Storie vere
Dall’elemosina fuori dalla vetrina al lavoro sicuro, Lorenz conquista Padova
Arrivato in Italia a bordo di un barcone, chiedeva l’elemosina fuori da una pasticceria. Oggi è un cameriere apprezzato, ha una famiglia e una vita più dolce.

La vita a volte prende strade inaspettate, trasformando una realtà difficile in un’opportunità straordinaria. È quello che è successo a Lorenz, un uomo dal sorriso contagioso che oggi lavora come cameriere in una pasticceria di Padova. Fino a pochi anni fa faceva l’elemosina davanti allo stesso locale che oggi propone i suoi bignè alla crema chantilly. Dalla Nigeria alla Libia il viaggio di Lorenz verso un futuro migliore è stato lungo e tortuoso. All’anagrafe Ewa Loven, nato in Nigeria in una famiglia che lo ha amato profondamente, fino a quando un episodio drammatico ha privato Lorenz di tutto. I suoi genitori vennero uccisi, lasciandolo orfano e senza nessuno a cui appoggiarsi, se non la nonna, che lo allevò con amore.
Lorenz e la nonna che gli insegnò a non avere paura di imparare
Per garantirgli un futuro, gli insegnò a non avere paura di imparare. Lo mandò a bottega, dove Ewa diventò falegname, imbianchino, muratore, e dove apprese una lezione fondamentale: dire sempre “sì, lo so fare”, per non lasciarsi sfuggire nessuna opportunità. Grazie a queste competenze, riuscì a lasciare la Nigeria e raggiungere la Libia, dove lavorò alla ristrutturazione della casa di un uomo influente. Quel lavoro gli valse il biglietto per il paradiso, come dice lui: la possibilità di partire per l’Europa.
Lampedusa, il sogno che diventa incubo
Ewa affrontò il mare su un barcone, attraversando uno dei viaggi più rischiosi che si possano immaginare. Raggiunse Lampedusa, dove il paradiso era solo nel paesaggio, mentre la vita reale era un inferno. Ma anche all’inferno si trovano angeli. Quello di Lorenz si chiamava Rita, una ragazza nigeriana di cui si innamorò. Lei ricambiò il suo amore, ma il sistema li separò: Ewa fu destinato a Padova, mentre Rita partì per la Sardegna.
Fuori e dentro la pasticceria e la sua nuova famiglia
Arrivato in città, la prima cosa che Ewa fece fu cercare una chiesa. Passando davanti alla pasticceria sul sagrato del Duomo, i profumi lo attrassero e lo fecero fermarsi alla soglia, senza però osare entrare. Da quel giorno, ogni mattina era lì, e i pasticcieri, vedendolo sempre presente, iniziarono a offrirgli la colazione. Nel tempo, diventò una figura familiare, offrendo piccole cortesie ai passanti, come tenere d’occhio le biciclette o aprire la porta ai clienti. Non chiedeva nulla, ma riceveva qualche moneta, un cappotto, un panino, e soprattutto tanti sorrisi. Un giorno, con tutto il coraggio che aveva, chiese di essere assunto, pur di non lasciar scadere il suo permesso temporaneo.
Lorenz “Era diffidente, oggi me ne dispiaccio”
Michele Tadiotto, della famiglia titolare della pasticceria, inizialmente era diffidente, ma poi decise di metterlo alla prova. E fu una scoperta meravigliosa. Oggi, Lorenz ha un lavoro stabile, una casa che ha ristrutturato da solo, due figli, e finalmente Rita al suo fianco. Il suo permesso di soggiorno è stato regolarizzato, i bambini frequentano la scuola, e lui serve con entusiasmo. “Mi sento fortunato. Voglio dire mille volte grazie alla brava gente che mi ha accolto. Oggi, se non lavoro, sto quasi male. Amo il mio lavoro! Tutti sappiamo cosa significa essere giusti. Neri, bianchi, africani, italiani. Sappiamo cosa significa la fiducia, comportarsi bene, essere onesti e gentili. Ci vuole un po’ di pazienza, ma i giusti si capiscono.“
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Storie vere
Pulire tombe e cambiare vita: storie di successo tra social media e cimiteri
Dalle tombe abbandonate al successo su TikTok, passando per una casa nuova: Shaun Tookey e “The Clean Girl” dimostrano che prendersi cura dei defunti può portare a risultati sorprendenti, sia economici che personali.

Molti si ricorderanno della Tiktoker americana conosciuta come “The Clean Girl” che ha raggiunto la popolarità condividendo video mentre puliva tombe e monumenti in cimiteri abbandonati. Questa è una storia simile. O quasi.
Shaun Tookey: dalle tombe a un tetto per la sua famiglia
Il 31enne di Harlow (Regno Unito), Shaun Tookey, in poco più di un anno ha saputo trasformare una passione in un lavoro redditizio. Da quando ha avviato la sua attività di pulizia tombe nel maggio 2023, ha visto la sua vita cambiare radicalmente. Grazie al passaparola e ai social media, è riuscito a ripulire oltre 300 tombe guadagnando tra i 175 e i 525 euro per ogni lavoro. Un successo che gli ha permesso di realizzare un sogno che sembrava irraggiungibile come comprare una casa per la sua famiglia. Bingo!
Un impatto che va oltre il guadagno
Sia Shaun Tookey che “The Clean Girl” dimostrano che prendersi cura delle tombe non è solo un modo per guadagnare, ma anche un gesto di grande valore sociale. I loro video e le loro storie toccano il cuore di chi ha perso i propri cari e non ha la possibilità di prendersi cura delle loro tombe. In molti casi, le famiglie li contattano per chiedere il loro aiuto, offrendo loro un compenso per il servizio svolto. Compensi che hanno permesso a Shaun Tookey di comprarsi una casa e finalmente avere un tetto. Entrambi sono esempi di come un lavoro umile e poco conosciuto possa trasformarsi in un successo, sia dal punto di vista economico che personale. La loro passione per la pulizia delle tombe li ha portati a guadagnare denaro, ma anche a fare del bene alla comunità, offrendo un servizio prezioso a chi ne ha bisogno. E, nel caso di Shaun Tookey, a realizzare un sogno importante come quello di garantire una casa per la sua famiglia.
Storie vere
Marco corre 100 maratone contro il bullismo: “Correre mi ha ridato la vita”
Un insegnante lo umiliò chiamandolo “Polpetta”. Oggi, dopo 100 maratone in 100 giorni, Marco ha trasformato la sua corsa in un messaggio di forza per tutti i ragazzi vittime di bullismo.

Si chiama Marco Matteazzi, ha 24 anni, e ha corso per cento giorni consecutivi senza mai fermarsi, attraversando cento città italiane. Una sfida oltre lo sport. La sua corsa è stata un atto di rivalsa, una missione contro il bullismo, quel male che lui ha conosciuto fin troppo bene da ragazzino. Tutto iniziò a scuola, quando un professore lo prese di mira con un soprannome crudele. “Polpetta”, così lo chiamò davanti ai compagni di classe, e da quel giorno Marco divenne lo zimbello della scuola, vittima di battute e sguardi di scherno. Quel nomignolo pesante lo accompagnò per anni, lasciando dentro di lui un segno profondo. Ma anziché lasciarsi abbattere, decise di cambiare la sua storia. Perse 30 chili, iniziò a correre e trovò nella fatica della corsa la sua liberazione. Oggi, il suo progetto di 100 maratone in 100 giorni ha portato il suo messaggio in tutta Italia, trasformandolo in un simbolo di speranza per chi si sente escluso.
Una sfida che mette alla prova corpo e mente
La maratona numero uno è partita il 14 febbraio San Valentino, il giorno dell’amore, un simbolo di affetto e di cura, ma la strada è stata durissima. Nei primi cinquanta giorni il dolore fisico era costante, l’infiammazione alla gamba lo tormentava, e a volte la sua testa gli diceva di fermarsi. Il giorno 33, a Teramo, il dubbio lo ha sfiorato per davvero. “Forse è troppo, forse devo smettere”, ha pensato ma Marco non ha mollato. Passati settanta giorni, il suo corpo ha iniziato ad adattarsi. La fatica è diventata forza, il dolore si è trasformato in resistenza, e gli ultimi giorni sono stati una sorpresa continua, un crescendo di determinazione. E grande forza.
Uno, dieci, cento Marco. Una corsa collettiva per combattere il bullismo
Marco non ha corso da solo. Tappa dopo tappa, bambini, adulti, anziani lo hanno affiancato, regalando chilometri e sostegno. Tre ragazzini di dodici anni lo hanno accompagnato per una mezza maratona, mentre ultrasettantenni si sono messi in gioco per qualche chilometro. La sua impresa ha generato una raccolta fondi per la Fondazione Libra Ets, impegnata nel contrasto al bullismo e alla violenza di genere. Intorno a lui è nata una community, Insanus, che ha condiviso i chilometri su Strava, fino a raggiungere un obiettivo simbolico: 100.000 km percorsi collettivamente.
E ora? Il sogno non finisce qui
Oggi Marco guarda avanti: vuole continuare a ispirare, creare un running club, aiutare le persone a migliorarsi. Nel cuore ha un nuovo sogno: entrare nella Nazionale Italiana di Ultramaratona. Dopo cento maratone, si concede qualche giorno di riposo, ma non smette di allenarsi. “Sono già tornato in palestra”, scherza. La sua battaglia non è finita, perché sa che tantissimi ragazzi oggi vivono quello che lui ha vissuto. Il messaggio che lascia è semplice ma potente: “Subire una volta non è un buon motivo per continuare a subire. Bisogna passare all’azione e inseguire i propri sogni. Io l’ho fatto. E chiunque può farlo”.
Storie vere
Scopre per caso che sua nonna era un’aguzzina nazista nei campi di concentramento
Dal silenzio familiare alla testimonianza pubblica: la scoperta di un passato oscuro e il difficile percorso verso l’elaborazione del dolore.

Scoprire di essere il nipote di una custode nei campi di concentramento nazisti non è bello. Per Renzo Samaritani, figlio della scrittrice Helga Schneider è stato uno shock devastante. Una verità che la madre aveva a lungo taciuto, fino alla pubblicazione del libro Il rogo di Berlino (Adelphi, 1995). “Un caro amico mi telefonò dicendo di andare in libreria e leggere quel libro: sei nipote di una kapò di un campo di concentramento, mi disse. Quella rivelazione segnò la perdita di amicizie e rapporti importanti“, racconta oggi Samaritani. Oggi 58enne e residente a Trani insieme al suo compagno, Renzo ha trovato il coraggio di condividere pubblicamente questa dolorosa storia. “Quando mia madre pubblicò il libro, ero già grande. La scoperta mi travolse: il peso di una colpa che non è mia, ma appartiene al passato della mia famiglia, è stato difficile da accettare”.
Un segreto taciuto per proteggere il nipote
Helga Schneider, già segnata dal fallimento di un tentativo di riconciliazione con la madre, aveva scelto di non rivelare al figlio quella parte oscura del passato. “Da bambino, mia madre mi portò una sola volta a Vienna per incontrare mia nonna. Mentre io disegnavo seduto attorno a un tavolo, loro parlarono in un’altra stanza. Solo anni dopo ho saputo che mia nonna, durante quell’incontro, mostrò la sua divisa nazista a mia madre, chiedendole persino di indossarla. Quel gesto, privo di qualsiasi pentimento, ha devastato tanto lei quanto me“, ricorda Renzo. La scelta della madre di tenerlo all’oscuro coinvolse persino la lingua: “Non mi insegnò il tedesco per proteggermi. Ora capisco il suo intento, ma questo ha reso ancora più traumatico il momento in cui ho letto quelle pagine“.
L’arte come terapia
Dopo anni di difficoltà, Renzo ha trovato nella condivisione pubblica una forma di elaborazione. “Sto riuscendo a fare pace con il passato, guardandolo in faccia e raccontandolo“. Il 28 gennaio scorso, è stato protagonista al teatro Mimesis di Trani insieme alla giornalista Stefania De Toma, per un evento dedicato alla memoria della Shoah e alle sue vittime invisibili. “Attraverso l’arte racconterò la mia storia e le nostre sofferenze. Credo che parlare sia il primo passo per guarire“.
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