Lifestyle
Ferragni & C: è davvero finita l’epoca delle influencer?
l’epoca degli influencer tradizionali potrebbe essere in declino, ma la creazione di contenuti autentici e performativi continua a prosperare. Gli influencer devono adattarsi a un pubblico che richiede trasparenza e creatività, mentre le aziende cercano nuove strategie per connettersi con i consumatori in modo genuino.

Negli ultimi anni, l’influencer economy ha rappresentato un fenomeno travolgente, trasformando la società con la creazione di nuove carriere e una diversa concezione di popolarità, intrattenimento e autenticità. Le piattaforme social hanno permesso a chiunque di accumulare follower e fan, rendendo gli influencer capaci di raggiungere milioni di persone a costi relativamente bassi rispetto alle campagne pubblicitarie tradizionali. Tuttavia, con l’esplosione di TikTok e un cambiamento nelle strategie aziendali, questo panorama sta subendo una significativa trasformazione.
Ascesa e declino di un fenomeno
L’influencer economy sembrava realizzare il sogno di un’imprenditoria digitale democratica e meritocratica. Le persone comuni diventavano celebrità, vendendo il loro stile di vita percepito come autentico. Instagram e le stories hanno ulteriormente cementato questa dinamica, trasformando la vita quotidiana in una rappresentazione sistematica online.
Un esempio emblematico è Chiara Ferragni, che ha trasformato il suo profilo Flickr in un diario fotografico di moda, diventando una delle prime e più influenti fashion blogger. Il suo successo in un certo modo ha dimostrato come la polarizzazione e l’autenticità percepita potessero catalizzare enormi follower, nonostante (o forse grazie a) la presenza di numerosi hater.
Dalla popolarità all’imprenditoria
Con il passare del tempo, molti influencer sono diventati imprenditori digitali. Cristina Fogazzi ha lanciato una linea di prodotti skincare, Clio Zammatteo ha creato una collezione di make-up e Chiara Ferragni ha aperto il suo primo negozio fisico. Poi diventata una vera e propria holdind finanziaria. Tuttavia, la loro esistenza digitale li ha resi vulnerabili ai cambiamenti di algoritmo e agli scenari in continua evoluzione.
L’impatto della pandemia e l’avvento di TikTok
La pandemia ha cambiato ulteriormente le dinamiche. TikTok, con il suo algoritmo democratico, ha riportato l’attenzione sul contenuto, permettendo a chiunque di farsi notare. La piattaforma ha accelerato la creazione di contenuti autentici e performativi, mettendo in secondo piano l’estetica patinata di Instagram. Khaby Lame è diventato un volto importante per questo cambiamento, superando Charli D’Amelio in termini di follower grazie alla sua semplicità e creatività.
Il boom del de-influencing
Il de-influencing su TikTok ha segnato una nuova era. Gli utenti cercano autenticità e intrattenimento genuino, riducendo il valore commerciale degli influencer tradizionali di Instagram. Nuove figure come “L’influencer onesta” e “L’influencer povera” testano prodotti acquistati di tasca propria, cercando di riconquistare la fiducia del pubblico.
Un cambiamento nelle strategie aziendali
Le aziende stanno rivedendo le loro strategie di marketing, richiedendo maggiore trasparenza e preferendo collaborazioni a lungo termine con content creator autentici. Gli influencer devono ora dimostrare non solo la loro popolarità, ma anche la loro capacità di creare contenuti di valore. Attori, atleti e popstar stanno tornando come principali ambasciatori dei brand, in grado di connettersi con i fan sia online che offline.
Influencer rivoluzione sociale
Nonostante le critiche, gli influencer hanno rappresentato una rivoluzione sociale. Secondo Emily Hund nel suo saggio “L’industria degli influencer”, l’influencer economy si basa sul desiderio di sicurezza e autonomia, offrendo una soluzione alla destabilizzazione professionale e all’insicurezza economica degli anni Duemila.
INSTAGRAM.COM/LACITYMAG
Arte e mostre
Torino inaugura il Serial Killer Museum: un viaggio nella mente dell’orrore

Ha aperto i battenti a Torino il Serial Killer Museum, uno spazio che promette di incuriosire e inquietare al tempo stesso. L’iniziativa, ospitata nel centro della città, si propone come un percorso educativo e psicologico nel cuore più oscuro della mente umana, raccontando le vicende di dieci assassini seriali che hanno lasciato un segno nella storia della criminalità mondiale.
Il progetto nasce con l’intento di esplorare la genesi del male, non per celebrarlo ma per comprenderlo. L’obiettivo dichiarato dagli organizzatori è quello di offrire un punto di vista “storico, criminologico e umano” su figure che hanno alimentato paure, incubi e ossessioni collettive.
Un viaggio immersivo tra cronaca e psiche
L’esposizione è strutturata come un percorso multisensoriale. Attraverso audioguide, scenografie realistiche e installazioni digitali, il visitatore si trova a camminare tra dossier investigativi, oggetti autentici, fotografie e ricostruzioni di ambienti legati ai casi trattati. Ogni sezione è dedicata a un diverso protagonista della cronaca nera: da Ed Gein, il “macellaio di Plainfield” che ispirò Psycho, a Ted Bundy, il killer dal fascino ingannevole che terrorizzò l’America negli anni Settanta.
Non mancano i riferimenti italiani, come la “saponificatrice di Correggio” Leonarda Cianciulli, responsabile di tre efferati omicidi tra il 1939 e il 1940. Ogni sala alterna documentazione storica e interpretazioni psicologiche, per indagare il confine sottile tra follia e consapevolezza criminale.
L’allestimento, realizzato con la consulenza di esperti di criminologia e psichiatria forense, mira a stimolare una riflessione etica sul tema della violenza, invitando il pubblico a interrogarsi sul perché la società resti così attratta dal male.
La fascinazione del pubblico per i “mostri”
L’apertura del museo si inserisce in un fenomeno ormai globale: la serial killer culture, una vera e propria corrente culturale alimentata da serie TV, documentari e podcast di successo. Dai casi di Dahmer su Netflix a Mindhunter, il pubblico sembra non stancarsi mai di esplorare le vite dei criminali più spietati, cercando in esse risposte e brividi.
Una curiosità che, in alcuni casi, può sfociare in morbosità. Gli esperti parlano di ibristofilia, una condizione psicologica che porta alcune persone a provare attrazione o empatia verso chi ha commesso delitti efferati. Fenomeni simili si sono già visti in passato, basti pensare alle lettere d’amore ricevute da Ted Bundy o da Charles Manson durante la detenzione.
Proprio per questo motivo, i curatori del Serial Killer Museum hanno voluto chiarire sin dall’inaugurazione che l’intento non è quello di mitizzare, ma di analizzare. L’obiettivo è capire come nascono certe menti criminali, cosa le accomuna e come la società risponde a questi casi estremi.
Tra cultura, etica e voyeurismo
Nonostante il rigore dichiarato dell’approccio, il museo ha già acceso il dibattito. C’è chi lo considera un esperimento culturale coraggioso, capace di affrontare il male con strumenti di studio, e chi lo accusa di trasformare il dolore in intrattenimento.
I responsabili dell’iniziativa difendono la scelta, spiegando che l’allestimento punta sull’impatto emotivo ma con un fine educativo: “Raccontare l’orrore serve a riconoscerlo e a non dimenticare le sue vittime”, si legge nella presentazione ufficiale.
La scelta di Torino come sede non è casuale: la città, da sempre legata alla simbologia esoterica e alla cultura psicologica grazie all’Università e al Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso”, si conferma un luogo ideale per riflettere sul rapporto tra scienza e mistero.
Il male come specchio della società
In definitiva, il Serial Killer Museum è molto più di una curiosità turistica. È uno specchio dei tempi, un luogo dove il confine tra cultura, morbosità e introspezione diventa sempre più sfumato.
Per alcuni visitatori sarà un viaggio nell’orrore, per altri un modo per comprendere meglio la natura umana. In ogni caso, nessuno uscirà indifferente: perché guardare negli occhi il male, anche solo attraverso una teca di vetro, significa interrogarsi su quanto di oscuro, a volte, abiti anche dentro di noi.
Curiosità
Cortigiana: insulto o complimento? Il significato di una parola sospesa tra eleganza e pregiudizio
Da figura colta e influente nelle corti italiane a sinonimo di donna “di facili costumi”: la storia della parola “cortigiana” racconta molto di più di un semplice mutamento linguistico. È lo specchio di come la società ha guardato – e giudicato – le donne nel tempo.

Può una parola essere al tempo stesso un complimento e un insulto? “Cortigiana” è un termine che attraversa la storia italiana carico di sfumature, contraddizioni e giudizi morali. Nata nel cuore del Rinascimento per indicare una donna raffinata, istruita e spesso vicina ai centri del potere, nel corso dei secoli la parola ha perso la sua nobiltà, scivolando verso un significato moralmente più ambiguo.
Alle origini: le dame della corte
Nel Cinquecento, “cortigiana” derivava dal semplice “corte”: era una donna che viveva o frequentava l’ambiente dei nobili, spesso educata alle arti, alla musica e alla conversazione. Figure come Veronica Franco a Venezia o Tullia d’Aragona a Firenze incarnavano perfettamente l’ideale di “cortigiana onesta” — espressione allora in uso per distinguere le donne di talento e cultura dalle prostitute comuni. Queste donne erano colte, poetesse, pittrici, amanti di mecenati e intellettuali. In un’epoca in cui l’accesso alla cultura femminile era limitato, riuscivano a esercitare influenza politica e sociale, spesso attraverso il fascino e l’intelligenza.
Dal salotto al pregiudizio
Col tempo, però, la parola si è caricata di un significato negativo. Già tra il Seicento e l’Ottocento, “cortigiana” non evocava più una dama di spirito, ma una donna che otteneva favori attraverso il potere della seduzione. La moralità borghese e l’avvento della società patriarcale moderna trasformarono l’antico rispetto in sospetto. Nei romanzi e nei giornali dell’Ottocento, la “cortigiana” divenne una figura tragica, contesa tra lusso e dannazione — basti pensare a La Traviata di Verdi o a La Dame aux Camélias di Alexandre Dumas figlio.
In questa metamorfosi, si legge il giudizio morale che la società maschile ha proiettato sul ruolo delle donne indipendenti e affascinanti: da muse e consigliere dei potenti a simbolo di “decadenza”.
Il significato contemporaneo
Oggi, “cortigiana” può ancora essere usata in due sensi opposti. In chiave storica o letteraria, mantiene un’aura di eleganza e mistero: una donna sofisticata, capace di muoversi con grazia e intelligenza nei contesti più difficili. Ma nel linguaggio comune, la parola è spesso usata come insulto velato, sinonimo di opportunismo o di compiacenza verso il potere.
L’ambivalenza resta: in certi contesti, dire “ha un portamento da cortigiana” può suonare come un complimento; in altri, può implicare giudizio morale o sessuale. Il significato dipende dal tono e dall’intenzione di chi parla — e soprattutto da come la società sceglie di guardare le donne che esercitano fascino e autonomia.
Una questione di sguardo
Secondo la linguista Vera Gheno, il linguaggio riflette la cultura di chi lo usa: parole come “cortigiana”, “musa” o “ambiziosa” continuano a essere caricate di sfumature sessiste quando applicate alle donne, mentre non hanno equivalenti negativi maschili. La parola diventa quindi un campo di battaglia culturale: un simbolo di come il potere, l’indipendenza e la sensualità femminile siano ancora soggetti a giudizio.
Un’eredità da riscrivere
Forse, oggi, recuperare il senso originario di “cortigiana” — donna di cultura, di spirito, capace di dialogare con l’élite intellettuale del suo tempo — significa restituirle dignità. In fondo, le cortigiane rinascimentali furono, a loro modo, le prime influencer culturali, capaci di trasformare il fascino in forma di libertà.
E allora sì: “cortigiana” può essere un insulto o un complimento. Ma, soprattutto, è un promemoria linguistico che rivela come ogni parola, nel tempo, racconti più di chi la pronuncia che di chi la incarna.
Libri
Sonia Bruganelli: «L’aborto a 24 anni, il tradimento, Paolo e io. Vi racconto tutto quello che mi ha cambiato»
Sonia Bruganelli si mette a nudo come non aveva mai fatto. Lo fa in un’intervista al Corriere della Sera e nel suo nuovo libro Solo quello che rimane – Autobiografia di una lettrice (Sperling & Kupfer), dove ripercorre la sua vita privata, le sue fragilità e il lungo legame con Paolo Bonolis, l’uomo che ha segnato gran parte della sua esistenza.
Per la prima volta racconta un episodio che ha inciso profondamente nel suo percorso personale: «Avevo ventiquattro anni quando rimasi incinta. La gravidanza non era cercata, ma avrei voluto che Paolo mi dicesse: “Che bello, questo bimbo è frutto del nostro amore”. Invece, non era pronto. L’ho capito, non l’ho accusato e, fra diventare madre senza di lui o avere lui, ho scelto lui. Ma mi sbagliavo. Pensavo che, dopo l’intervento, tutto sarebbe finito lì. Invece, la rabbia per ciò che mi era stato tolto si è fatta sentire nel tempo».
Quella scelta, confessa oggi, ha segnato il suo modo di vivere l’amore e la maternità: «Da allora ho cercato di riprendermi quello che non avevo avuto la maturità di scegliere. Ho accumulato errori su errori. Essere madre è sempre stato il mio sogno, ma per anni quella ferita ha condizionato tutto il nostro rapporto».
Il dolore si è intrecciato alla gelosia e alla difficoltà di accettare le differenze: «Quando Paolo parlava dei suoi figli, mi sentivo lacerata. Pensavo che non mi considerasse abbastanza importante da volere un’altra paternità con me. Gli dicevo: “Zitto, mi ferisci”. Era una situazione tossica».
Poi la confessione più intima: «Ci siamo sposati perché ci amavamo, ma anche per un intreccio di altre ragioni. Dentro quell’amore c’erano rancori, desideri, bisogno di conferme».
Nel libro, Bruganelli non elude nemmeno il tema dei tradimenti e della fine del matrimonio: «A un certo punto ho capito che dovevamo lasciarci per restare interi. Non per mancanza d’amore, ma per rispetto. Abbiamo vissuto tanto insieme, e tanto ci sarà ancora, in forme diverse. Il perdono è la più alta forma d’amore».
Una confessione lucida, adulta e senza orpelli, quella di Sonia Bruganelli, che chiude un cerchio ma non un legame: quello con l’uomo che, nel bene e nel male, continua a far parte della sua storia.

Sonia Bruganelli si mette a nudo come non aveva mai fatto. Lo fa in un’intervista al Corriere della Sera e nel suo nuovo libro Solo quello che rimane – Autobiografia di una lettrice (Sperling & Kupfer), dove ripercorre la sua vita privata, le sue fragilità e il lungo legame con Paolo Bonolis, l’uomo che ha segnato gran parte della sua esistenza.
Per la prima volta racconta un episodio che ha inciso profondamente nel suo percorso personale: «Avevo ventiquattro anni quando rimasi incinta. La gravidanza non era cercata, ma avrei voluto che Paolo mi dicesse: “Che bello, questo bimbo è frutto del nostro amore”. Invece, non era pronto. L’ho capito, non l’ho accusato e, fra diventare madre senza di lui o avere lui, ho scelto lui. Ma mi sbagliavo. Pensavo che, dopo l’intervento, tutto sarebbe finito lì. Invece, la rabbia per ciò che mi era stato tolto si è fatta sentire nel tempo».
Quella scelta, confessa oggi, ha segnato il suo modo di vivere l’amore e la maternità: «Da allora ho cercato di riprendermi quello che non avevo avuto la maturità di scegliere. Ho accumulato errori su errori. Essere madre è sempre stato il mio sogno, ma per anni quella ferita ha condizionato tutto il nostro rapporto».
Il dolore si è intrecciato alla gelosia e alla difficoltà di accettare le differenze: «Quando Paolo parlava dei suoi figli, mi sentivo lacerata. Pensavo che non mi considerasse abbastanza importante da volere un’altra paternità con me. Gli dicevo: “Zitto, mi ferisci”. Era una situazione tossica».
Poi la confessione più intima: «Ci siamo sposati perché ci amavamo, ma anche per un intreccio di altre ragioni. Dentro quell’amore c’erano rancori, desideri, bisogno di conferme».
Nel libro, Bruganelli non elude nemmeno il tema dei tradimenti e della fine del matrimonio: «A un certo punto ho capito che dovevamo lasciarci per restare interi. Non per mancanza d’amore, ma per rispetto. Abbiamo vissuto tanto insieme, e tanto ci sarà ancora, in forme diverse. Il perdono è la più alta forma d’amore».
Una confessione lucida, adulta e senza orpelli, quella di Sonia Bruganelli, che chiude un cerchio ma non un legame: quello con l’uomo che, nel bene e nel male, continua a far parte della sua storia.
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