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Cocktail & Wine

Champagne: un tripudio di perlage per un brindisi natalizio memorabile

Per Natale e Capodanno, ecco la nostra selezione dei migliori champagne per i tuoi momenti speciali. Con le bottiglie su cui puntare e alcune regole fondamentali per iniziare e gustare lo champagne da veri professionisti. Si parte dai 60 euro a bottiglia ma si può arrivare a spendere cifre molto superiori…

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    La passione per lo champagne, che dalla regione omonima della Francia viene esportato in 190 nazioni, non conosce davvero confini. Anche gli italiani, produttori di bollicine tutt’altro che di secondo èpiano… li apprezzano particolarmente, tanto che ogni anno le spedizioni verso il nostro Paese registrano volumi da record, con un giro d’affari di svariate decine di milioni di euro. Dai dati diffusi dal Bureau du Champagne risulta anche che apprezziamo particolarmente anche le bottiglie di pregio: i cosiddetti “millesimati”, prodotti ottenuti da uve di una sola vendemmia, insieme alle cuvée speciali, che rappresentano il top di gamma di ogni produttore.

    Alcune regole imprescindibili

    Stappare una bottiglia di champagne, oltre che un piacere, incarna un rito che affonda le radici in una tradizione centenaria. Quando si festeggia un momento speciale, è fondamentale conoscere e rispettare alcune regole, anche di etichetta, che permettono di esaltare un vino prezioso. Senza correre il rischio di sembrare dei cafoni o, come minimo, degli incompetenti…

    Freddo, non gelato

    Una temperatura troppo bassa impedirebbe di apprezzare pienamente i profumi e di riconoscere al gusto le sfumature più eleganti. In base a questo principio, la temperatura ideale di servizio è tra gli 8 e i 10 gradi. Ottenibile asciando la bottiglia per circa tre ore nello scomparto più basso del frigorifero. La cosa migliore, se lo possedete, sarebbe di utilizzare l’apposito secchiello per venti minuti, in una miscela di ghiaccio, acqua e sale.

    Il botto è bandito

    Impugnate in maniera decisa il tappo ed estraetelo ruotandolo leggermente, senza lasciarlo: il suono che apre un momento speciale deve essere simile a un soffio, altro che lo scoppio di un petardo!

    No al bicchiere stracolmo

    Lo champagne si versa in due tempi, a distanza di pochi secondi. In questo modo il tipico collare di bollicine che si forma in superficie durerà più a lungo nel bicchiere, evitando che l’effervescenza faccia traboccare il bicchiere. Riempite il flûte per due terzi, in modo da lasciare agli aromi lo spazio per esprimersi al meglio.

    Il bicchiere giusto

    Le coppe sono fuori moda e lasciano sfuggire troppo rapidamente gli aromi. Quanto spessa e forte è la bottiglia, che deve contenere le turbolenze della seconda fermentazione tipica dello champagne, tanto lieve e delicata dovrà essere il flûte – preferibilmente a tulipano – che accoglie ed esalta gli aromi del vino. Lavate i bicchieri solo con acqua caldissima: le catenelle di bollicine che dal fondo del bicchiere risalgono verso l’alto sono favorite da un’accurata pulizia del bicchiere, che non deve contenere residui di detergenti. Dopo il lavaggio, lasciate sgocciolare i bicchieri fino alla completa asciugatura.

    I prodotti consigliati

    Il classico Moët Impérial si distingue per il bouquet ben bilanciato, frutto dell’assemblaggio in parti uguali di vini del millesimo e vini di riserva dei due anni precedenti. Il blend di circa 100-150 varietà diverse si traduce in un vino degno della regione di cui porta il nome. Il dosaggio è limitato a 7 grammi al litro, per mantenere un equilibrio fresco e leggero tra frutta e acidità che ben si sposa con le ricercate specialità gastronomiche di fine anno.

    Lo champagne Brut Special Cuvée possiede note calde e tostate, grazie a un assemblaggio di una piccola parte di vino d’annata e una maggioranza di vini di riserva. Di un bel giallo dorato con un pérlage molto fine, è connotato da una bellissima complessità aromatica, con sentori di frutta matura e spezie, note di pesca e sfumature di mela cotta e composta. Perfetto su secondi di carne bianca e di pesce.


    Louis Roederer, Collection 244, dal bouquet ampio e profondo, con sensazione di frutti gialli maturi e agrumi. Le note iodate, affumicate, dovute all’autolisi e all’affinamento in legno, aggiungono freschezza aromatica. Sensazione molto succosa e concentrata; la materia è delicata e carezzevole, avvolge il palato subito alleggerito da una delicata effervescenza. Le note affumicate prendono poi il sopravvento per sostenere un finale ricco di sapore. Rispetto ai due champagne precedentemente presentati (acquistabili sui 60 euro), qui il prezzo lievita a 220 euro.


    Dom Ruinart 2010, con soli 4 grammi di zucchero per litro, il Dom Ruinart è un Extra Brut. Il primo naso di questo champagne dona note di cipria, floreali (iris) e minerali (roccia umida), che rimandano al mondo dei profumi. In seguito, dominano le note tostate e speziate: noce moscata, nocciole e mandorle tostate, un accenno di caffè, profumi avvolgenti e rassicuranti. Ricco sul palato, il Dom Ruinart 2010 è vivace e concentrato. Si impone con la sua grande intensità aromatica. Si abbina particolarmente bene a piatti che necessitano di sviluppare sapori profondi e complessi. Disponibile sui 270 euro.


    Dom Pérignon Rosé Vintage 2009, un’annata nella quale le uve hanno espresso tutta la loro maturità e ricchezza. Intimo e carezzevole, temperato da una lenta trasformazione in cantina durata quasi 12 anni, l’assemblaggio eleva gli aromi, liberando tutte le sfumature aromatiche del Pinot Noir – lampone, fico, fragola, ciliegia – esaltate dalla delicatezza, dall’eleganza minerale e dalle note dello chardonnay. Al palato, dopo una prima sensazione di morbidezza e rotondità, il vino si apre, adagiandosi come un’intima carezza. 425 euro la bottiglia.


    Armand De Brignac, lanciato come brand da Jay-Z nel 2006, ma nel 2021 Moët Hennessy lo ha acquisito al 50%, avviando la sua collaborazione con il rapper. L’ultima creazione Armand de Brignac si aggiunge alla gamma di Cuvée. Sono disponibili solo circa 7.000 bottiglie al mondo, tutte incise con la data di sboccatura e il proprio numero. Ognuna delle bottiglie metallizzate è rifinita con l’applicazione a mano di un’etichetta in peltro francese e una lucidatura finale. Uno champagne estremamente raro e pregiato, che ha riposato 7 anni in cantina fino alla sboccatura, prezzo indicativo 1.600 euro.


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      Vini e distillati, dazi Usa: il vino paga da bere, i whisky brindano

      La Casa Bianca colpisce i rossi, bianchi e bollicine europei come fossero un crimine contro l’America. I whisky, invece, si sfilano con aria innocente. Il risultato: un brindisi amaro per il vino italiano e un hangover politico per Donald Trump.

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        Negli Stati Uniti sta per partire l’happy hour dei dazi. Dal 7 agosto, ogni bottiglia di vino europeo che sbarca oltreoceano dovrà portarsi dietro un 15% di tassa: un extra che gli americani pagheranno, e i produttori italiani incasseranno… in lacrime.

        Gli spiriti, invece, se la ridono dietro il bancone. Whisky e affini, almeno per ora, restano nella lista dei “buoni”. Il perché è semplice come un cocktail con due ingredienti: la bilancia commerciale. Il vino europeo invade gli Usa con 5 miliardi di euro l’anno, mentre l’America ci rimanda indietro appena 300 milioni di dollari di Chardonnay californiano. E a Trump non piace perdere: se la bilancia pende dalla parte sbagliata, per lui è una truffa cosmica.

        Con gli spiriti, invece, la musica cambia. Gli americani vendono all’Europa 2,2 miliardi di dollari di superalcolici, e ne comprano 2,9 miliardi. Insomma, quasi pari e patta. Risultato: il vino fa la parte del cattivo, il whisky quella dell’amico del cuore.

        E in Italia? Si piange. L’Unione italiana vini parla di 300 milioni di euro di danni, mentre dall’altra parte dell’oceano comincia a tremare anche l’indotto americano. Secondo Wine America, attorno all’import dei vini europei ruotano 144 miliardi di dollari di economia locale: magazzini, distributori, trasporti, negozi. E con i dazi, il rischio è un hangover collettivo da 25 miliardi di dollari. «Importatori americani stanno già licenziando personale», conferma il segretario generale dell’Uiv Paolo Castelletti.

        Nel frattempo, Antonio Tajani prova a infilare il vino nella “lista zero per zero”, che permetterebbe di azzerare i dazi. Ma per ora Trump non sembra avere voglia di brindare con un Prosecco: preferisce il bourbon.

        Morale della favola: nel grande bar globale, il vino europeo paga il conto, mentre i distillati escono in giacca e cravatta, fischiettando.

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          Martini: l’arma segreta degli americani, inventata da un ligure e venerata da Hemingway e 007

          Nato (forse) ad Arma di Taggia nel 1920, il Martini ha conquistato presidenti, spie, registi e rockstar. Un drink elegante, spietato, freddo come una lama. E così potente che Krusciov lo definì “l’arma più letale degli Stati Uniti”.

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            Ci sono cocktail, poi c’è il Martini. Il più elegante, il più letterario, il più cinematografico. Il più pericoloso. «L’arma più letale degli Stati Uniti», disse Nikita Krusciov. E forse non aveva tutti i torti.

            La leggenda comincia (forse) in Liguria, ad Arma di Taggia, da un certo Clemente Queirolo che, emigrato a New York nel 1913, al Knickerbocker Hotel diventa Martini per comodità e per marketing. È lì che prepara un mix micidiale: gin, vermouth secco, un’oliva e un gelo assassino. Lo beve Rockefeller, lo beve Caruso. Boom: è nato il mito.

            Poi arriva il Proibizionismo, che sembra la fine. Ma niente da fare: il Martini è immortale. Torna con Roosevelt che, dicono, ne offre uno a Stalin (pare lo facesse malissimo, ma l’intenzione conta). A Hollywood diventa il protagonista silenzioso di una generazione di divi: da Myrna Loy a Gary Cooper, da Katharine Hepburn a Bogart.

            Hemingway lo adora: «Mi fece sentire civilizzato». Dorothy Parker lo teme: «Due vanno bene, con tre sono sotto al tavolo, con quattro sotto al mio ospite». E James Bond? Eretico: lo vuole con vodka e shakerato. Buñuel lo definisce “immacolato” e lo prepara come un rituale religioso. Sbagliare un Martini, per lui, era come bestemmiare.

            Negli anni ‘80 era il drink da Wall Street, nei ‘50 l’icona del GOP. Odiato da Carter, adorato da Reagan. Il Martini è diventato una scelta di campo, uno statement, un manifesto liquido.

            E Arma di Taggia? Finalmente ha deciso di prendersi il merito: una targa in riva al mare ricorda il signor Martini, e i bar locali servono ancora il drink perfetto. Se vi chiedete quale sia il cocktail più cool della storia, la risposta è nel bicchiere. E no, non è un Mojito.

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              Sangria: la bevanda dell’estate che unisce storia, sapore e creatività

              Vino rosso, frutta fresca, un goccio di liquore e tanta voglia di fare festa: la sangria è il cocktail della leggerezza, del chiacchiericcio da terrazza e dei bicchieri che non restano mai vuoti. Un grande classico che non stanca, anzi: ogni anno ritorna, più fresca e creativa che mai.

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                Altro che mojito o spritz: la vera star delle sere d’estate ha un nome che sa di sole, chitarre e tapas. Sangria, l’intramontabile miscela spagnola che resiste ai trend, alle mode passeggere e persino al buon senso, perché diciamolo: dopo il terzo bicchiere, nessuno sa più dove sia finito il ghiaccio.

                Nata come bevanda contadina – vino avanzato e frutta troppo matura per essere venduta – la sangria ha fatto strada. È uscita dalle osterie di Siviglia, ha preso l’aereo con i turisti e oggi la trovi ovunque: dalle feste in spiaggia ai brunch più chic, dalle sagre paesane ai rooftop di design.

                La ricetta? Semplice, ma non banale. Serve un vino rosso corposo, ma non troppo tannico (evitiamo l’Amarone, grazie). Poi arance, limoni, pesche, mele, magari anche un po’ di frutti di bosco per chi vuole strafare. Una spruzzata di brandy, un cucchiaio di zucchero, qualche spezia (cannella, sì; noce moscata, calma). E infine la magia: il riposo. Almeno un paio d’ore in frigo, perché tutti gli ingredienti imparino a conoscersi come si deve.

                Il bello della sangria, però, è la sua vocazione anarchica. Nessuna dogmatica da bartender stellato: ognuno fa un po’ come gli pare. C’è chi usa il vino bianco (sacrilegio per alcuni, delizia per altri), chi ci mette la gassosa, chi lancia dentro una stecca di vaniglia e chi osa persino con il prosecco. È il trionfo dell’interpretazione personale: l’importante è che sia fredda, colorata e abbondante.

                E poi c’è la sangria delle grandi tavolate, quella che si prepara in una bacinella da insalata, con il mestolo da minestra e le fette di pesca che affiorano come isole galleggianti. La sangria delle risate che crescono di volume, degli amici che restano fino a tardi, dei “solo mezzo bicchiere” che diventano il terzo pieno.

                In un mondo in cui tutto cambia, lei resta lì: generosa, conviviale, estiva fino al midollo. La sangria è la nonna simpatica dei cocktail: magari ha qualche ruga, ma quando arriva, è sempre festa. E guai a sottovalutarla: è dolce, ma sa colpire. Come certi amori estivi che iniziano con un brindisi e finiscono, puntualmente, con un “chi ha finito la bottiglia?”.

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