Connect with us

Cronaca

Trump e Zelensky, incontro a sorpresa nella Basilica di San Pietro: “Colloquio molto produttivo”

Donald Trump e Volodymyr Zelensky hanno avuto un incontro privato nella Basilica di San Pietro, prima dei funerali di Papa Francesco. Secondo la Casa Bianca, il colloquio è stato “molto produttivo”, ma l’entourage ucraino frena su nuovi incontri. Sul tavolo, una proposta di tregua che Kiev sottopone a Washington, senza concessioni territoriali a Mosca.

Avatar photo

Pubblicato

il

    Prima dell’inizio delle esequie di Papa Francesco, nella solennità della Basilica di San Pietro, è andato in scena un incontro che potrebbe avere riflessi geopolitici enormi: Donald Trump e Volodymyr Zelensky si sono visti di persona, lontano dai riflettori, a margine dell’omaggio al feretro del Pontefice.

    I due leader, riferisce Sky News citando fonti vaticane, si sono incontrati all’interno della Basilica e avrebbero anche ipotizzato di proseguire i colloqui nei prossimi giorni. Tuttavia, il portavoce di Zelensky, Serguii Nykyforov, ha immediatamente raffreddato l’ipotesi: “L’incontro c’è stato ed è già terminato”, ha dichiarato senza aggiungere dettagli.

    La Casa Bianca, per parte sua, ha definito il colloquio “molto produttivo”. Lo ha comunicato il direttore della Comunicazione, Steven Cheung, confermando che Trump e Zelensky “hanno avuto una discussione franca e costruttiva”. Secondo il New York Times, il presidente ucraino avrebbe presentato a Trump una controproposta per il cessate il fuoco: nessuna riduzione delle forze armate ucraine, un contingente europeo di sicurezza sostenuto dagli Stati Uniti da dispiegare in Ucraina, e l’utilizzo dei fondi russi congelati come riparazioni di guerra.

    Una linea molto diversa rispetto al piano avanzato da emissari di Trump, che prevedeva concessioni territoriali significative a Mosca, come il riconoscimento della Crimea e di parte delle regioni occupate. Una prospettiva inaccettabile per Kiev.

    Zelensky è arrivato a San Pietro con un abito scuro, rinunciando alla consueta mimetica verde che lo accompagna dall’inizio della guerra, in un gesto di rispetto che non è passato inosservato. Accolto da un lungo applauso della folla, ha preso posto nel quadrilatero riservato ai capi di Stato e di governo. Trump e Melania, atterrati a Roma ieri notte, soggiornano a Villa Taverna, residenza dell’ambasciatore Usa, a pochi passi dall’Hotel Parco dei Principi dove alloggia la delegazione ucraina.

    I posti assegnati sul sagrato di San Pietro hanno diviso Trump e Zelensky, separati non solo dal rigido protocollo vaticano che segue l’ordine alfabetico francese, ma anche da una visione molto diversa su cosa significhi oggi “pace giusta”. Un concetto evocato nei discorsi, ma lontano dalla pratica.

    Stretta di mano per protocollo con Macron, Ursula von der Leyen e il presidente finlandese Alexander Stubb. Nulla di più. Di fianco a loro, nel recinto delle autorità, la ministra della Cultura russa Olga Lyubimova, capo della delegazione ufficiale di Mosca. E, poco distante, il metropolita Antonij di Volokolamsk, a rappresentare la Chiesa ortodossa russa.

    In pochi metri quadrati, sotto la cupola più simbolica della cristianità, i protagonisti di una tregua che continua a non farsi. Gli altoparlanti diffondono i canti liturgici, i cinque maxi schermi accompagnano le preghiere della folla assiepata lungo il colonnato. La morte del Papa della pace ha riunito i potenti, ma non ha ancora spezzato le loro divisioni.

      SEGUICI SU INSTAGRAM
      INSTAGRAM.COM/LACITYMAG

      Storie vere

      Basta mollo tutto e vado a vivere in un container! La scelta per una vita autosufficiente

      Questa giovane donna dimostra che è possibile vivere in modo diverso e trovare felicità e serenità in uno stile di vita minimalista. Ma per forza in un container…?

      Avatar photo

      Pubblicato

      il

        Robyn Swan, una giovane donna di 33 anni, ha deciso di cambiare radicalmente la sua vita vendendo tutto ciò che possedeva per vivere in un container, immersa nella natura della Scozia. La sua scelta, lontana dai canoni tradizionali, è stata motivata dal desiderio di diventare autosufficiente, ridurre il proprio impatto sull’ambiente e ritrovare serenità e libertà. Robyn ha venduto tutti i suoi beni, inclusi l’auto, i mobili e la televisione, per finanziare l’acquisto di un terreno vicino a Stirling, dal valore di 220mila euro. Ha poi collocato sul terreno un container, acquistato per 5mila euro, che è diventato la sua nuova abitazione. Per otto mesi, Robyn ha vissuto senza elettricità, ma successivamente ha installato pannelli solari, rendendo la sua casa energeticamente autosufficiente.

        Uno stile di vita autosufficiente

        La vita di Robyn si basa su un modello di autosufficienza e semplicità. Coltiva il proprio cibo, alleva polli, conigli e maiali, e raccoglie l’acqua piovana per il fabbisogno quotidiano. Per sostenersi, lavora come dog walker a tempo pieno. Condivide questa esperienza con il suo socio, Luke, un elettricista di 29 anni che ha contribuito a rendere possibile il progetto. Grazie al suo impegno, Robyn riesce a vivere con circa 300 euro al mese. Le sue spese principali sono limitate alla tassa comunale, al cibo e al telefono. Non avendo affitto o bollette energetiche significative, riesce a mantenere un tenore di vita semplice ma appagante.

        Ma perché questa scelta?

        La decisione di Robyn non è stata dettata solo da motivi economici, ma anche dal desiderio di vivere in modo più sano e sostenibile. “Volevo sapere esattamente cosa c’è nel cibo che consumo, produrlo da sola mi dà questa certezza“, ha spiegato. Inoltre, vivere lontano dalla civiltà le permette di essere preparata ad affrontare eventuali crisi globali, come una carenza alimentare. Pur riconoscendo che questo stile di vita può essere fisicamente impegnativo, Robyn lo descrive come profondamente appagante. “Mi dà tranquillità,” ha detto, spiegando che la connessione con la natura e la consapevolezza di essere autosufficiente contribuiscono al suo benessere generale.

        Vuoi andare anche tu a vivere in un container? Ecco qualche informazione pratica

        Vivere in un container richiede adattamenti pratici e creativi. Robyn ha dimostrato che, con le giuste soluzioni, questa scelta abitativa può essere comoda e sostenibile. Per prima cosa biosgna munirsi di pannelli solari per la produzione di energia elettrica. Poi biosgna pensare alla raccolta dell’acqua piovana. Acqua che serve per l’irrigazione delle colture e le necessità quotidiane. Quindi dal punto di vista della gestione degli spazi è indipensabile organizzare il container in modo funzionale per includere zona notte, cucina e spazio di lavoro. Infine cointainer o non container biosgna pensare a come procurarsi la pappa quotidiana. Insmma bisogna darsi da fare per raggiungere una autosufficienza alimentare. Robyn coltiva verdure e alleva animali, riducendo così la dipendenza da fonti esterne. E voi lo sapreste fare?

          Continua a leggere

          Cronaca

          C’è l’ombra della ‘ndrangheta sull’attentato a Sigfrido Ranucci. E ora dalla redazione di Report confessano: “Abbiamo paura”

          L’esplosione davanti alla villetta di Campo Ascolano ha distrutto due auto: la vettura di Ranucci e quella della figlia. Fra le piste seguite dalla DDA di Roma spicca il coinvolgimento della criminalità organizzata, ma molte ombre restano aperte.

          Avatar photo

          Pubblicato

          il

          Autore

          Sigfrido Ranucci

            Fra le piste sulle quali lavorano i carabinieri del Nucleo investigativo di Frascati e la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, la più accreditata in queste ore è quella che porta alla ’ndrangheta: il giornalista è sotto scorta dal 2021 dopo l’emergere di intercettazioni su un piano di un narcotrafficante, legato a clan calabresi, che avrebbe commissionato la sua eliminazione. Ma la scenografia dell’attentato — l’ordigno artigianale ad alto potenziale, la sua collocazione davanti al cancello, l’assenza di telecamere nelle immediate vicinanze — non esclude altri mandanti o complicità locali.

            Dai primi accertamenti emerge che l’ordigno era confezionato con polvere pirica pressata, oltre un chilo di esplosivo, e piazzato probabilmente tra due vasi sul marciapiede; gli artificieri propendono per un innesco mediante miccia, meno sofisticato di un timer ma non per questo meno letale. Se confermata, la potenza della bomba indica la volontà di inviare un messaggio netto: non più soltanto minacce verbali o buste con proiettili, ma un gesto in grado di terrorizzare una comunità intera.

            Ranucci stesso ha ricordato, e lo ha fatto con voce ferma, la lunga scia di intimidazioni subite nel tempo: dagli atti di disturbo e dai pedinamenti fino al rinvenimento di proiettili calibro 38 davanti alla sua abitazione in passato. «Qui l’anno scorso sono stati trovati proiettili», ha detto riferendosi alla vicenda. E ha sottolineato un elemento cruciale: la scorta lo protegge in movimento, ma non presidia la casa; il confine tra tutela e vulnerabilità resta pertanto evidente.

            La pista della ’ndrangheta torna alla luce anche per la natura degli ambienti citati nelle indagini: narcotraffico internazionale, rapporti con gruppi di destra eversiva e legami con reti criminali internazionali che in passato, secondo ricostruzioni giudiziarie e di cronaca, hanno utilizzato modalità violente per intimidire o eliminare avversari. Un narcotrafficante intercettato nel carcere di Padova era finito sotto la lente degli investigatori già per un presunto ordine di eliminazione di Ranucci, circostanza che aveva dato origine al programma di protezione rafforzato. Quel mandante è detenuto, ma i sicari — indicati come stranieri — non sarebbero stati identificati.

            Un’esplosione nel silenzio della sera, un lampo di fuoco davanti al cancello di casa e la paura che qualcosa di molto più grande si stia muovendo nell’ombra. È la notte che ha sconvolto la vita di Sigfrido Ranucci, giornalista e conduttore di Report, la cui auto è stata distrutta da una bomba artigianale piazzata davanti all’abitazione di famiglia a Campo Ascolano, vicino Pomezia.

            A raccontare l’angoscia di quelle ore è Giorgio Mottola, inviato della stessa trasmissione, che ha parlato a Un Giorno da Pecora su Rai Radio1. “L’ho saputo direttamente da lui – ha spiegato –. Sigfrido mi ha chiamato per rassicurarmi, ma era ancora sotto shock. Sua figlia aveva parcheggiato la macchina mezz’ora prima dell’esplosione, e lui era rientrato da dieci minuti. La cosa più inquietante è che non tornava a casa da una decina di giorni, era in giro per lavoro. È molto probabile che qualcuno lo abbia monitorato e lo stesse aspettando”.

            Un dettaglio che getta una luce sinistra sulla vicenda. “L’esplosione è stata provocata da una miccia accesa manualmente – ha aggiunto Mottola –. Non da un timer o un comando a distanza. Qualcuno era lì, sul posto, e dopo l’esplosione è stato visto fuggire un soggetto incappucciato”. Un’azione che lascia pochi dubbi sul fatto che si sia trattato di un atto intenzionale, studiato e preparato.

            Ranucci, che da anni vive sotto tutela a causa delle minacce ricevute per le sue inchieste, ha raccontato di aver sentito “un boato tremendo” e di aver temuto per la figlia, passata proprio in quel punto pochi minuti prima. “È profondamente spaventato – conferma Mottola – non solo per sé, ma per la sua famiglia. È preoccupato, come lo siamo anche noi, perché non capiamo da dove arrivi questa minaccia, né se si tratti di un avvertimento di qualcosa che potrebbe accadere ancora”.

            Le indagini, affidate alla Distrettuale Antimafia di Roma e ai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Frascati, proseguono in più direzioni. La bomba, un ordigno artigianale a base di polvere pirica compressa, era stata posizionata accanto alla Opel Adam di Ranucci e ha distrutto anche l’altra vettura della famiglia, una Ford Ka Plus utilizzata dalla figlia. La deflagrazione è stata talmente potente da danneggiare la facciata della villetta e far tremare le case vicine.

            I residenti di Campo Ascolano parlano di “una notte da incubo”. Alcuni testimoni avrebbero riferito di aver visto un uomo incappucciato allontanarsi di corsa verso un boschetto, pochi istanti prima dello scoppio. Altri, nei giorni precedenti, avevano segnalato piccole esplosioni nella stessa zona: “forse delle prove – dicono – per misurare i tempi di reazione delle forze dell’ordine”.

            Il giornalista era già sotto scorta dal 2021, dopo che un narcotrafficante legato alla ’ndrangheta era stato intercettato mentre pianificava un attentato contro di lui. Negli anni, Ranucci ha più volte denunciato minacce, pedinamenti e proiettili lasciati davanti casa, ma l’attacco di questa notte segna un salto di livello.

            Nel mondo dell’informazione cresce l’allarme. La redazione di Report ha parlato di “atto gravissimo” e ha espresso “solidarietà totale” al proprio direttore. Il presidente della Rai, Marinella Soldi, e l’amministratore delegato Giampaolo Rossi hanno condannato l’attacco definendolo “un attentato alla libertà di stampa”.

            Anche la politica ha reagito con durezza. La premier Giorgia Meloni ha scritto che “lo Stato difenderà sempre chi cerca la verità”. Il vicepremier Matteo Salvini ha parlato di “atto inaccettabile”, mentre l’ex deputato Alessandro Di Battista ha denunciato “un clima tossico che da troppo tempo isola i giornalisti d’inchiesta”.

            Mottola, che lavora fianco a fianco con Ranucci da anni, non nasconde la paura. “Siamo abituati a convivere con le minacce, ma questa volta è diverso. È successo davanti casa, con la famiglia dentro. È un segnale preciso, e non possiamo ignorarlo”.

            Oggi la strada dove tutto è avvenuto è ancora chiusa, presidiata dalle forze dell’ordine. Davanti al cancello annerito, restano i segni del fuoco e il rumore lontano del mare. Un quartiere che fino a ieri era tranquillo e oggi vive nella paura.

            “Sigfrido è un uomo che non si lascia intimidire – dice Mottola – ma questa volta è stato colpito nel suo spazio più intimo, quello della famiglia. Ed è questo che fa più male. Ci sentiamo tutti feriti, come redazione, come colleghi, come cittadini. Perché quando salta in aria la macchina di un giornalista, non esplode solo un’auto: si colpisce la libertà di tutti”.

              Continua a leggere

              Cronaca

              “Le donne hanno paura di denunciare”: quando il silenzio alimenta i femminicidi

              Tra stereotipi sociali, sfiducia nelle istituzioni e rischio di ritorsioni, molte donne evitano di rivolgersi alla polizia. Conoscere i propri diritti, avere reti di sostegno e strumenti efficaci di tutela può fare la differenza prima che sia troppo tardi.

              Avatar photo

              Pubblicato

              il

              Autore

              femminicidi

                La cronaca continua a raccontarci storie tragiche: femminicidi che scuotono l’Italia, donne uccise dall’uomo che dicevano di amare, o che erano convinte potesse cambiare. Eppure i numeri rivelano un dato allarmante: la maggior parte delle donne che finiscono uccise non aveva mai sporto denuncia né parlato delle violenze subite. Perché succede? E soprattutto, quando è possibile evitare il peggio, quali strumenti ha una donna per denunciare.

                Perché molte donne non denunciano

                I problemi sono molteplici e radicati — e spesso combinati fra loro:

                1. Paura delle conseguenze
                  La ritorsione è un timore concreto: violenza fisica, psicologica, persecuzioni, perdita del lavoro, isolamento. Denunciare significa spesso mettere tutto allo scoperto, sperimentare vergogna, giudizio da parte di familiari, amici, vicini.
                2. Sfiducia nel sistema e lentezza della giustizia
                  Alcune donne credono che non verranno credute, che le forze dell’ordine non prenderanno sul serio la loro storia. Anche le istituzioni stesse ammettono che le leggi esistono, ma non sempre vengono applicate con efficacia. Secondo la Commissione parlamentare d’inchiesta, le misure di protezione sono usate troppo poco.
                3. Cultura patriarcale e stereotipi
                  In molti casi la violenza è minimizzata: commenti su cosa indossava la donna, su come si sia comportata, sul perché non abbia reagito prima. L’educazione, l’ambiente sociale e i modelli di genere giocano un ruolo importante nel far sentire la donna colpevole invece che vittima.
                4. Condizioni personali e dipendenza
                  Dipendenza economica, presenza di figli, paura di dover affrontare da sola la vita dopo la denuncia, mancanza di risorse per spostarsi o cambiare casa: tutte queste sono ragioni che spingono al silenzio.
                5. Rubinetto delle denunce chiuso
                  I dati confermano che solo il 15% delle donne che verranno uccise in un rapporto intimo aveva sporto denuncia o querela per abusi precedenti. In vari casi, la donna non ha parlato con nessuno delle violenze subite.

                Quando è possibile evitare il peggio

                Non sempre il tragico è inevitabile: ci sono segnali che possono cambiare il corso degli eventi, se raccolti e gestiti in tempo.

                • Riconoscere i reati spia: atti persecutori/stalking, maltrattamenti in famiglia, violenze sessuali — anche se piccoli o sporadici, sono campanelli d’allarme.
                • Intervenire tramite reti di sostegno: amici, parenti, centri antiviolenza, psicologi. Parlare può alleggerire il carico emotivo e far emergere l’escalation del rischio.
                • Accedere alle misure di protezione previste dalla legge: ammonimento, divieto di avvicinamento, allontanamento del partner violento, braccialetto elettronico. Il problema è che in molti casi queste misure non vengono applicate.

                Come denunciare: strumenti e percorso

                Ecco cosa può fare una donna che decide di denunciare una violenza:

                1. Forze dell’ordine
                  Presentarsi in una caserma dei Carabinieri o in una stazione di Polizia. È possibile sporgere denuncia o querela. Anche il Pronto Soccorso può attivarsi (medici, sanitari) per segnalare lesioni o violenza fisica.
                2. Utilizzare i numeri utili
                  • Il numero nazionale antiviolenza 1522, attivo 24 ore al giorno, per consigli, ascolto e supporto.
                  • Centri antiviolenza e organizzazioni della rete D.i.Re, che offrono aiuto pratico, legale, psicologico anche in anonimato.
                3. Procedura legale
                  La denuncia deve contenere la descrizione dei fatti subiti: date, modalità, aggressore (se noto), testimoni, eventuali documenti o prove: messaggi, foto, referti medici. Da lì il pubblico ministero può aprire un’inchiesta, e ci sono strumenti cautelativi (ad esempio il divieto di avvicinamento).
                4. Aspetti pratici e supporto
                  • Richiedere assistenza legale esperta in materia di violenza di genere.
                  • Mettere al sicuro documenti importanti, denaro, telefonino.
                  • Preparare un piano per la sicurezza: a chi rivolgersi, dove andare, eventuale rifugio.
                  • Se possibile anche supporto psicologico, per affrontare le conseguenze emotive della denuncia.

                Cambiare rotta: politiche, cultura, educazione

                Per ridurre davvero i femminicidi non basta “colpa delle donne che non denunciano”: serve un cambiamento strutturale.

                • Formazione continua delle forze dell’ordine, dei giudici, degli operatori sanitari sulle caratteristiche della violenza di genere e sui pregiudizi che impediscono di riconoscerla.
                • Maggiore accesso alle case rifugio, tutela economica per chi decide di uscire da una relazione violenta.
                • Potenziare le leggi esistenti e assicurarne una applicazione efficace, con strumenti come il braccialetto elettronico, l’allontanamento immediato, le misure cautelari.
                • Educazione di genere fin dalle scuole: insegnare rispetto, riconoscere i segnali, costruire relazioni basate sull’uguaglianza.

                I femminicidi non sono inevitabili. Ma finché le denunce restano poche, le leggi restano spesso sulla carta e la cultura patriarcale persiste, il rischio permane.

                Ogni donna che denuncia, ogni persona che ascolta e crede, ogni istituzione che protegge è un passo verso una società in cui la protezione non sia privilegio ma diritto.

                Conoscere i propri diritti, avere il supporto giusto e usare gli strumenti previsti dalla legge non è solo una speranza: è la via per evitare che storie come quelle che commuovono i titoli di cronaca diventino la norma.

                  Continua a leggere
                  Advertisement

                  Ultime notizie

                  Lacitymag.it - Tutti i colori della cronaca | DIEMMECOM® Società Editoriale Srl P. IVA 01737800795 R.O.C. 4049 – Reg. Trib MI n.61 del 17.04.2024 | Direttore responsabile: Luca Arnaù