Cucina
L’Italia in miniatura: tondetti di margherita!
Sono di quelle fatte in casa e rappresentano una delle più autentiche espressioni della cucina italiana. Con un occhio alle proporzioni, sono adatte per essere mangiate in un solo boccone.
Le pizzette tondette fatte in casa sono ripasso di cultura italiana per apprezzare il gusto autentico della nostra cucina casalinga. Che sia per una cena informale con gli amici o per una festa in famiglia, le pizzette tondette sono sempre la scelta perfetta per accontentare davvero tutti, anche nelle dimensioni.
Ingredienti per 12 pizzette
300 g di farina tipo 00
2 cucchiaini di lievito di birra secco
1 cucchiaino di sale
200 ml di acqua tiepida
2 cucchiai di olio extravergine di oliva
Per farcire
Passata di pomodoro
Pomodorini ciliegino q.b.
Fiordilatte scolate
Sale q.b.
Basilico q.b.
Olio extravergine di oliva q.b.
Procedimento
In una ciotola grande, mescola la farina con il lievito di birra secco e il sale, aggiungi l’acqua tiepida e l’olio d’oliva. Mescola con un cucchiaio poi trasferire l’impasto su un piano di lavoro leggermente infarinato e lavora energicamente per circa 10 minuti, fino a ottenere una massa liscia ed elastica. Metti l’impasto in una ciotola leggermente oliata, copri e lascia lievitare in un luogo caldo per fino a quando raddoppia di volume.
Dopo la lievitazione, dividi l’impasto in piccole palline, circa della dimensione di una noce. Stendi ogni pallina con le mani fino ad ottenere dei dischi di circa 8 cm di diametro.
Distribuisci su ogni disco una cucchiaiata di salsa di pomodoro, aggiungi poi la mozzarella sfilacciata, i pomodorini spezzettati, sale e un filo di olio. Informa le pizzette a 190 gradi ventilato e lasciale cucinare per circa 10-12 minuti, o fino a quando i bordi delle pizzette diventano dorati e croccanti e il formaggio sarà leggermente dorato. Una volta cotte, sforna le pizzette e lasciale raffreddare leggermente prima di servire con basilico fresco.
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Cucina
Monte Bianco, il dolce che profuma d’autunno: storia e ricetta del dessert più elegante delle Alpi
Un classico intramontabile della pasticceria francese e italiana, nato dall’incontro tra castagne, panna e zucchero a velo. Il Mont Blanc conquista per la sua semplicità raffinata e per il sapore avvolgente che sa di bosco e di ricordi d’infanzia.
È il simbolo della stagione fredda, quando i castagni regalano i loro frutti migliori e le prime nevi imbiancano le cime alpine. Il Monte Bianco, o Mont Blanc, è un dessert che racchiude nella sua semplicità tutto il fascino dell’autunno. Una montagna di dolcezza fatta di purea di castagne, panna montata e zucchero a velo che ricorda, nella forma, il celebre massiccio al confine tra Italia e Francia. Ma dietro la sua apparente semplicità si nasconde una storia lunga e affascinante, fatta di contaminazioni culinarie, eleganza e profumi di casa.
Origini tra Francia e Italia: un dessert “di confine”
Come per molti piatti storici, anche il Monte Bianco vanta origini contese. In Francia, dove è conosciuto come Mont Blanc aux marrons, viene attribuito alla tradizione piemontese e savoiarda, ma si è presto trasformato in un dolce simbolo della pasticceria parigina del XIX secolo.
In Italia, invece, il Monte Bianco è considerato un orgoglio piemontese e valdostano, preparato fin dal Settecento nelle case borghesi e nei caffè storici di Torino. La leggenda vuole che la ricetta nasca come omaggio alla montagna più alta d’Europa, trasformata in un dessert scenografico in grado di celebrare la natura e la maestosità delle Alpi.
Un dolce di castagne, ma anche di pazienza
Alla base del Monte Bianco ci sono castagne di ottima qualità, preferibilmente quelle dei boschi piemontesi o toscani. Dopo essere state lessate con latte, vaniglia e un pizzico di sale, vengono passate finemente per ottenere una purea morbida, che poi viene dolcificata con zucchero e, secondo alcune versioni, aromatizzata con rum o cacao.
La purea viene quindi modellata in sottili fili che, sovrapposti a spirale, formano la tipica “montagnetta”. Sopra, un generoso strato di panna montata fresca e una spolverata di zucchero a velo ricreano l’effetto della neve.
«Il segreto di un buon Monte Bianco è la texture», spiega lo chef pasticcere torinese Luca Montersino. «La purea non deve essere né troppo asciutta né troppo liquida, e la panna va montata con delicatezza, per mantenerla leggera. È un equilibrio di consistenze: la morbidezza delle castagne incontra la leggerezza della panna, creando un contrasto armonioso».
La ricetta tradizionale del Monte Bianco
Ingredienti per 6 persone:
- 600 g di castagne fresche o 400 g di castagne lessate
- 250 ml di latte intero
- 100 g di zucchero semolato
- 1 baccello di vaniglia
- 1 cucchiaio di rum o di brandy (facoltativo)
- 300 ml di panna fresca da montare
- 2 cucchiai di zucchero a velo
- un pizzico di sale
Preparazione:
- Incidere le castagne e lessarle per circa 30 minuti in acqua bollente. Una volta cotte, pelarle con cura e metterle in un tegame con il latte, la vaniglia e lo zucchero. Cuocere a fuoco basso fino a ottenere una consistenza cremosa.
- Eliminare la vaniglia e passare le castagne al setaccio o al passaverdura. Aggiungere il rum, se gradito.
- Disporre la purea su un piatto da portata e, con l’aiuto di uno schiacciapatate o di una sacca da pasticceria con beccuccio sottile, formare i classici fili di castagne che ricordano una montagna.
- Montare la panna con lo zucchero a velo e distribuirla a ciuffi sopra la purea. Spolverare infine con altro zucchero a velo per l’effetto “innevato”.
Il dolce si serve freddo, ma non ghiacciato, per apprezzarne la morbidezza.
Le varianti moderne del Monte Bianco
Oggi, accanto alla versione classica, ne esistono diverse reinterpretazioni. Alcuni chef propongono una versione scomposta in bicchiere, con strati alternati di castagne e panna, altri aggiungono cioccolato fondente o marrons glacés per una nota più golosa. In Giappone, il Mont Blanc è diventato un fenomeno di culto: la base di castagne viene sostituita da purea di patate dolci o da tè matcha, dando vita a dolci colorati e raffinati.
Un dessert che unisce tradizione e poesia
Il Monte Bianco è più di un dolce: è una piccola opera d’arte che racchiude l’essenza dell’autunno, tra profumi di bosco e ricordi di infanzia. È il comfort food che scalda il cuore nelle giornate fredde e che, nonostante il suo aspetto scenografico, racconta una semplicità antica, fatta di ingredienti poveri e gesti lenti.
Forse è per questo che, dopo secoli, continua a essere amato in tutta Europa: perché ogni cucchiaiata sa di casa, di neve e di tempo ritrovato.
Cucina
Vin brulé, il profumo dell’inverno: la ricetta tradizionale che scalda corpo e spirito
Cannella, chiodi di garofano e agrumi: pochi ingredienti bastano per creare la magia del vin brulé, la bevanda che unisce tradizione, convivialità e aromi irresistibili.
Un rituale d’inverno che sa di casa e mercatini
Quando le giornate si accorciano e l’aria si fa pungente, basta un bicchiere di vin brulé per ritrovare calore e buonumore. Simbolo per eccellenza dei mercatini di Natale e delle serate in montagna, questo vino rosso speziato è molto più di una bevanda: è un piccolo rito che profuma di agrumi e cannella, capace di evocare ricordi e tradizioni secolari.
Il nome “vin brulé” deriva dal francese vin brûlé, cioè “vino bruciato”, un riferimento alla bollitura del vino con spezie e zucchero. In realtà, le sue origini affondano molto più indietro nel tempo: già gli antichi Romani aromatizzavano il vino con miele e spezie per conservarlo e renderlo più gradevole. Nel Medioevo la ricetta si diffuse in tutta Europa, assumendo varianti locali: dal Glühwein tedesco e austriaco al Mulled Wine inglese, fino al vin chaud francese.
La ricetta tradizionale del vin brulé
Realizzare un buon vin brulé in casa è semplice, ma richiede attenzione nella scelta degli ingredienti e nella cottura, per non perdere gli aromi del vino e delle spezie.
Ingredienti per 4 persone:
- 1 litro di vino rosso corposo (ideale un Merlot, un Nebbiolo o un Barbera)
- 100 g di zucchero di canna
- 1 arancia non trattata
- 1 limone non trattato
- 2 stecche di cannella
- 5 chiodi di garofano
- 1 baccello di vaniglia (facoltativo)
- una grattugiata di noce moscata
- 1 stella di anice (per decorare e profumare)
Come prepararlo passo dopo passo
- Preparare gli aromi: lavate accuratamente gli agrumi e tagliate la buccia a spirale, evitando la parte bianca che darebbe amarezza.
- Scaldare il vino: in una casseruola capiente versate il vino rosso, aggiungete zucchero, spezie e scorze di agrumi.
- Cottura lenta: accendete il fuoco e lasciate scaldare a fiamma bassa, senza far bollire troppo, per circa 10-15 minuti. Il segreto è non superare gli 80°C, per evitare che l’alcol evapori del tutto e che il vino diventi acido.
- Filtrare e servire: togliete le spezie con un colino, versate il vin brulé bollente in tazze o bicchieri resistenti al calore e servite subito, decorando con una fetta d’arancia o una stecca di cannella.
Le varianti regionali e moderne
Ogni regione alpina custodisce una sua versione del vin brulé. In Trentino-Alto Adige si usa spesso aggiungere una punta di grappa o di miele di montagna, mentre in Piemonte qualcuno profuma il vino con bacche di ginepro o pepe nero. Nelle versioni francesi e inglesi, invece, si trovano ingredienti come zenzero fresco, cardamomo o alloro, che aggiungono complessità aromatica.
Per chi non consuma alcol, esiste anche la variante analcolica: basta sostituire il vino con del succo d’uva o di mela, seguendo la stessa ricetta e lasciando che le spezie sprigionino tutto il loro profumo.
Un bicchiere di tradizione che unisce
Il vin brulé è una bevanda conviviale, da condividere all’aperto tra luci natalizie, oppure a casa davanti al camino. Oltre al piacere sensoriale, ha anche un effetto benefico: le spezie riscaldano l’organismo e favoriscono la digestione, mentre il vino, consumato con moderazione, rilassa e distende.
Nel suo profumo si ritrovano i sapori dell’inverno, la lentezza delle feste e il piacere di stare insieme. Prepararlo è un gesto semplice, ma dal potere evocativo: un brindisi alla tradizione, alla convivialità e al calore che non passa mai di moda.
Cucina
Riccardo Giraudi: «Vent’anni di Beefbar. E a Parigi ho fatto mangiare pesto con aglio a Rihanna»
Dal Black Angus “troppo caro” a un impero da 40 ristoranti. L’imprenditore genovese racconta aneddoti, sfide e successi del suo brand globale.
Ha trasformato una carne da intenditori in un marchio globale, portando la bistecca nell’Olimpo del lusso. Riccardo Giraudi, genovese di nascita e cosmopolita per vocazione, celebra i vent’anni del Beefbar, catena che oggi conta quaranta insegne sparse in tutto il mondo, da Monaco a Parigi, da Milano a New York.
«Monaco è stata l’origine, Parigi straordinaria, New York una sfida vinta. Ma la città che mi ha dato più soddisfazioni resta Milano», racconta con orgoglio. E nel ripercorrere il cammino che l’ha portato a reinventare il concetto di steakhouse, Giraudi non dimentica gli aneddoti che hanno fatto la differenza. «L’anno scorso, a Parigi, stavo aprendo Zeffirino, lo storico ristorante genovese che Frank Sinatra rese celebre negli anni Sessanta. È arrivata Rihanna, ha chiuso il locale per un after show privato. Ha mangiato pesto, quello classico con l’aglio, e A$AP Rocky, il suo fidanzato, è sceso in cucina perché non ci credeva. Si è messo a cucinarlo lui stesso. Un momento surreale e bellissimo».
Per lui, che si definisce un «eretico» della ristorazione, la chiave è stata ribaltare le regole: «Quando ho cominciato, il Black Angus era considerato troppo caro per il mercato. Io ho deciso di farne un’esperienza. Il Beefbar non è solo carne: è un modo di vivere, un viaggio tra lusso e convivialità».
Un brand che ha saputo attraversare mode e sfide. Dai prezzi discussi al confronto con i trend veg, Giraudi non si è mai tirato indietro. «Non serve inventarsi storytelling quando un marchio ce l’ha già. Mi piace risvegliare belle addormentate come Zeffirino, che hanno un’eredità forte. È più difficile che creare da zero, ma molto più affascinante».
Oggi i suoi ristoranti attraggono celebrity, imprenditori e gourmand di mezzo mondo. E il futuro? «Continuare a crescere senza perdere autenticità. La carne resta il cuore, ma l’esperienza è ciò che fa davvero la differenza».
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