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Fine della scuola, si parte con Interrail e Eurail

Questa estate, tanti giovani partiranno alla scoperta di nuovi orizzonti, portando a casa ricordi preziosi e contribuendo a costruire un’Europa sempre più unita.

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I giovani usano Interrail come 50 anni fa

    Per quelli della mia generazione ha rappresentato il primo appuntamento con i viaggi senza famiglia. Stiamo parlando di Interrail oggi Eurail. Liberi di viaggiare per tutta Europa pagando un unico biglietto. Era, ed è tutt’ora, un carnet che si acquistava una sola volta e che permetteva di salire e scendere dai treni, ad andamento lento, per raggiungere le capitali o comunque ogni nazione in ambito europeo. Praticamente con chilometraggio illimitato. Unica limitazione la durata. Doveri affrettarti perché il super viaggio doveva concludersi in trenta giorni. Con il trascorrere dei decenni le condizioni e il costo sono cambiate. Ma alla fine i giovani lo usano ancora. Eccome! Quest’anno si assiste a un record di adesioni per i pass gratuiti, facilitati anche dalle app – che ai nostri tempi non erano ancora arrivate – che semplificano la pianificazione degli itinerari preferiti.

    Come faranno a visitare tutti quei posti in così poco tempo?

    La domanda dei genitori a distanza di mezzo secolo è sempre la stessa “Come faranno a visitare tutti questi luoghi in così poco tempo?” si chiedono considerando le distanze e il numero dei luoghi che si intendono visitare. E oggi come allora la risposta è sempre la stessa: grazie all’ entusiasmo e alla voglia di scoprire l’Europa zaino in spalla. Il progetto Interrail, nato nel 1972 inizialmente era dedicato ai giovani sotto i 21 anni. Ma dal 2007, il progetto è diventato molto più flessibile includendo anche pass per i traghetti.

    I benefici dell’Europa unita che qualcuno vorrebbe smembrare

    Il programma DiscoverEU, finanziato dal Parlamento Europeo, ha dato nuova linfa a questo tipo di vacanze dei giovani. Punta a rendere i giovani più indipendente, sviluppare soft skills e abbracciare i valori europei. Ogni anno, i diciottenni possono partecipare a un concorso per vincere pass gratuiti. Quest’anno, oltre 35mila giovani hanno ottenuto questi pass, con una preferenza schiacciante per l’Interrail Global Pass.

    Giovani italiani pronti a salire…

    I giovani italiani sono stati particolarmente entusiasti, con 36.357 candidature e 4.366 pass assegnati. Una delle fortunate, ha già pianificato un itinerario che include Praga, Copenaghen, Amsterdam e Strasburgo. Un’altra non vede l’ora di partire subito dopo la maturità, mentre c’è chi pianifica il viaggio con i suoi amici utilizzando l’app Rail Planner Eurail/Interrail. A dimostrazione di quanto sia versatile e stimolante l’uso del pass Interrail c’è chi partirà da Roma con destinazione Spalato, Budapest, Berlino e poi Spagna.

    Numeri da record

    Lo scorso anno sono stati assegnati, 1,2 milioni di Eurail e Interrail Pass. Dal 2019 al 2022, si è assistito a un incremento del 43% dei viaggiatori, sia tra i giovani che tra gli adulti. Ogni anno, circa 980.000 persone viaggiano con questi pass, coprendo oltre 250.000 chilometri di ferrovie e collegamenti marittimi.

    Le mete preferite? Germania, Italia, Svizzera, Francia e Austria

    La storia di Eurail e Interrail è strettamente legata a quella dell’Europa. Fin dal 1959 con l’Eurail Pass e dal 1972 con l’Interrail Pass, milioni di viaggiatori hanno potuto esplorare il nostro continente senza barriere, promuovendo il treno come mezzo di trasporto efficiente ed ecologico.

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      Società

      Generazione boomerang: perché tanti figli adulti tornano a vivere con i genitori

      Tra affitti insostenibili, lavori precari e relazioni complicate, cresce il numero di adulti che rientrano nella casa d’origine. Una scelta a volte forzata, a volte comoda. Ma che dice molto di come sta cambiando la società

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        Dopo anni di fatica, bollette e coinquilini improbabili, c’è chi prende una decisione che un tempo sarebbe sembrata un fallimento: tornare a casa. E invece oggi, per migliaia di giovani adulti italiani, il rientro nel nido familiare è una scelta sempre più comune. Li chiamano “boomerang kids”: figli che se ne vanno e poi tornano, spesso con una laurea in tasca, qualche delusione lavorativa alle spalle, e più sogni che certezze.

        Il fenomeno non è nuovo, ma nel 2025 è diventato strutturale. Secondo l’Istat, oltre il 66% dei giovani tra i 25 e i 34 anni vive ancora o di nuovo con i genitori. I motivi? Tanti, e spesso intrecciati. I costi dell’indipendenza sono diventati proibitivi: affitti alle stelle, bollette da capogiro, spese quotidiane che si sommano a stipendi ancora bassi e contratti spesso a tempo determinato.

        Ma c’è anche un’altra faccia della medaglia. Alcuni tornano per scelta, non per necessità. Per prendersi una pausa dopo una separazione, per dedicarsi a un master, per risparmiare e avviare un progetto. E in fondo, perché a casa si sta comodi: si mangia meglio, si spende meno, si condivide la quotidianità.

        Non mancano però le difficoltà. Vivere da adulti con altri adulti – che per di più ti hanno cresciuto – non è semplice. Si riaprono dinamiche familiari sopite, si ridefiniscono ruoli, si rinegoziano spazi e abitudini. “A volte mi sento un adolescente, anche se ho 32 anni e lavoro da sei”, racconta Marco, tornato a vivere dai genitori dopo la pandemia. “Ma poi la sera, quando torno stanco e c’è qualcuno che mi chiede com’è andata, capisco che questa convivenza ha anche del bello”.

        Molti genitori accolgono i figli con entusiasmo, ma non senza fatica. È una seconda genitorialità, fatta di affetto ma anche di rinunce: alla privacy, al silenzio, ai propri ritmi. “Non mi pesa averlo qui – dice Anna, madre di due figli trentenni – ma cerchiamo di non ricadere nei vecchi ruoli. Ognuno fa la sua parte, siamo coinquilini con affetto”.

        Il fenomeno apre molte domande. Sulla tenuta del mercato immobiliare, sul sistema occupazionale, sul significato stesso di indipendenza. Ma anche su un’idea di famiglia che cambia: più flessibile, meno gerarchica, forse più solidale.

        La generazione boomerang ci dice che crescere, oggi, non significa per forza andarsene per sempre. E che, a volte, tornare non è un passo indietro. Ma una nuova partenza.

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          Società

          Cyberbullismo a Modena: una tredicenne trova la forza di reagire grazie alla sua famiglia

          Insulti anonimi sui social, disforia di genere e il coraggio di una giovane che, grazie alla famiglia e al dialogo, ha trasformato una dolorosa esperienza in un percorso di crescita

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            La vicenda di una tredicenne modenese vittima di cyberbullismo ha riportato alla luce il dramma di tanti giovani emarginati e perseguitati, spesso per la loro diversità. In questo caso la ragazza, isolata e tormentata da messaggi anonimi su un social network, ha trovato il coraggio di confidarsi con i genitori. Ha mostrato loro gli screenshot di una chat in cui veniva presa di mira con frasi agghiaccianti come «Meglio dissanguata e vederla soffrire» e «Bruciamola». A ferirla ancora di più, la scoperta che dietro a questi attacchi di cyberbullismo c’era una sua cara amica.

            La pronta reazione della famiglia ha fatto la differenza

            La madre della ragazza ha contattato i genitori dell'”amica” coinvolta, mentre il padre ha sporto denuncia alla polizia postale. Le autorità, con grande sensibilità, hanno avviato un intervento educativo nella scuola, spiegando ai ragazzi le gravi conseguenze delle loro azioni. Nonostante il dolore, la tredicenne ha dovuto iniziare un percorso di recupero, supportata da una psicologa, che ha portato alla scoperta di una disforia di genere. La ragazza si sente maschio e ha fatto coming out con i genitori, trovando in loro un sostegno fondamentale.

            Gesti di omofobia, bullismo e cyberbullismo vanno contrastati sul nascere

            Questa storia si inserisce in un contesto più ampio di tragedie legate al bullismo e all’omofobia. Come quella di Andrea Spezzacatena, il ragazzo dai pantaloni rosa che si tolse la vita a 15 anni, o di Davide Garufi, tiktoker noto come Alexandra, che si è suicidato dopo essere stato bersaglio di insulti sui social. Tuttavia, a differenza di queste tragiche vicende, la tredicenne modenese ha trovato la forza di parlare, evitando un epilogo drammatico. Oggi, la ragazza si sta riavvicinando alla sua amica e affronta con maggiore serenità la vita scolastica, in attesa di cambiare scuola il prossimo anno.

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              Società

              La solitudine non è una colpa: perché siamo sempre più soli e perché va affrontata senza vergogna

              Non è solo un problema sociale, ma anche sanitario: la solitudine cronica aumenta il rischio di malattie. Serve una nuova narrazione: non è un fallimento personale, ma una condizione da riconoscere e curare

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                Non è solo un problema sociale, ma anche sanitario: la solitudine cronica aumenta il rischio di malattie. Serve una nuova narrazione: non è un fallimento personale, ma una condizione da riconoscere e curare

                Testo: La solitudine è una parola che fa paura. La pronunciamo sottovoce, la nascondiamo dietro schermi e agende piene, la confondiamo con la libertà. Eppure è sempre più presente nelle nostre vite. Secondo i dati ISTAT, oltre il 30% degli italiani si dichiara spesso o molto spesso solo. Tra gli anziani è una piaga silenziosa, tra i giovani un tabù modernissimo.

                Viviamo iperconnessi, ma disconnessi. I social ci illudono di essere in contatto, ma aumentano il senso di esclusione. Le città crescono, i legami si indeboliscono. Famiglie più piccole, vite più mobili, lavori più precari. E il risultato è un esercito di persone che si sentono invisibili.

                La solitudine, se protratta nel tempo, non fa male solo all’anima. Diversi studi scientifici hanno dimostrato che può influire sul sistema immunitario, aumentare il rischio di depressione, di demenze, perfino di infarti. L’OMS l’ha riconosciuta come uno dei problemi emergenti del XXI secolo.

                Eppure se ne parla poco, e quasi sempre con imbarazzo. Perché chi è solo tende a sentirsi colpevole: non abbastanza interessante, non abbastanza socialmente desiderabile. Ma la solitudine non è una colpa. È una condizione. E come tale va riconosciuta, affrontata, accompagnata.

                Servono spazi di relazione, politiche sociali, reti di supporto. Ma serve anche un cambio culturale. Riconoscere che la solitudine può toccare chiunque, in qualsiasi fase della vita. Che non è un difetto, ma un bisogno inascoltato. E che parlarne è il primo passo per uscire dal buio.

                La solitudine fa meno paura se la si chiama per nome. E se si comincia a costruire, attorno, una comunità che accoglie e non giudica.

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