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I cani amano la loro vita più di quanto noi amiamo la nostra? La riflessione di Mark Rowlands

Nel libro The Word of Dog, Mark Rowlands analizza il modo in cui i cani vivono la loro vita con intensità e autenticità, senza essere paralizzati dall’autocoscienza riflessiva che caratterizza gli esseri umani. La loro felicità è immediata, il loro senso della vita naturale e totale.

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    Secondo il filosofo Mark Rowlands, i cani amano la loro vita più di quanto noi amiamo la nostra. Nel suo nuovo libro, The Word of Dog: What Our Canine Companions Can Teach Us About Living a Good Life, il professore dell’Università di Miami affronta un tema provocatorio: e se la vita di un cane fosse più significativa di quella del suo padrone? Se gli esseri umani si trascinano in un’esistenza fatta di dubbi e riflessioni, i cani vivono immersi nel presente, senza il fardello della consapevolezza riflessiva descritta da Jean-Paul Sartre.

    Un cane ama la sua vita con tutto ciò che ha, perché è tutto ciò che ha, scrive Rowlands, sottolineando la differenza fondamentale tra la nostra esistenza e quella dei nostri compagni a quattro zampe: noi esitiamo, analizziamo, valutiamo. Loro agiscono, senza rimpianti né esitazioni.

    L’assenza di riflessione come chiave della felicità

    Nel suo saggio, Rowlands non si limita a esplorare il comportamento animale, ma propone una lettura filosofica della loro esistenza. Secondo lui, un cane può provare più gioia di un essere umano proprio perché non è gravato dall’autocoscienza riflessiva che Sartre considerava una delle più grandi condanne dell’umanità. Un cane non si chiede se inseguire una palla abbia senso, non mette in discussione la ripetitività delle sue azioni. Lo fa e basta. E la gioia sta proprio in questo.

    L’autore porta l’esempio del suo pastore tedesco, Shadow, il cui testosterone alle stelle e l’atteggiamento dominante lo tengono lontano dai parchi per cani. Shadow non si preoccupa delle conseguenze delle sue azioni: marca il territorio, sfida altri cani, rincorre iguane per il semplice piacere di farlo, senza mai prenderne una. Per Rowlands, questo comportamento è simile alla punizione eterna di Sisifo, costretto a spingere un masso su per una collina solo per vederlo rotolare giù. La differenza? Shadow lo fa con entusiasmo, ogni giorno, senza domandarsi perché.

    Vivere una vita da attori, non da spettatori

    La teoria di Rowlands è chiara: i cani non sono spettatori della propria esistenza, non stanno a guardare e giudicare ciò che accade. Sono attori e autori della loro vita, mentre gli esseri umani oscillano costantemente tra il vivere e il riflettere su ciò che vivono, finendo spesso per paralizzarsi nel dubbio.

    «Trovare un senso alla vita è difficile per noi, ma facile per i cani», afferma Rowlands. «La felicità di un cane erutta dalla sua natura più profonda, mentre per noi è un risultato duramente conquistato e raramente raggiunto.»

    Mentre noi ci tormentiamo con analisi e bilanci, i cani semplicemente esistono, vivono il momento e lo amano per quello che è. Non si chiedono se le loro vite abbiano significato, non si pongono domande esistenziali. E proprio per questo, paradossalmente, potrebbero essere più vicini alla felicità di quanto lo saremo mai noi.

    L’uomo diviso in due vite, il cane nella sua unica esistenza

    Per Rowlands, la vita di un cane è più significativa della nostra perché non è divisa. Noi viviamo due vite: quella che trascorriamo e quella che osserviamo dall’esterno, analizzandola, giudicandola, riconsiderandola. Un cane ha una sola vita, e la vive fino in fondo.

    «Non potremo mai amare le nostre due vite con la passione di un cane», scrive Rowlands. Un cane ha una sola vita, e di questa è attore e non spettatore, autore e non critico.

    Forse dovremmo imparare da loro. Forse la vera chiave per una vita più felice è smettere di chiederci il perché di ogni cosa e, semplicemente, vivere.

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      Libri

      Marco Liguori e la nave dei misteri: “Caterina Costa” vince il Premio Senato Accademia alla Biennale Seneca di Bari

      Definito dalla giuria «un atto dovuto alla memoria storica», il libro di Marco Liguori ricostruisce con rigore documentale e passione civile l’esplosione della nave Caterina Costa. Per l’autore è il 17° riconoscimento letterario in carriera, dopo i successi all’“Acqui Edito e Inedito” e al “Sigillo di Dante”.

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        La memoria come atto di giustizia. È con questo spirito che Marco Liguori ha scritto “Caterina Costa, la nave dei misteri” (De Ferrari Editore, 2023), il saggio storico che gli è valso il Premio Senato Accademia nella sezione Libri editi di saggistica alla IX edizione del Premio Accademico Internazionale di Letteratura Contemporanea “Lucio Anneo Seneca”, svoltasi a Sannicandro di Bari.

        Un riconoscimento importante, motivato da parole che restituiscono tutta la forza del suo lavoro: «Un libro di eccezionale valore storico, documentale e narrativo – si legge nella nota della giuria firmata dalla prof.ssa Maria Teresa Infante La Marca – con cui l’autore ha ricostruito una delle più tragiche e oscure vicende della Seconda Guerra Mondiale: l’esplosione della nave Caterina Costa nel porto di Napoli il 28 marzo 1943».

        Liguori, giornalista e scrittore, ha scelto di affrontare un tema rimasto a lungo ai margini della memoria collettiva. Nel suo saggio ripercorre la catena di eventi, omissioni e silenzi che portarono alla deflagrazione del mercantile carico di munizioni, esplosione che devastò il porto partenopeo provocando oltre seicento vittime. Attraverso testimonianze inedite e un minuzioso lavoro di ricerca archivistica, l’autore riporta alla luce nomi, volti e responsabilità, trasformando un fatto di cronaca bellica in una riflessione civile sulla rimozione della memoria.

        La giuria ha sottolineato «l’approccio multidisciplinare, la precisione metodologica e la capacità di unire l’urgenza della verità storica alla profondità del racconto umano». “Caterina Costa, la nave dei misteri” diventa così un ponte tra passato e presente, un monito contro l’oblio e le verità taciute.

        Con questo premio, Liguori aggiunge un nuovo traguardo al suo percorso letterario: è infatti il 17° riconoscimento ottenuto in concorsi nazionali e internazionali. Tra i più prestigiosi, il Premio Acqui Edito e Inedito 2022, il Premio “Il Sigillo di Dante” 2024 promosso dalla Società Dante Alighieri di La Spezia – di cui è Ambasciatore – e i recenti secondi posti agli Assosinderesi Awards e al Premio Il Delfino 2025.

        Un autore che continua a dare voce alla storia, ricordando che anche dalle pagine dimenticate del passato può nascere la coscienza di un Paese.

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          Libri

          Ornella Muti si confessa: “Celentano? È stato amore, ma una violenza raccontarlo senza chiedermi il permesso”

          Dal primo amore con Montezemolo al rapporto tormentato con Celentano, fino alle ombre dell’infanzia e alla forza della maternità: “Scrivere è stata una psicanalisi. Ti guardi indietro e dici: ma dov’ero?”. Un ritratto fragile e lucido di una diva che non smette di sorprendere.

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            “Il mio primo fidanzato è stato Luca Cordero di Montezemolo. Era pazzo. Correva in mezzo alla strada e urlava ‘Ti amo!’”. È una Ornella Muti inedita quella che si racconta, a settant’anni, nella sua autobiografia Questa non è Ornella Muti, in uscita per La Nave di Teseo. Un libro che è insieme confessione, resa dei conti e liberazione.

            “Se questa non è Ornella Muti, chi è?”, le chiede l’intervistatore. “All’anagrafe sono Francesca Rivelli, ma Francesca chi la conosce veramente? Ho sempre avuto pudore a raccontarmi. Ora scrivere è stata una psicanalisi, mi ha fatto anche male. Ti guardi indietro e dici: ma dov’ero?”.

            Dentro ci sono tutti i suoi fantasmi, ma anche gli amori che hanno fatto scalpore. “Celentano? Che fossimo stati insieme l’ha detto lui, senza chiedermi il permesso. È stata una violenza. Io aggiungo che è stata una storia breve, ma d’amore. Non concepisco il sesso per il sesso. Per lui ho tradito mio marito.” E poi, con ironia: “Alain Delon? Non è successo niente. Ma avrebbe potuto, forse.”

            C’è spazio anche per i ricordi teneri e quelli più dolorosi: “A quattro anni mia madre mi portò in Svizzera dalla zia e mi lasciò lì un anno e mezzo. Non capivo una parola di tedesco, e quando tornai non conoscevo più l’italiano. Non fu un abbandono, ma lo vissi come tale.”

            Tra i grandi della commedia italiana, Ornella ricorda con affetto Ugo Tognazzi, Dino Risi, Marcello Mastroianni e Alberto Sordi: “Diceva sempre: ‘Sordi, Muti, e ’ndo stanno i ciechi?’”. Ma nel libro non mancano le zone d’ombra: “Ho provato l’Lsd. Un’amica lo prese e si buttò dalla finestra. Io mi sono salvata grazie a mia figlia. Lei mi ha rimesso coi piedi per terra.”

            Un racconto sincero, pieno di contraddizioni e dolce malinconia. Non è solo il ritratto di un’attrice: è la confessione di una donna che ha vissuto tutto — amori, errori, libertà — con lo stesso, irriducibile sgomento.

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              Addio a Francesco Recami, il giallista dell’ironia e dell’anomalia

              Malato da tempo, Recami si è spento a Firenze, la sua città natale. Dalle guide di montagna ai gialli più amati dal pubblico, la sua penna ha raccontato l’Italia delle piccole ipocrisie e dei grandi segreti. Il suo ultimo libro, Il mostro del Casoretto, era uscito solo poche settimane fa.

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                Si è spento a 69 anni Francesco Recami, uno degli autori più originali e riconoscibili della narrativa italiana contemporanea. Nato a Firenze nel 1956, era malato da tempo ma non aveva mai smesso di scrivere: il suo ultimo romanzo, Il mostro del Casoretto, è uscito da pochi giorni per Sellerio, la casa editrice che lo ha accompagnato per tutta la carriera.

                Recami aveva un talento raro: trasformare il giallo in un laboratorio di ironia, linguaggio e critica sociale. Nei suoi libri il delitto era spesso solo un pretesto per scavare nelle ossessioni quotidiane, nei tic e nelle manie dell’Italia di provincia. La sua scrittura, sempre limpida e pungente, metteva in crisi l’idea stessa di “normalità”.

                Dopo gli esordi con due guide di montagna e alcuni libri per ragazzi, pubblicò nel 2006 il suo primo romanzo per adulti, L’errore di Platini, ma il vero successo arrivò un anno dopo con Il correttore di bozze, storia di un uomo comune intrappolato in un quotidiano paradossale. Da lì nacque una carriera luminosa, segnata da titoli come La casa di ringhiera, L’arte di riparare le donne, Commedia nera n.1 e La verità su Amedeo Consonni, che fecero di Recami uno degli autori più amati dal pubblico di Sellerio.

                Amava definirsi “un narratore del normale che si incrina”, e in effetti i suoi protagonisti erano spesso figure di confine: pensionati sospettosi, vicini impiccioni, mariti stanchi o donne invisibili che, tra una bugia e un delitto, rivelavano tutta la fragilità del nostro tempo.

                Negli ultimi anni aveva alternato la scrittura alla vita appartata nella sua Firenze, continuando a osservare con sguardo ironico e malinconico il mondo che cambiava.

                Con la morte di Francesco Recami se ne va una voce unica, capace di raccontare il giallo non come formula, ma come specchio deformante e verissimo dell’animo umano.

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