabile quando il loro amato gatto Shoto è uscito di casa ed è scomparso durante un’ondata di freddo particolarmente intensa a gennaio. Shoto era il primo gatto di questa famiglia e, nonostante i loro sforzi, non è mai stato trovato. Sentivano terribilmente la sua mancanza ». Così scrive il rifugio Dakin di Springfield, in Massachusetts, sui loro account social. E’ qui che uno sconosciuto ha consegnato il micio, dopo averlo trovato.

                Arrivato al rifugio in uno stato precario

                L’animale all’arrivo appariva molto magro e in cerca di cure. Lo staff lo ha preso subito con sé e lo ha rimesso in forma. Controllando il suo microchip, si è messo in contatto con i proprietari. E pensare che i proprietari, vedendo arrivare una chiamata con il prefisso del Massachusetts, avevano inizialmente pensato si trattasse di telemarketing e inizialmente non volevano neanche rispondere…

                Un viaggio lunghissimo per riportalo a casa

                L’iniziale ritrosia fortunatamente è stata vinta, permettendo di ricevere la bellissima ed assolutamente insperata notizia: Shoto era stato ritrovato. Immediatamente Karla ha pianificato il lungo viaggio per recuperarlo: un viaggio di 26 ore e oltre 3mila chilometri da macinare. Ma nessuna distanza poteva certo mettersi fra lei e il suo amato gatto di casa. Nessuno, a parte Shoto, potrà mai sapere come l’animale sia arrivato fino in Massachusetts, chi abbia incontrato lungo il suo peregrinare e con quali esperienze abbia dovuto confrontarsi per sopravvivere. Due anni che rappresenteranno per sempre il suo segreto.

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