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Lifestyle

Le leggende metropolitane sulla Pasqua: dal coniglio magico all’albero delle oche

La Pasqua non è solo una festività religiosa: nel corso dei secoli si è arricchita di simboli, miti e leggende metropolitane sorprendenti. Dal coniglietto pasquale con origini pagane al misterioso “albero delle oche”, passando per meme moderni e credenze bizzarre

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    La Pasqua, con le sue profonde radici religiose, si intreccia da secoli con credenze popolari, miti pagani, interpretazioni fantasiose e – più recentemente – meme virali. Alcune storie hanno basi storiche fragili, altre sono puro folclore, ma tutte testimoniano l’incredibile capacità umana di creare narrazioni per spiegare l’inspiegabile… o semplicemente per rendere più divertenti le tradizioni.

    Il simbolo più popolare della Pasqua laica è il coniglio pasquale, ma pochi conoscono le sue misteriose origini. Secondo una leggenda linguistica, il nome inglese Easter deriverebbe da Eostre, una dea sassone associata alla primavera e, secondo alcuni racconti successivi, accompagnata da una lepre. Tuttavia, l’unica fonte storica su questa divinità è il monaco Beda il Venerabile, che scrisse nell’VIII secolo che il culto era già scomparso. La figura della lepre venne aggiunta solo secoli dopo, da Jacob Grimm. Quel che è certo è che lepri e uova sono da sempre simboli di fertilità, e la tradizione del coniglio che porta uova colorate ha origini nella Germania del XVI secolo. La leggenda si è poi diffusa negli Stati Uniti con l’arrivo di immigrati tedeschi.

    Il meme di Ishtar: una fake news moderna

    Tra le leggende più diffuse online, una delle più persistenti riguarda la presunta origine della Pasqua nella celebrazione della dea Ishtar, che “si pronuncerebbe come Easter”. Il meme è stato condiviso anche da enti divulgativi, ampiamente smentito dagli studiosi. Non esiste infatti alcuna connessione etimologica, culturale o simbolica tra Ishtar e la Pasqua cristiana o ebraica. Un classico caso di confirmation bias, dove si cerca una coincidenza per rafforzare una tesi precostituita.

    L’albero delle oche: una leggenda medioevale “gastronomica”

    In Europa medievale si credeva che l’oca facciabianca non nascesse come gli altri uccelli, ma germogliasse da alberi misteriosi. Questa convinzione nasceva dall’ignoranza sulla migrazione degli uccelli e dalla somiglianza tra le oche e certi cirripedi trovati sulle spiagge. Si arrivò a sostenere che queste oche non fossero animali ma “frutti”, rendendole lecite durante il digiuno quaresimale. La Chiesa, tuttavia, intervenne con Papa Innocenzo III nel 1215, smentendo la teoria.

    Il capibara-pesce: leggenda o permesso speciale?

    Una leggenda molto diffusa in America Latina sostiene che un Papa avrebbe dichiarato il capibara, un grosso roditore acquatico, “pesce” per consentirne il consumo durante la Quaresima. Tuttavia, non esiste alcuna bolla papale a confermare questa storia. È però vero che in passato alcuni teologi classificavano mammiferi acquatici come lontre e castori tra i cibi “di magro”, creando un curioso compromesso tra biologia e dottrina.


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      Arte e mostre

      Il water d’oro di Cattelan all’asta per 10 milioni: “Ricchi o poveri, in bagno siamo tutti uguali”

      Il wc d’oro di Maurizio Cattelan, già installato al Guggenheim e poi rubato nella versione esposta nella casa natale di Churchill, torna protagonista: base da 10 milioni di dollari, pagabili anche in criptovalute. “Un cortocircuito tra oggetto comune e simbolo di potere: confondiamo valore e prezzo”, dice l’artista.

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        Da provocazione pop a reliquia del mercato dell’arte. “America”, il water in oro a 18 carati di Maurizio Cattelan, è pronto a tornare sotto i riflettori. Sotheby’s lo batterà all’asta il 18 novembre a New York, nella The Now and Contemporary Evening Auction, con una base che sfiora i 10 milioni di dollari. Non una cifra casuale: il peso dell’opera, 101,2 chili di oro massiccio, parla da sé.

        È l’unico esemplare oggi esistente: l’altro, quello collocato nel 2019 a Blenheim Palace — residenza storica inglese e casa natale di Winston Churchill — fu trafugato nella notte del 14 settembre e mai più ritrovato. Prima ancora, nel 2016, l’opera aveva fatto scalpore al Guggenheim di New York: un wc funzionante, accessibile al pubblico, che oltre centomila persone utilizzarono in un’esperienza definita dal museo “intimità senza precedenti con un’opera d’arte”.

        Arte, satira e filosofia da bagno
        Cattelan spiega così la genesi dell’opera: “In un museo ci sono molti spazi sacri e solo uno che non lo è mai: il bagno. Ho preso il water dal museo, l’abbiamo mandato in fonderia, l’abbiamo fuso in oro e riportato esattamente nello stesso posto”. Per installarlo, non curatori ma idraulici; per pulirlo, niente guanti bianchi ma guanti di gomma e anticalcare. Alta e bassa cultura, potere e quotidianità che si incontrano “nell’angolo meno nobile del museo”.

        E poi la frase che è già manifesto: “Che siate ricchi o poveri, che abbiate mangiato un hamburger del McDonald’s o una cena stellata Michelin, il risultato non cambia. È il ritratto di un’epoca che confonde valore e prezzo”.

        Dal jet dorato di Trump alla satira sociale
        L’opera, concepita prima dell’era Trump ma inevitabilmente riletta alla luce della sua estetica dorata, diventa simbolo di un mondo dove lo splendore sostituisce la sostanza. “Cattelan è un consumato provocatore mondiale”, osserva David Galperin, responsabile dell’arte contemporanea di Sotheby’s. Accostamenti inevitabili con Duchamp e la sua “Fountain”, ma qui il gesto è portato all’estremo: il monumento al potere, trasformato in toilette pubblica.

        Il successo di mercato non stupisce: l’artista ha già toccato i 17 milioni di dollari per “Him” e oltre sei per “Comedian”, la celebre banana attaccata al muro. Ora, per chi vorrà aggiudicarsi questo simbolo del contemporaneo, resta un dubbio: non tanto se valga dieci milioni, ma se sia possibile acquistare — e portarsi a casa — una satira feroce su ricchezza e vanità. In oro massiccio, naturalmente.

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          Cucina

          Monte Bianco, il dolce che profuma d’autunno: storia e ricetta del dessert più elegante delle Alpi

          Un classico intramontabile della pasticceria francese e italiana, nato dall’incontro tra castagne, panna e zucchero a velo. Il Mont Blanc conquista per la sua semplicità raffinata e per il sapore avvolgente che sa di bosco e di ricordi d’infanzia.

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          Mont Blanc

            È il simbolo della stagione fredda, quando i castagni regalano i loro frutti migliori e le prime nevi imbiancano le cime alpine. Il Monte Bianco, o Mont Blanc, è un dessert che racchiude nella sua semplicità tutto il fascino dell’autunno. Una montagna di dolcezza fatta di purea di castagne, panna montata e zucchero a velo che ricorda, nella forma, il celebre massiccio al confine tra Italia e Francia. Ma dietro la sua apparente semplicità si nasconde una storia lunga e affascinante, fatta di contaminazioni culinarie, eleganza e profumi di casa.

            Origini tra Francia e Italia: un dessert “di confine”

            Come per molti piatti storici, anche il Monte Bianco vanta origini contese. In Francia, dove è conosciuto come Mont Blanc aux marrons, viene attribuito alla tradizione piemontese e savoiarda, ma si è presto trasformato in un dolce simbolo della pasticceria parigina del XIX secolo.
            In Italia, invece, il Monte Bianco è considerato un orgoglio piemontese e valdostano, preparato fin dal Settecento nelle case borghesi e nei caffè storici di Torino. La leggenda vuole che la ricetta nasca come omaggio alla montagna più alta d’Europa, trasformata in un dessert scenografico in grado di celebrare la natura e la maestosità delle Alpi.

            Un dolce di castagne, ma anche di pazienza

            Alla base del Monte Bianco ci sono castagne di ottima qualità, preferibilmente quelle dei boschi piemontesi o toscani. Dopo essere state lessate con latte, vaniglia e un pizzico di sale, vengono passate finemente per ottenere una purea morbida, che poi viene dolcificata con zucchero e, secondo alcune versioni, aromatizzata con rum o cacao.
            La purea viene quindi modellata in sottili fili che, sovrapposti a spirale, formano la tipica “montagnetta”. Sopra, un generoso strato di panna montata fresca e una spolverata di zucchero a velo ricreano l’effetto della neve.

            «Il segreto di un buon Monte Bianco è la texture», spiega lo chef pasticcere torinese Luca Montersino. «La purea non deve essere né troppo asciutta né troppo liquida, e la panna va montata con delicatezza, per mantenerla leggera. È un equilibrio di consistenze: la morbidezza delle castagne incontra la leggerezza della panna, creando un contrasto armonioso».

            La ricetta tradizionale del Monte Bianco

            Ingredienti per 6 persone:

            • 600 g di castagne fresche o 400 g di castagne lessate
            • 250 ml di latte intero
            • 100 g di zucchero semolato
            • 1 baccello di vaniglia
            • 1 cucchiaio di rum o di brandy (facoltativo)
            • 300 ml di panna fresca da montare
            • 2 cucchiai di zucchero a velo
            • un pizzico di sale

            Preparazione:

            1. Incidere le castagne e lessarle per circa 30 minuti in acqua bollente. Una volta cotte, pelarle con cura e metterle in un tegame con il latte, la vaniglia e lo zucchero. Cuocere a fuoco basso fino a ottenere una consistenza cremosa.
            2. Eliminare la vaniglia e passare le castagne al setaccio o al passaverdura. Aggiungere il rum, se gradito.
            3. Disporre la purea su un piatto da portata e, con l’aiuto di uno schiacciapatate o di una sacca da pasticceria con beccuccio sottile, formare i classici fili di castagne che ricordano una montagna.
            4. Montare la panna con lo zucchero a velo e distribuirla a ciuffi sopra la purea. Spolverare infine con altro zucchero a velo per l’effetto “innevato”.

            Il dolce si serve freddo, ma non ghiacciato, per apprezzarne la morbidezza.

            Le varianti moderne del Monte Bianco

            Oggi, accanto alla versione classica, ne esistono diverse reinterpretazioni. Alcuni chef propongono una versione scomposta in bicchiere, con strati alternati di castagne e panna, altri aggiungono cioccolato fondente o marrons glacés per una nota più golosa. In Giappone, il Mont Blanc è diventato un fenomeno di culto: la base di castagne viene sostituita da purea di patate dolci o da tè matcha, dando vita a dolci colorati e raffinati.

            Un dessert che unisce tradizione e poesia

            Il Monte Bianco è più di un dolce: è una piccola opera d’arte che racchiude l’essenza dell’autunno, tra profumi di bosco e ricordi di infanzia. È il comfort food che scalda il cuore nelle giornate fredde e che, nonostante il suo aspetto scenografico, racconta una semplicità antica, fatta di ingredienti poveri e gesti lenti.
            Forse è per questo che, dopo secoli, continua a essere amato in tutta Europa: perché ogni cucchiaiata sa di casa, di neve e di tempo ritrovato.

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              Lifestyle

              Comunicare con un figlio adolescente: ascoltare prima di parlare

              Tra silenzi, ribellioni e incomprensioni, comunicare con un figlio adolescente può sembrare un’impresa impossibile.

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              adolescente

                C’è un momento nella vita di ogni genitore in cui il dialogo con il proprio figlio sembra interrompersi. Le parole diventano brevi, gli sguardi sfuggenti, le porte si chiudono. È il segnale che l’infanzia è finita e l’adolescenza — con tutta la sua forza e fragilità — è arrivata.
                Ma come si parla a un figlio che non vuole più ascoltare?

                Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’adolescenza è un periodo che va dai 10 ai 19 anni, segnato da profonde trasformazioni fisiche, emotive e sociali. In questa fase, il cervello è ancora in pieno sviluppo, in particolare l’area prefrontale, responsabile del controllo delle emozioni e delle decisioni. È per questo che gli adolescenti possono apparire impulsivi, sfidanti o contraddittori: non è mancanza di rispetto, ma parte del processo di crescita.

                L’arte di ascoltare senza giudicare

                «Il primo passo per parlare con un figlio adolescente è imparare ad ascoltare davvero», spiega Anna Oliverio Ferraris, psicologa e autrice di numerosi saggi sull’educazione. «I genitori spesso credono di comunicare quando in realtà danno istruzioni. Ma l’ascolto autentico implica sospendere il giudizio, accettare l’emozione del figlio anche quando è scomoda».
                Questo significa lasciargli spazio per esprimersi, anche se lo fa con rabbia o chiusura. Il genitore deve essere una “base sicura”, non un tribunale.

                La psicologa americana Lisa Damour, specialista in adolescenza e autrice di The Emotional Lives of Teenagers, aggiunge: «Quando un adolescente parla di un problema, non cerca una soluzione immediata, ma comprensione. Spesso basta dire: “Capisco che ti senti così” per aprire una breccia nel muro del silenzio».

                Né amici né carcerieri: trovare l’equilibrio

                Uno degli errori più comuni è oscillare tra due estremi: diventare troppo permissivi o eccessivamente autoritari. «Un genitore non deve essere né un amico né un carceriere», spiega Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva. «Serve autorevolezza, non autoritarismo. I limiti restano fondamentali, ma devono essere spiegati, non imposti».

                Quando un figlio contesta una regola, il genitore può usare il dialogo come strumento educativo: chiedergli perché la considera ingiusta, condividere le proprie ragioni e cercare un compromesso. È un modo per insegnargli a gestire il conflitto in modo costruttivo, una competenza chiave anche per la vita adulta.

                Il potere del linguaggio emotivo

                Anche le parole contano. Dire “non mi rispondi mai” è diverso da “mi piacerebbe capire cosa pensi”. Le frasi accusatorie alzano barriere, quelle empatiche le abbassano. Secondo uno studio pubblicato sull’American Journal of Family Therapy, i genitori che usano un linguaggio centrato sulle emozioni (“vedo che sei arrabbiato”, “mi sembri triste”) favoriscono nei figli un miglior sviluppo della regolazione emotiva e una maggiore autostima.

                Spesso gli adolescenti comunicano più con i gesti che con le parole: un silenzio, una porta sbattuta, uno sguardo basso. Saper leggere questi segnali è parte del dialogo. «Dietro ogni chiusura c’è un messaggio: non riesco a dirti come sto», osserva la psicoterapeuta Maria Rita Parsi.

                Quando serve chiedere aiuto

                A volte, però, il silenzio nasconde un disagio più profondo. L’UNICEF segnala che un adolescente su cinque soffre di disturbi d’ansia o depressione. In questi casi, il dialogo familiare può non bastare. Rivolgersi a un professionista — uno psicologo scolastico o un terapeuta — non significa “fallire” come genitori, ma proteggere il benessere del figlio.

                Gli esperti concordano su un punto: la fiducia non si impone, si costruisce giorno dopo giorno. E anche quando un ragazzo sembra respingere tutto, conserva dentro di sé l’immagine del genitore che lo ascolta e resta.

                Una relazione che cresce insieme

                Parlare con un figlio adolescente significa accettare che non sarà mai un dialogo lineare. Ci saranno incomprensioni, momenti di distanza e silenzi che fanno male. Ma in quei silenzi si nasconde una verità: l’adolescente non ha bisogno di un genitore perfetto, ma presente.
                Come scrive Pellai, «l’educazione non è un monologo, ma una danza: a volte guidi, a volte ti lasci guidare. L’importante è restare sulla stessa pista».

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