Cucina
Amore a prima fetta: le delizie della crostata alle fragole!
Le crostate sembra che non abbiano mai avuto origini, ma affondano invece le radici nella cucina casalinga dei tempi passati, dove le massaie preparavano dolci rustici utilizzando gli ingredienti a loro disposizione.
 
																								
												
												
											La crostata, con il suo guscio croccante e il ripieno goloso, è diventata un classico di tutte le case. Ma, invece, alcune teorie suggeriscono che venivano preparate solo con frutta fresca di stagione e non con confetture o marmellate. Tuttavia, e per fortuna, nel corso dei secoli, le crostate si sono evolute e hanno assunto forme e gusti diversi in diverse culture culinarie.
Crostata alle fragole
Ingredienti per una crostata da 22 cm di diametro
Per la frolla
500 g di farina 00
3 uova
150 g di zucchero semolato
150 g di burro
1 bustina di lievito per dolci
1 bustina di vanillina
Per farcire e decorare
1 confezione di confettura di fragole
Zucchero a velo vanigliato per spolverare q.b.
Procedimento
Su un piano di lavoro versa la farina a fontana, metti al centro il burro morbido, lo zucchero, le uova e impasta per 2 minuti. Poi unisci il lievito, la vanillina e un pizzico di sale.
Lavora l’impasto con le mani fino a ricavare un composto compatto. Nel frattempo, imburra e infarina una teglia e mettila da parte.
Lavora l’impasto con il mattarello, dividi la frolla in due parti e con una ricava la base della crostata, adagiala nello stampo già imburrato e fai aderire bene sulle pareti della teglia.
Farcisci con la confettura di fragole, distribuendola bene sulla base della frolla.
Stendi la frolla avanzata con un matterello e con un tagliapasta ricava le classiche strisce che disporrai a reticolo sulla confettura.
Informa la crostata a 170°C, ventilato, per circa 20-22 minuti, o fino a quando il dolce diventerà ben cotto e dorato in superficie. Togli dal forno e lascia raffreddare completamente, poi sforma e spolvera con zucchero a velo prima di tagliarla a fette.
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Cucina
Il budino viola che profuma d’autunno: il budino di uva nera, due ingredienti e tanta poesia per un dessert leggero e irresistibile
Dalla tradizione contadina arriva un dessert scenografico e leggero. Il budino di uva nera Solarelli conquista per il suo colore intenso, la texture vellutata e il gusto pulito. Una ricetta essenziale che trasforma la frutta di stagione in una dolcezza viola brillante, perfetta dopo cena e impossibile da dimenticare.
 
														Il dolce che nasce dalla terra
In un panorama di dessert elaborati, creme ricche e glassature lucide, il budino di uva nera è una carezza. È la prova che a volte bastano due ingredienti e un po’ di pazienza per ottenere qualcosa di unico. Il segreto è tutto nella frutta: uva nera senza semi Solarelli, raccolta al giusto grado di maturazione, succosa, profumata e naturalmente dolce. È un dolce della tradizione rurale, nato quando in cucina si lavorava con ciò che la natura offriva, senza sprechi e con lentezza. Il risultato è un budino che non chiede zucchero, panna o gelatine: solo il succo dell’uva e una piccola quantità di farina per addensare. Novembre lo accoglie alla perfezione: è viola profondo, ricorda il vino novello e profuma di vendemmia.
L’arte della semplicità: la cottura lenta dell’uva
La prima fase è quasi meditativa. I grappoli si lavano, si sgrana l’uva e si raccolgono gli acini in un tegame capiente. La fiamma è bassa, il tempo è lento: due ore circa perché gli acini rilascino lentamente tutto il loro succo. Durante la cottura si schiacciano con cura, così ogni goccia diventa parte del dolce. Il passaggio successivo è il più importante: filtrare il succo con un colino per eliminare bucce e residui, lasciando soltanto un liquido liscio e intenso, che ritorna in casseruola per la trasformazione finale. Il profumo che invade la cucina è già dessert: dolce, vinoso, leggermente floreale.
Dal fuoco allo stampo: nasce il budino
Quando il succo è pronto, si aggiunge gradualmente la farina, mescolando fino a ottenere una consistenza densa ma ancora scorrevole. La miscela torna sul fuoco, dove ribolle appena per due o tre minuti, mescolata senza sosta con una frusta. È una danza breve ma essenziale: il liquido prende corpo, si addensa, brilla. Poi arriva la parte più bella, quella domestica e affettiva: versarlo in uno stampo e lasciarlo raffreddare, prima a temperatura ambiente e poi in frigorifero per circa tre ore. Quando si sforma, il budino appare lucido, morbido, con una tonalità viola che sembra rubata a un cielo d’autunno al tramonto. Fresco, leggero, naturalmente dolce. Perfetto da solo, magnifico con una cucchiaiata di yogurt bianco o un filo di miele di castagno per chi vuole una nota più golosa.
È un dolce che parla piano. E proprio per questo conquista.
Cucina
Tiramisù, la vera ricetta del dolce italiano più amato nel mondo
Nato tra Veneto e Friuli negli anni ’60, il tiramisù è oggi un’icona della pasticceria italiana. Pochi ingredienti, nessuna panna e una regola d’oro: rispetto assoluto per le uova fresche e il caffè espresso.
 
														Ci sono dolci che si raccontano da soli, e il tiramisù è uno di questi. Nato da una manciata di ingredienti semplici — uova, mascarpone, savoiardi, zucchero e caffè — è diventato in pochi decenni un simbolo mondiale dell’Italia golosa. Il suo nome, “tirami su”, è già una promessa: energia, dolcezza, conforto.
Sulla paternità del dolce si discute da anni. C’è chi lo attribuisce a Treviso, dove nel 1969 il ristorante Le Beccherie ne avrebbe servito la prima versione, e chi giura che sia nato a Tolmezzo, in Friuli. In ogni caso, il segreto è uno: semplicità assoluta.
Per la ricetta originale bastano sei tuorli d’uovo, 120 grammi di zucchero, 500 grammi di mascarpone freschissimo, savoiardi e caffè espresso non zuccherato. Si montano i tuorli con lo zucchero fino a ottenere una crema chiara e spumosa, poi si incorpora delicatamente il mascarpone. Niente panna, niente albumi montati: il tiramisù vero si regge sulla setosità del mascarpone e sulla forza del caffè.
I savoiardi si inzuppano rapidamente, mai troppo, nel caffè freddo, per evitare che si sfaldino. Si alternano strati di biscotti e crema, chiudendo con uno strato abbondante di crema e una spolverata generosa di cacao amaro. Il riposo in frigorifero per almeno quattro ore è fondamentale: solo così i sapori si fondono e il dolce raggiunge la sua perfetta armonia.
C’è chi aggiunge un goccio di Marsala o di rum per profumare la crema, ma il tiramisù tradizionale ne fa a meno. È il contrasto tra l’amaro del caffè e la dolcezza del mascarpone a creare la magia.
Nel tempo sono nate infinite varianti — al pistacchio, alle fragole, al limone — ma nessuna ha mai superato l’originale. Perché il tiramisù non è solo un dolce: è una carezza fredda, un rituale domestico, un pezzo d’Italia servito in coppetta.
E ogni cucchiaino, anche dopo decenni, mantiene la stessa promessa: tirarti su, davvero.
Cucina
Vin brulè, il profumo dell’inverno: la bevanda calda che riscalda mani, cuore e memoria
Una tradizione antica, nata per scaldare i viaggiatori nelle locande di montagna e oggi diventata un rituale conviviale. Prepararlo in casa è facile: basta scegliere il vino giusto e dosare con cura le spezie.
 
														C’è un momento, tra novembre e gennaio, in cui il profumo del vin brulè sembra inseguirci ovunque: nei mercatini di Natale, nelle baite, perfino nelle piazze delle città. È un aroma che sa di legno e agrumi, di cannella e fuoco acceso, capace di risvegliare ricordi e riscaldare anche le giornate più fredde.
La sua storia è antichissima. Già i Romani bevevano il conditum paradoxum, un vino dolce scaldato con miele e spezie, antesignano dell’attuale vin brulè (dal francese vin brûlé, “vino bruciato”). In origine era un rimedio contro i malanni invernali, ma col tempo è diventato un piacere da condividere.
Oggi ogni regione ha la sua versione: in Trentino si usa il Merlot o il Lagrein, in Valle d’Aosta il Petit Rouge, in Piemonte il Barbera. Ma la regola resta la stessa: serve un rosso corposo, non troppo giovane, capace di resistere al calore senza perdere carattere.
La preparazione è un gesto antico, quasi rituale. In una casseruola si versa il vino con zucchero, scorza d’arancia e di limone, cannella, chiodi di garofano, anice stellato e — per i più audaci — una punta di noce moscata o di pepe. Si scalda lentamente, senza mai far bollire, finché lo zucchero si scioglie e la casa si riempie di un profumo avvolgente. Poi si filtra e si serve bollente, in tazze spesse o bicchieri resistenti, magari accompagnato da biscotti di panpepato o castagne arrosto.
Il segreto sta nell’equilibrio: troppo zucchero lo rende stucchevole, troppe spezie lo coprono. Il vin brulè perfetto è armonia — caldo ma non bruciante, dolce ma non sciropposo, aromatico ma mai invadente.
E come tutte le tradizioni che resistono al tempo, la sua magia è nella condivisione. Un sorso di vin brulè non si beve da soli: si offre, si racconta, si alza in un brindisi lento che sa di inverno, amicizia e ritorno alle origini.
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