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Società

AAA amici cercasi: dal social eating al social travelling

Il social eating e il social travelling sono fenomeni che stanno trasformando il modo in cui le persone, si cercano, interagiscono e si connettono. Offrono nuove opportunità di socializzazione e convivialità, superando i confini fisici e culturali.

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    Il “social eating” e il “social travelling” sono le due nuove frontiere digitali della socialità. Si tratta di fenomeni nati dall’esigenza di ampliare le proprie conoscenze e connessioni sociali oltre i consueti luoghi quotidiani, grazie a piattaforme online che facilitano incontri e esperienze condivise.

    Dalle osterie di piazza ai siti di incontri

    Le app che consentono a sconosciuti di incontrarsi non sono una novità. Ce ne sono decine e decine. Ma in passato come si faceva? In passato i luoghi di incontro per eccellenza erano le osterie e le piazze delle città italiane. Oggi, l’interazione sociale si è spostata online, specialmente dopo la pandemia di Covid-19, che ha modificato profondamente la nostra socialità.

    Social eating, un ponte tra sconosciuti

    Il social eating è un fenomeno che vede lo smartphone come un ponte tra sconosciuti. Una delle forme più diffuse è l’”Home restaurant“, dove i proprietari di casa si improvvisano chef e organizzano cene con sconosciuti. Altre attività includono eventi in ristoranti, cinema, teatri e musei. Le “Cesarine”, ad esempio, sono una rete di cuoche casalinghe che offrono esperienze culinarie tradizionali italiane ai viaggiatori. Un percorso non facile perché prima di fare parte a pieno titolo di questo club bisogna fare valere le proprie doto culinarie ma anche quelle dell’ospitalità e della cura per i particolari.

    Social travelling, una scelta condivisa

    Il social travelling funziona in modo simile al social eating. Si sceglie una meta, si paga un pacchetto e si parte con sconosciuti, accompagnati da una guida che organizza la visita. Anche in questo caso, il bisogno di socialità e comunità è centrale, permettendo di creare connessioni e vivere esperienze condivise.

    Cosa si nasconde dietro questi fenomeni?

    Il fenomeno del social eating e social travelling è studiato da sociologi e psicologi. Rientra nella categoria dei lifestyle facilitator, un termine coniato nel 2005 che si riferisce all’accesso a stili di vita diversi dal proprio. Il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman questi fenomeni li definisce “liquid consumption“, un consumo transitorio che valorizza la convivialità e la socialità.

    Creare comunità per combattere la solitudine, male del secolo

    Queste esperienze non riguardano solo il cibo o i viaggi, ma la possibilità di creare comunità e combattere la solitudine. Iniziative del terzo settore offrono a basso costo opportunità di socialità per chi non ha famiglia o amici, rivoluzionando mercati come il co-housing e la silver economy. I principali utilizzatori di questi servizi sono la Gen Z e i Millennials.

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      Società

      I lavori più pagati senza laurea: ecco quali mestieri garantiscono stipendi da capogiro

      Dal tecnico ascensorista al pilota di aerei privati, passando per programmatori, investigatori privati e fotografi: scopri quali lavori possono far guadagnare anche oltre 80.000 euro all’anno senza bisogno di un titolo universitario.

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        Chi l’ha detto che senza laurea si resta condannati a stipendi modesti e a lavori poco gratificanti? La realtà è ben diversa: esistono numerose professioni che garantiscono ottimi guadagni senza richiedere anni di studio universitario.

        Certo, in alcuni casi sono necessarie certificazioni, esperienza o formazione specifica, ma in altri basta talento, dedizione e un po’ di intuito per il settore giusto. E non stiamo parlando solo di qualche migliaio di euro in più: alcune professioni possono arrivare a garantire stipendi a sei cifre.

        Artisti, sportivi e investigatori privati: stipendi stellari senza università

        Tra i lavori più redditizi ci sono sicuramente quelli legati al mondo dello spettacolo e dello sport. Musicisti, artisti e attori non sempre provengono da accademie o conservatori, eppure chi riesce a sfondare può guadagnare cifre incredibili.

        Stesso discorso per gli atleti professionisti: calciatori, giocatori di golf, pallavolisti e sportivi di alto livello arrivano a stipendi milionari senza aver mai frequentato un’università.

        Un altro mestiere sorprendentemente redditizio è quello dell’investigatore privato. Anche se può sembrare un lavoro da film noir, questa professione esiste ancora oggi e, per chi ha esperienza e una buona rete di contatti, può fruttare fino a 100.000 euro all’anno.

        Tecnici specializzati: stipendi da manager per chi ha le giuste competenze

        Non bisogna per forza essere sotto i riflettori per guadagnare bene. Alcuni lavori tecnici richiedono solo una formazione specifica e possono garantire stipendi molto competitivi.

        Uno degli esempi più clamorosi è il tecnico installatore e manutentore di ascensori e scale mobili. La responsabilità è alta, ma lo è anche la retribuzione: in media, un professionista in questo settore può guadagnare tra i 50.000 e i 70.000 euro all’anno, con possibilità di aumentare la cifra grazie agli straordinari e alle specializzazioni.

        Anche il mondo della fotografia può essere una miniera d’oro, soprattutto per i paparazzi e i fotografi professionisti ben inseriti nel settore. Chi lavora nei giusti ambienti e riesce a scattare le immagini più richieste può superare i 100.000 euro lordi all’anno.

        Piloti e specialisti dei droni: quando la tecnologia paga

        Un’altra carriera ben pagata e accessibile senza laurea è quella del pilota commerciale di aerei privati o di voli cargo. Certo, serve ottenere una licenza e superare corsi di formazione specifici, ma non è necessario un titolo universitario. Gli stipendi medi partono dai 60.000 euro annui e, con l’esperienza, possono superare i 90.000 euro.

        Un settore in forte crescita è quello dei droni: sempre più aziende richiedono piloti specializzati per riprese cinematografiche, operazioni di sorveglianza o consegne. Con la giusta esperienza e certificazioni, anche in questo caso si possono raggiungere guadagni considerevoli.

        Sviluppatori e informatici: stipendi da capogiro per chi sa programmare

        Se c’è un settore in cui la laurea non è indispensabile, è quello dell’informatica. Molti sviluppatori web e programmatori sono autodidatti o hanno seguito corsi privati, ma riescono comunque a guadagnare cifre elevate.

        Lo stipendio medio di un programmatore in Italia parte dai 40.000 euro all’anno e può superare gli 80.000 euro annui per chi si specializza in ambiti richiesti come la cybersecurity o lo sviluppo di app. Senza contare che, con il lavoro da remoto, molti riescono a ottenere incarichi internazionali e compensi ancora più alti.

        Talento, esperienza e formazione pratica valgono più di una laurea

        Non avere una laurea non significa rinunciare a una carriera di successo. Al contrario, alcuni dei mestieri più pagati si basano su esperienza, capacità tecniche e intuizione. Dallo spettacolo alla tecnologia, dall’artigianato alla fotografia, il mercato del lavoro offre opportunità ben retribuite anche per chi ha scelto strade alternative all’università.

        L’importante è saper cogliere le occasioni giuste, investire nella propria formazione pratica e puntare su settori in crescita. Perché, in fin dei conti, il successo non si misura solo con un diploma appeso al muro.

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          Società

          Parigi fa pagare un parcheggio speciale ai SUV. E noi?

          La normativa introdotta a Parigi rappresenta un tentativo di gestire la crescita irrefrenabile dei veicoli ingombranti, in particolare i SUV. Tuttavia, affrontare il problema delle dimensioni dei veicoli richiede una strategia complessiva che consideri non solo i SUV, ma anche le auto di tutte le categorie. Soluzioni innovative per i parcheggi e una maggiore diversificazione dell’offerta dei veicoli potrebbero aiutare a risolvere questo complesso rebus per gli automobilisti e le città.

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            Da qualche mese il Comune di Parigi ha introdotto una normativa che prevede la valutazione delle dimensioni, del peso e del consumo di carburante dei veicoli per determinare il costo orario di parcheggio. Questa misura mira a contrastare la presenza massiccia di SUV nella capitale francese e sta già influenzando altre città europee, come Milano, che stanno considerando di adottare strategie simili.

            Pagare in base alle dimensioni dei Veicoli

            I SUV, soprattutto quelli di medie e grandi dimensioni, sono spesso criticati per il loro peso e i consumi elevati. Tuttavia, il problema delle dimensioni non riguarda solo i SUV. Le auto di tutte le categorie, inclusi i veicoli urbani, sono diventate più larghe e lunghe nel tempo. La cessazione della produzione della Smart Fortwo, ad esempio, ha limitato le opzioni per chi cerca veicoli esclusivamente urbani, favorendo l’aumento delle immatricolazioni di quadricicli leggeri.

            Veicoli sempre più lunghi

            Secondo una ricerca di Transport & Environment (T&E), ogni due anni le auto diventano più larghe di circa 1 cm. Attualmente, con una larghezza media di 180,3 cm, il 52% delle nuove auto vendute è troppo largo per gli spazi di parcheggio standard in molti Paesi. Questo fenomeno interessa non solo i SUV, ma anche molte altre categorie di veicoli.

            I parcheggi restano inadeguati

            In Europa, tutti i veicoli devono rispettare una larghezza massima di 255 cm, che siano auto, autobus o camion. Questo standard uniforme crea un paradosso poiché i parcheggi standard da 180 cm e persino quelli da 240 cm risultano spesso troppo stretti. Molti SUV moderni hanno una larghezza di circa 200 cm, rendendo difficile salire e scendere dai veicoli nei parcheggi.

            Ci sono anche problemi di sicurezza

            L’altezza dei SUV, sebbene non influenzi direttamente l’occupazione del suolo, li rende più pericolosi per i pedoni e i ciclisti in caso di incidenti. Le carreggiate, sempre più strette e le piste ciclabili ricavate con semplici linee sull’asfalto, aggravano la situazione, aumentando i rischi per tutti gli utenti della strada.

            Quali soluzioni adottare per contenere le dimensioni

            La tendenza a ridurre la presenza di veicoli nei centri urbani, insieme a tariffe maggiorate per le auto ingombranti, crea difficoltà per chi ha bisogno di una vettura da famiglia. Molti costruttori si sono concentrati sulla produzione di SUV, lasciando poche alternative ai consumatori. Inoltre, molti box privati, progettati decenni fa, non sono più adeguati per contenere i veicoli moderni, complicando ulteriormente la situazione dei parcheggi.

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              Treccani cancella il “vu cumprà”: la lingua inchinata al politicamente corretto

              Dal trash televisivo ai dizionari seri, dai venditori in spiaggia alla censura postuma: “vu cumprà” sparisce dal lessico accettabile. Ma chi cancella una parola, cosa sta davvero cercando di rimuovere?

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                C’era un tempo in cui il “vu cumprà” era ovunque. In spiaggia, in tivù, nei cinepanettoni e persino nei dizionari. Una formula nata dal basso, romagnola d’origine, per descrivere i venditori ambulanti — quasi sempre neri — che offrivano occhiali tarocchi, collanine e borse improbabili tra un pedalò e un cocco fresco. Poi, d’improvviso, il silenzio. La parola è diventata impronunciabile. E ora la Treccani ne firma il necrologio.

                A decretarne la morte è un saggio di Rocco Luigi Nichil, pubblicato sulla rivista Lingua Italiana. Lì, con tono accademico e penna raffinata, si certifica che “vu cumprà” è un’espressione razzista, figlia di un’Italia che non c’è più — o che finge di non esserci più. E se un tempo era nel Devoto-Oli con la definizione “venditore ambulante, generalmente negro”, oggi basta quel “generalmente” per rischiare il linciaggio social.

                Negli anni Ottanta, “vu cumprà” era sulla bocca di tutti. Antonio Ricci ci costruì sopra un personaggio trash: Mazouz M’ Barek, alias Patrick. Gianfranco D’Angelo ne fece una maschera nel film Rimini Rimini. Era folklore, era satira, era Italia. Poi arrivò la stretta morale. Il termine scomparve dai media, sostituito da silenzi imbarazzati e metafore sghembe: oggi c’è il “bangla”, il “rosario”, il “paki”. Più sottili, meno ufficiali, ma non meno razzisti.

                Il problema, però, non è la parola. È il disagio che ci trasciniamo dietro. È l’idea che basti cancellare un termine per salvarsi l’anima. Ma togliere “vu cumprà” dai dizionari non ci rende più giusti. Solo più ipocriti. Perché alla fine, sulle spiagge di oggi come su quelle dell’86, continuiamo a dire no con la testa e sì con cinque euro. E a parlare male, anche quando facciamo finta di aver imparato a farlo bene.

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