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Lifestyle

Benvenuta generazione Beta: i nati dal 2025 che vivranno nel futuro della realtà virtuale e dell’IA

Immersi in un ambiente ultra-connesso e dominato dall’intelligenza artificiale, i membri della generazione Beta affronteranno opportunità e sfide senza precedenti. Un’era in cui tecnologia avanzata e interazioni virtuali plasmeranno le vite di bambini e adulti, ponendo interrogativi sull’equilibrio tra innovazione e umanità.

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    Con il 2025 nasce la generazione Beta, erede naturale dei Millennials, della generazione Z e degli Alpha. Questa nuova fascia demografica si prepara a crescere in un mondo che porterà all’estremo il legame tra uomo e tecnologia, con realtà virtuale e intelligenza artificiale come protagonisti indiscussi. Il termine “generazione Beta” è stato coniato dal demografo Marc McCrindle e identifica i bambini che nasceranno a partire dal 2025, delineando i tratti di un’epoca caratterizzata da innovazioni mai viste prima.

    Un ambiente ultra-connesso e immersivo
    I membri della generazione Beta troveranno il loro habitat in una società in cui la connessione costante sarà la norma. Con genitori e fratelli iperconnessi, i neonati del 2025 cresceranno circondati da dispositivi intelligenti e ambienti dominati da interazioni virtuali. La tecnologia sostituirà progressivamente i tradizionali rapporti umani: la realtà virtuale prenderà sempre più piede, trasformando la socializzazione e perfino il concetto di famiglia.

    L’intelligenza artificiale come alleata quotidiana
    Se la generazione Alpha ha iniziato a familiarizzare con l’intelligenza artificiale, per i Beta sarà una presenza costante e indispensabile. L’AI supererà l’intelligenza umana in diversi campi, supportando attività complesse come diagnosi mediche, sviluppo di progetti o gestione della vita quotidiana. Assistenti virtuali avanzati e app evolute come ChatGPT accompagneranno i membri della generazione Beta, dall’infanzia all’età adulta, facilitando il loro accesso a conoscenza e risorse.

    Educazione e lavoro: una rivoluzione tecnologica
    Nel campo educativo, la generazione Beta beneficerà di strumenti didattici iper-tecnologici che automatizzeranno processi oggi manuali, permettendo agli studenti di concentrarsi sull’analisi critica e sulla creatività. I tradizionali metodi di insegnamento saranno rivoluzionati, con aule virtuali e insegnanti AI in grado di adattarsi alle esigenze di ogni singolo studente.

    Anche il mondo del lavoro sarà completamente trasformato: molte delle professioni che conosciamo oggi verranno automatizzate, e i Beta saranno chiamati a gestire settori ancora inesistenti, legati alla realtà aumentata, alla robotica e all’esplorazione spaziale.

    Sfide e rischi di un mondo tecnologico
    Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. L’immersione totale nella tecnologia comporterà rischi concreti per la generazione Beta. La dipendenza da dispositivi intelligenti potrebbe ridurre la capacità di risolvere problemi in modo autonomo e critico. Inoltre, il crescente isolamento sociale rischia di rendere le interazioni umane sempre più rare, sostituite da dialoghi mediati da schermi e avatar digitali.

    Uno sguardo al futuro: generazioni Gamma e Delta
    La generazione Beta segnerà il passo per i successivi Gamma (2040-2055) e Delta (2056-2070). Queste future generazioni nasceranno in un contesto ancora più avanzato, con tecnologie come taxi volanti, realtà virtuale immersiva e interazioni completamente digitali. Sarà un mondo in cui l’esperienza umana si alternerà tra dimensioni fisiche e virtuali, aprendo la strada a sfide etiche e sociali sempre più complesse.

    Un equilibrio da trovare
    La generazione Beta sarà simbolo di un’epoca straordinariamente innovativa, ma il suo successo dipenderà dalla capacità di bilanciare il progresso tecnologico con il mantenimento delle competenze umane essenziali. L’immersione nella tecnologia non dovrà mai oscurare l’importanza di relazioni autentiche e della creatività individuale. Solo così potremo garantire un futuro armonioso ed equilibrato a questa generazione e a quelle che seguiranno.

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      Animali

      Perché il gatto dorme ai piedi del letto: il linguaggio segreto di un gesto affettuoso

      Tra calore, olfatto e bisogno di vicinanza controllata, questo gesto rivela molto del rapporto tra felino e umano. Gli esperti spiegano perché i gatti scelgono proprio i piedi del letto come loro “posto del cuore”.

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      Perché il gatto dorme ai piedi del letto

        Il linguaggio silenzioso dei gatti domestici

        Chi vive con un gatto lo sa: la notte, al momento di dormire, spesso si infila ai piedi del letto, si acciambella e resta lì per ore, come se fosse il suo posto naturale. Ma dietro questa abitudine apparentemente tenera si nasconde un comportamento istintivo e ricco di significato.

        Secondo gli etologi felini, dormire ai piedi del letto è una scelta precisa che risponde a bisogni pratici, sociali ed emotivi. I gatti, pur essendo animali indipendenti, stabiliscono un forte legame con i loro umani e comunicano attraverso piccoli gesti quotidiani. Questo, in particolare, è uno dei più emblematici.

        Il potere dell’olfatto: sicurezza e riconoscimento

        Il senso dell’olfatto, tra i più sviluppati nel mondo animale, è centrale nella vita del gatto. Attraverso gli odori, il felino riconosce i membri della propria “famiglia” e delimita il suo territorio.

        I piedi, ricchi di ghiandole sudoripare e quindi di odori unici, diventano per il gatto un punto di riferimento. Dormirvi accanto significa riconoscere e assimilare l’odore dell’umano, trovando in esso un segnale di sicurezza e familiarità. È un modo silenzioso per dire: «Questo è il mio umano, questo è il mio posto sicuro».

        La marcatura olfattiva: il territorio del cuore

        Ma non si tratta solo di ricevere: il gatto rilascia a sua volta il proprio odore tramite le ghiandole poste sul corpo, in particolare su muso e zampe. Così, dormendo ai piedi del letto, “firma” il territorio con la sua impronta olfattiva.

        È un gesto di possesso affettuoso, ma anche di convivenza: l’animale comunica che quel letto — e la persona che vi dorme — fanno parte del suo spazio vitale. Gli esperti lo definiscono un comportamento di co-territorialità, tipico dei felini che si sentono a proprio agio e in sintonia con l’ambiente domestico.

        Affetto e indipendenza: un equilibrio perfetto

        A differenza dei cani, che spesso si accoccolano molto vicini, i gatti preferiscono una vicinanza “a distanza”. Dormire ai piedi consente loro di percepire la presenza dell’umano, sentire il suo calore e i suoi movimenti, ma anche di mantenere la possibilità di allontanarsi facilmente se qualcosa li disturba.

        È un equilibrio tra affetto e libertà, una sorta di compromesso emozionale: restare vicini senza rinunciare alla propria indipendenza. Per questo i gatti scelgono zone “strategiche”, come i piedi o il bordo del letto, che offrono comfort ma anche vie di fuga immediate.

        Il calore del corpo e la ricerca di comfort

        Dal punto di vista fisico, la scelta è anche una questione di comfort termico. I gatti amano il calore e il letto è uno dei luoghi più accoglienti della casa. I piedi dell’umano, spesso più caldi di altre parti del corpo, diventano una fonte di tepore costante.

        Inoltre, la posizione ai piedi è più stabile: meno movimenti improvvisi, meno rischio di essere urtati durante il sonno. Per il gatto, che è un animale sensibile e leggermente diffidente anche negli ambienti familiari, rappresenta la soluzione perfetta per dormire profondamente e sentirsi al sicuro.

        Un gesto di fiducia reciproca

        In definitiva, quando un gatto sceglie di dormire ai piedi del letto, sta esprimendo molto più di un semplice bisogno fisico. È un atto di fiducia e affetto, un segno che si sente parte della famiglia e che riconosce il proprio umano come figura di riferimento.

        Come spiega la veterinaria comportamentale Sarah Ellis, autrice di The Trainable Cat, “la posizione in cui un gatto decide di dormire è una delle forme più chiare di comunicazione non verbale con il suo compagno umano: indica fiducia, sicurezza e affiliazione sociale”.

        Sia che cerchi calore, sicurezza o semplicemente un po’ di compagnia, il gatto che dorme ai piedi del letto sta dicendo una cosa precisa: «Ti scelgo, ma alle mie condizioni».

        Un piccolo gesto quotidiano, che racchiude l’essenza del rapporto con i felini: indipendenti, misteriosi, ma capaci di un affetto profondo e autentico.

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          Cucina

          Dieta vichinga: il ritorno all’alimentazione “ancestrale” che conquista i social e i nutrizionisti

          Tra tendenza virale e approccio scientifico, la “Viking diet” si impone come modello equilibrato e naturale, in contrasto con l’eccesso di cibi ultraprocessati della società moderna. Gli esperti ne apprezzano la varietà e il rispetto per la stagionalità, ma invitano alla moderazione.

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          Dieta vichinga

            Il ritorno alle origini

            Negli ultimi anni, complice la crescente consapevolezza sui rischi legati ai cibi ultraprocessati, si è diffuso un rinnovato interesse per le diete ispirate al passato. Sempre più persone cercano un’alimentazione più semplice e genuina, basata su ingredienti locali e poco manipolati.

            C’è chi sceglie di acquistare solo da piccoli produttori e chi, invece, si spinge oltre, abbracciando veri e propri modelli “ancestrali”. In questo panorama si inserisce la dieta vichinga, una versione moderna e bilanciata delle antiche abitudini dei popoli scandinavi.

            Non si tratta solo di moda: dietro questo stile alimentare c’è un crescente interesse scientifico. Secondo gli esperti, il suo equilibrio tra proteine magre, cereali integrali, frutta e pesce la rende una delle diete più complete e sostenibili del momento.

            Cosa mangiavano (davvero) i vichinghi

            Storicamente, l’alimentazione vichinga era molto più varia di quanto si immagini. Gli studi dell’archeologo culinario Daniel Serra, che da oltre vent’anni ricostruisce la cucina nordica altomedievale, rivelano un regime ricco e bilanciato.

            La base era costituita da pesce – soprattutto aringhe, merluzzi, salmoni e halibut –, accompagnato da verdure a radice come rape, carote, porri e cipolle, legumi, frutta selvatica, noci e cereali come orzo, segale e avena. Non mancavano latticini, uova e carne, utilizzata però con parsimonia rispetto alla nostra dieta moderna.

            Gli scavi archeologici hanno confermato questa varietà, restituendo tracce di semi, cereali e utensili per la trasformazione del latte. Serra ha persino ricreato una ricetta tipica dei viaggiatori vichinghi: il Traveller’s Fish Porridge, un porridge salato a base di pesce essiccato, orzo e spezie, simbolo di un modo di nutrirsi pratico, ma sorprendentemente raffinato.

            Perché è tornata di moda

            Oggi la “Viking diet” vive una seconda giovinezza grazie ai social media, dove TikTok e Instagram pullulano di ricette “nordiche”: pane d’avena, zuppe di pesce, verdure fermentate e yogurt artigianale.

            Secondo la dietista americana Lauren Harris-Pincus, “questa dieta si basa su alimenti freschi, stagionali e locali, gli stessi principi che oggi definiscono un’alimentazione sana e sostenibile”. È, di fatto, una versione nordica della dieta mediterranea, con un’enfasi maggiore sul pesce e i cereali integrali.

            In Scandinavia è persino diventata un modello ufficiale di salute pubblica, sostenuto dal Nordic Nutrition Council, che ne promuove la diffusione nelle mense e nelle scuole come alternativa salutare alle diete occidentali ricche di zuccheri e grassi saturi.

            I benefici secondo la scienza

            Le evidenze scientifiche sono incoraggianti. Studi pubblicati su riviste come The American Journal of Clinical Nutrition hanno mostrato che una dieta in stile nordico – ricca di pesce azzurro, fibre, frutti di bosco e cereali integrali – può ridurre i livelli di colesterolo, migliorare la sensibilità all’insulina e abbassare il rischio di malattie cardiovascolari fino al 36%.

            Come spiega la nutrizionista Karine Patel, “il punto di forza della dieta vichinga è la varietà: i cereali integrali forniscono energia a lento rilascio, il pesce apporta omega-3 benefici per il cuore e il cervello, le verdure di stagione garantiscono fibre e antiossidanti”.

            Inoltre, si tratta di un modello ecologico, basato su prodotti locali e stagionali, che riduce l’impatto ambientale rispetto a un’alimentazione globalizzata e industriale.

            Il parere degli esperti

            Molti nutrizionisti invitano, però, a non idealizzare troppo il passato. “Non serve mangiare come un guerriero norreno per stare bene – precisa Patel –. L’importante è prendere spunto dai principi chiave: semplicità, freschezza e varietà”.

            Anche il fitness coach Tristan Bonner e la personal trainer Chloe Thomas raccontano di aver adottato la dieta vichinga per motivi di salute e performance: “Ci ha aiutato a ridurre gli alimenti processati e a riscoprire la soddisfazione di cucinare piatti genuini”, spiegano.

            Il loro menu tipo prevede piatti come sgombro affumicato con verdure arrosto, pane d’avena fatto in casa, stufato di cervo, bowl di yogurt e frutti di bosco. Un equilibrio perfetto tra nutrienti, gusto e semplicità.

            Una dieta antica, ma moderna

            In definitiva, la dieta vichinga non è un nostalgico ritorno al passato, ma una reinterpretazione attuale di un modello alimentare naturale e sostenibile.

            Come conclude la dietista Patel: “Il segreto non è escludere, ma scegliere con consapevolezza. La dieta vichinga ci ricorda che mangiare bene significa rispettare il corpo e l’ambiente, proprio come facevano i nostri antenati – ma con la consapevolezza scientifica di oggi”.

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              Lifestyle

              “Sembrano tutti più felici di me”: perché nasce la sensazione di disagio davanti alla felicità altrui

              Secondo gli psicologi, la sensazione che “gli altri stiano meglio di noi” è un meccanismo umano radicato nell’evoluzione e amplificato dai social media. Riconoscerlo e trasformarlo in consapevolezza può diventare un passo verso una felicità più autentica e personale.

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              Sembrano tutti più felici di me

                L’illusione della felicità degli altri

                Quante volte, scorrendo i social, ci è capitato di pensare: “Sono tutti più felici di me”? È una frase che riecheggia nella mente di molti, spesso accompagnata da una fitta di disagio o da un senso di inadeguatezza. La realtà, però, è molto più complessa di ciò che appare in superficie.

                Come spiega la psicoterapeuta e docente di psicologia sociale Maria Rita Parsi, “ci confrontiamo costantemente con gli altri perché il cervello umano è programmato per misurare il proprio valore in relazione al gruppo”. Si tratta di un meccanismo evolutivo: nelle prime comunità umane, osservare e imitare gli altri era essenziale per sopravvivere. Oggi, però, questo confronto si è spostato su un piano emotivo e identitario, diventando fonte di insoddisfazione.

                Quando il confronto diventa una trappola

                Il fenomeno ha un nome preciso: confronto sociale ascendente, cioè il paragone con chi sembra stare meglio di noi. È una dinamica naturale, ma può trasformarsi in una trappola psicologica. “Il problema nasce quando il confronto non serve più come stimolo a migliorarsi, ma come metro di giudizio della propria felicità”, spiega la psicologa clinica Valentina Bassi.

                A rendere il tutto più insidioso ci pensano i social media, dove le immagini mostrano versioni filtrate e selezionate delle vite altrui. Secondo una ricerca pubblicata sul Journal of Social and Clinical Psychology, l’uso intensivo di piattaforme come Instagram o TikTok è correlato a un aumento del senso di solitudine e insoddisfazione personale. “Il cervello non distingue tra realtà e rappresentazione – sottolinea Bassi –: quando vediamo persone sorridenti, lo interpretiamo come prova di una felicità reale, anche se non lo è”.

                Dietro la sensazione di disagio

                La percezione che “gli altri siano più felici” non dipende solo dai social, ma anche da fattori personali come l’autostima, il livello di soddisfazione nella propria vita e il momento emotivo che si sta attraversando.

                “Quando ci sentiamo fragili o stanchi, il confronto diventa più doloroso perché ci colpisce nei punti dove ci sentiamo carenti”, afferma Parsi. “Non è l’altro a renderci infelici, ma la distanza tra ciò che desideriamo essere e ciò che pensiamo di essere davvero”.

                Questa dinamica è accentuata da un bias cognitivo noto come “effetto erba del vicino”, per cui tendiamo a sovrastimare la felicità altrui e a sottovalutare la nostra. In realtà, tutti – anche chi appare sereno – affrontano difficoltà invisibili.

                Come liberarsi dal confronto costante

                Gli esperti concordano su un punto: non si tratta di eliminare il confronto, ma di imparare a riconoscerlo e trasformarlo. “Il primo passo è sviluppare una maggiore consapevolezza emotiva: chiedersi cosa scatena il disagio e perché”, suggerisce Bassi.

                Pratiche come la gratitudine quotidiana o la mindfulness aiutano a spostare l’attenzione da ciò che manca a ciò che c’è, riducendo l’effetto negativo del paragone. Anche limitare l’esposizione ai social media può avere un impatto concreto: studi recenti dimostrano che una pausa di due settimane può migliorare l’umore e la percezione di sé.

                Infine, è utile ricordare che la felicità non è una gara, ma un percorso personale. “Ognuno ha tempi, obiettivi e definizioni di felicità differenti – conclude Parsi –. Guardare gli altri con curiosità anziché con invidia è il primo passo per tornare a guardare anche sé stessi con maggiore gentilezza”.

                L’arte di sentirsi “abbastanza”

                Forse la vera sfida della contemporaneità è proprio questa: imparare a sentirsi “abbastanza” in un mondo che spinge costantemente al confronto. Non esiste una felicità universale, ma un equilibrio unico per ciascuno, costruito giorno per giorno tra piccoli gesti, relazioni autentiche e la capacità di accettare anche i momenti di vulnerabilità.

                Perché, in fondo, la felicità reale non è quella che si mostra. È quella che si vive, spesso in silenzio, lontano dagli schermi.

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